Distribuzione sicura di acqua potabile con SafeCREW

Si è svolto il secondo meeting del progetto SafeCREW (https://safecrew.org/), finanziato dall’Unione Europea nell’ambito dei bandi Horizon Europe, che intende supportare l’applicazione della nuova direttiva europea sull’acqua potabile (Drinking Water Directive, DWD) generando conoscenze avanzate e sviluppando strumenti e linee guida per la gestione dei sistemi di produzione e distribuzione di acqua potabile, in breve i sistemi acquedottistici, disinfettati e non disinfettati.

La fornitura di acqua potabile sicura in quantità sufficiente è essenziale per la salute umana e riguarda 4 dei 17 Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (Sustainable Development Goals, SDG) definiti dalle Nazioni Unite. Sia le acque superficiali che quelle sotterranee sono risorse essenziali per l’approvvigionamento di acqua destinata al consumo umano in tutta l’Unione Europea. Mentre si pone grande attenzione alla disponibilità di acqua, minacciata da sempre più frequenti periodi di siccità, sono del tutto trascurate le conseguenze del cambiamento climatico sulla qualità dell’acqua approvvigionata, sui processi necessari per la sua potabilizzazione e sul mantenimento della qualità potabile lungo la rete di distribuzione.

Nonostante la lunga esperienza sull’affidabilità di funzionamento dei sistemi acquedottistici, gli impatti del cambiamento climatico sulla qualità dell’acqua impongono di affrontare nuove e molteplici sfide: la (futura) necessità di disinfezione, la stabilità microbica in rete di distribuzione, la formazione di sottoprodotti di disinfezione (DBPs), con potenziali effetti sulla salute umana.

Le aziende del servizio idrico integrato devono rispondere a queste sfide, sia nel breve che nel lungo termine, per una gestione ottimale degli attuali sistemi acquedottistici, che minimizzi il rischio per i consumatori, garantendo acqua potabile sicura anche in scenari di cambiamento climatico.

Attualmente, i sistemi acquedottistici sono assai diversificati per fonte di approvvigionamento, processi di potabilizzazione, caratteristiche delle reti di distribuzione, dovendo perciò fronteggiare criticità molto diverse per fornire acqua potabile sicura. SafeCREW affronta tali criticità, concentrandosi sul processo di disinfezione, le sue conseguenze e la riduzione al minimo dei dosaggi di disinfettante e la formazione di DBPs. Inoltre, affronta la potenziale necessità di disinfezione in sistemi acquedottistici attualmente non disinfettati.

Quattro casi di studio in tre paesi europei sono stati scelti come rappresentativi (Amburgo, Berlino, Milano, Tarragona) per sviluppare strumenti tecnologici e modellistici per gestire trattamento e distribuzione, con un approccio multidisciplinare che consenta di agire sull’intero sistema acquedottistico, dalla fonte di approvvigionamento al trattamento di potabilizzazione, dalla distribuzione fino al consumatore.

In dettaglio, saranno migliorati i metodi di caratterizzazione chimica e microbiologica della qualità dell’acqua, create banche dati sulla presenza, concentrazione e tossicità di DBPs finora sconosciuti, identificati protocolli di valutazione dei materiali in contatto con l’acqua, sviluppate soluzioni di trattamento innovative e sostenibili per rispondere attivamente alle minacce identificate, ottimizzata la gestione delle reti di distribuzione che non possono più essere viste solo come infrastrutture passive deputate al trasporto dell’acqua, definite procedure di valutazione del rischio che integrino gli effetti di miscele di contaminanti chimici e microbiologici.

SafeCREW vuole fornire strumenti trasferibili agli attori coinvolti (gestori dei servizi idrici, regolatori nazionali/UE, ricercatori, imprese), tra cui:

  • metodi affidabili per valutare la stabilità microbica, caratterizzare la sostanza organica naturale (Natural Organic Matter, NOM), rilevare i DBPs e tenere conto della loro tossicità per la salute umana;
  • protocolli sperimentali per selezionare i materiali più adeguati al contatto con acqua disinfettata e non disinfettata;
  • strumenti di monitoraggio e modellazione, anche sfruttando il machine learning, per l’ottimizzazione in tempo reale della gestione dei sistemi acquedottistici;
  • procedure integrate di valutazione del rischio, per guidare i futuri interventi di adeguamento dei sistemi acquedottistici disinfettati e non disinfettati, affinché continuino a fornire acqua potabile sicura anche in scenari di cambiamento climatico.

SafeCREW aumenterà la preparazione del settore idrico dell’Unione Europea alle sfide derivanti dal cambiamento climatico, e supporterà i leader dell’UE nell’elaborazione di politiche basate sulla scienza per la protezione dei consumatori di acqua potabile.

Il progetto SafeCREW unisce in partenariato 11 organizzazioni europee: oltre al Politecnico di Milano, il Centro di Ricerca DVGW (German Technical and Scientific Association for Gas and Water, Capofila) e Tutech Innovation GmbH, entrambi della Hamburg University of Technology (TUHH) (Germania), Kompetenzzentrum Wasser Berlin (KWB) (Germania), BioDetection Systems b.v. (BDS) (Paesi Bassi), EURECAT Technologic de Catalunya (Spagna), Umweltbundesamt (UBA) (Germania), Consorci d’Aigües de Tarragona (CAT) (Spagna), Metropolitana Milanese SpA (Italia), Umweltforschungszentrum Leipzig (Helmholtz Centre for Environmental Research, UFZ) e Multisensor Systems Ltd. (MSS) (Regno Unito).

In SafeCREW il Politecnico di Milano porta competenze multidisciplinari grazie alla collaborazione di ricercatori di quattro dipartimenti: Dipartimento di Ingegneria Civile e Ambientale (DICA, prof. Manuela Antonelli), Dipartimento di Chimica, Materiali e Ingegnera Chimica “Giulio Natta” (DCMC, prof. Carlo Punta), Dipartimento di Matematica (DMAT, prof. Ilenia Epifani) e il Dipartimento di Elettronica, Informazione e Bioingegneria (DEIB, prof. Francesco Trovò).

Un’Alumna per il Padiglione Panama alla Biennale di Venezia 

“Dal mondo antico, i tropici sono stati ampiamente riconosciuti come simbolo di bellezza esotica, animali pericolosi e vegetazione rigogliosa. Raffigurata come un luogo lontano, con storie, lingue e culture diverse, questa zona geografica rappresenta una miscela di qualità che definiscono la natura fantastica e misteriosa della realtà. Spesso considerati dal punto di vista occidentale come un ambiente ostile al progresso, i tropici rappresentano tutto ciò che l’Europa e gli Stati Uniti non sono (Lasso, 2019), l’antitesi della modernità civilizzata. L’esposizione del Padiglione panamense dovrebbe fornire una contro-narrazione a questo status quo, con Panama come caso studio per una visione futura di una nazione ‘tropicale’, recuperando e collegando le sue varie influenze storiche”. 
Aimée Lam Tunon, curatore della mostra 

SALA 1: SEPARAZIONE PER IL CONTROLLO

Per oltre 500 anni, l’istmo di Panama, una sottile striscia di terra meglio conosciuta come “il ponte di terra tra due oceani”, si è dimostrato una regione di importanza geopolitica globale nel settore dei trasporti. Sin dai primi colonizzatori europei, la storia panamense è stata plasmata dal tema ricorrente del commercio. Con la scomparsa dell’influenza spagnola e il controllo coloniale sulla regione all’inizio del XIX secolo, altri paesi iniziarono a perseguire i loro interessi economici attraverso la costruzione di un canale che collegasse i due oceani. Un primo tentativo fu guidato dai francesi: con un bilancio di oltre 22.000 morti, principalmente causati da malaria e febbre gialla, Panama fu immortalato come un luogo di pericolo e malattia. Dopo il fallimento dei francesi, gli Stati Uniti entrarono nella nuova nazione di Panama con una visione distintiva dell’amministrazione imperiale: la Zona del Canale di Panama. 

Più che una colonia, si trattava di un’enclave ingegneristica, una striscia di terra di dieci miglia destinata a contrapporsi al suo ambiente naturale e sociale, definendo un paesaggio di modernità. All’interno di questi confini, una narrativa e un’ideologia di “altro” portarono alla delimitazione di zone sanificate, all’addomesticazione della giungla, alla segregazione razziale e alla depopolazione della “zona” da parte dei panamensi e delle loro città. Questa “zona cuscinetto” di protezione tra il colonizzatore e il colonizzato è una struttura architettonica in grado di attivare discorsi più ampi di uguaglianza, potenziamento e identità in un ambiente in continua evoluzione. Crea uno spazio liminale in cui il rapporto con la terra – che è minacciato perché la comunità è alienata – diventa fondamentale, smette di essere meramente decorativo ed emerge come un personaggio completo (Glissant, 1989). 

La prima stanza sposterà l’attenzione dei visitatori sugli impatti di questi interventi di controllo e separazione (zone) che definiscono la ex Zona del Canale di Panama. Insetti e zanzare di Venezia sono invitati nello spazio attirati dalle apposite luci blu. Le ombre danzanti di questi insetti sulle pareti collegano la prospettiva del colonizzatore con l’allegoria della caverna di Platone: le moderne supposizioni sui “tropici” sono esposte come mere illusioni osservate da lontano.  

IL CORTILE: IL PERCORSO MAGICO SOTTO LA SUPERFICIE

I ricordi influenzano l’autoidentificazione e forniscono continuità tra passato, presente e futuro. Diventano allusioni, echi e reminiscenze che creano molteplici connotazioni, definendo la complessità dell’organismo architettonico. Dato il potere del modernismo nell’eliminare le storie e le lingue indigene, le comunità locali panamensi sono state perse nel processo di costruzione del canale, con il risultato della dominazione di un’ideologia singolare di progresso umano, ordine e controllo. 

La distruzione di piccoli villaggi, aree storiche, insediamenti rurali e paesaggi panamensi, ha evocato sentimenti di nostalgia per l’ambiente che era e il desiderio di preservarne l’immagine nella memoria collettiva, il che si riflette nel tema ricorrente del paesaggio nella letteratura panamense. “Gli scrittori caraibici hanno sempre avuto a disposizione solo un referente per plasmare il tema e il linguaggio delle loro opere: il paesaggio – insulare, oceanico, lussureggiante, misterioso e sempre resistente alla conquista e all’appropriazione tramite mappe o descrizioni “realistiche”. (…) Questo è uno dei precetti fondamentali del testo magico-realista. Solo la magia e il sogno sono veri perché sono gli unici elementi discorsivi capaci di presentare l’impresentabile, di parlare dell’indicibile dove il testo realistico fallisce”. (Arva, 2010) Seguendo questa linea di pensiero, il cortile fornirà uno spazio sicuro per la riflessione, evitando il confronto diretto con il trauma coloniale, al fine di sovvertire la percezione occidentale dei ‘tropici’ come terra ‘magica’. Alberi recuperati dalle acque dei laghi artificiali di Panama consentiranno ai visitatori di interfacciarsi indirettamente con la storia traumatica delle comunità cancellate attraverso la costruzione del canale (Lasso, 2019).

SALA 2: SEPARAZIONE PER PROTEZIONE

L’Isola di Barro Colorado (BCI) è uno spazio unico, una collina isolata nel mezzo del Canale di Panama quando le acque del fiume Chagres furono sbarrate per creare il Lago di Gatun, il principale passaggio della via navigabile. Riservata dallo Smithsonian Tropical Research Institute come riserva naturale dal 1923, oggi, esattamente 100 anni dopo, quest’ isola è la foresta tropicale più studiata al mondo. Spesso pubblicizzata come un “archivio” scientifico vivente e un “laboratorio” in cui il paesaggio è diventato sia oggetto che deposito di conoscenze scientifiche.  

Discutendo le presunte prospettive opposte nei confronti di BCI come “un frammento di autentica natura tropicale che si trova al crocevia del mondo” e la sua posizione come “ombra della ex Zona del Canale”, questa ultima sala dell’esposizione metterà in discussione la storia, l’inclusività e l’eredità di questa stazione tropicale.  

Qual è il suo ruolo nella conservazione della biodiversità locale e globale e nella ricerca ecologica? La sala sarà uno spazio di ascolto, per riflettere criticamente sulle connessioni tra controllo e protezione e per immaginare una visione futura per la scienza e la modernità in Panama e oltre. 

Trentaquattro giovani laureati formati al Master di Pirelli e Politecnico

L’iniziativa ha riguardato diversi ambiti di specializzazione, come ingegneria aerospaziale, meccanica o dei materiali. Cinque ragazze e 29 ragazzi, tutti giovani laureati già dipendenti Pirelli, cui è stata offerta la possibilità di arricchire la propria formazione all’avvio del loro percorso professionale nel team di Ricerca & Sviluppo di Pirelli.

Alla cerimonia ha partecipato Donatella Sciuto, Rettrice del Politecnico di Milano, con Andrea Casaluci, General Manager Operations di Pirelli, Piero Misani, Executive Vice President Research and Development and Cyber di Pirelli, e Davide Sala, Chief HR e Organization Officer di Pirelli.

Credits: La Repubblica

Formazione e ricerca sono i presupposti di uno sviluppo industriale che guarda al futuro“, ha affermato Edoardo Sabbioni, Docente del Politecnico di Milano e Direttore Scientifico del Master. “Questo Master coglie appieno tali aspetti promuovendo una formazione trasversale e una visione sistemica in grado di coniugare gli elementi di progettazione, produzione e testing del pneumatico attraverso la conoscenza della dinamica del veicolo a supporto di una loro virtualizzazione e quella di materiali e processi per garantire uno sviluppo sempre più sostenibile. Durante il Master, ho visto una grande crescita degli studenti che ha raggiunto la sua migliore espressione con i project work, attraverso i quali hanno sintetizzato le competenze acquisite dalle diverse aree di apprendimento e le hanno applicate in modo critico e creativo a situazioni di vita reale, coniugando i background dei diversi componenti dei gruppi di lavoro.”

Piero Misani, Executive Vice President Research and Development and Cyber di Pirelli, ha affermato: “La complessità del pneumatico oggi è tale da richiedere un livello di specializzazione altissimo e un tempo di sperimentazione il più breve possibile. Solo con competenze digitali sempre nuove e aggiornate possiamo competere sul mercato da protagonisti. E questo master ci ha consentito di consegnare un know-how imprescindibile a questi 34 ragazze e ragazzi che già oggi stanno ripagando l’azienda conseguendo risultati importanti“.

Il progetto, che si inserisce nell’ambito dell’ormai storica collaborazione fra Pirelli e Politecnico di Milano finalizzata alla generazione di tecnologie all’avanguardia, si è focalizzato sulle competenze di prodotto del settore automotive, in particolare sulla progettazione e produzione di pneumatici del futuro e sulla conoscenza della dinamica del veicolo. Tutti elementi indispensabili per un utilizzo sempre più diffuso della virtualizzazione, ormai necessario per lo sviluppo dei pneumatici più innovativi e per una collaborazione proficua con le case automobilistiche.

Il Master, che ha visto gli studenti impegnati in didattica e laboratori, si è sviluppato su 5 moduli disciplinari su diverse aree tematiche: dalla conoscenza approfondita del pneumatico (forze, prestazioni, progettazione, prove, ecc…) alle tecnologie “smart tyre”, dallo studio dei materiali ai processi di produzione, ma anche dall’approfondimento delle problematiche ambientali fino alle tecniche di machine learning o all’analisi di dati. Le lezioni, che si sono in parte tenute all’interno del Learning Hub del nuovo Building Cinturato di Pirelli in Bicocca dedicato alle attività di formazione del gruppo e presso i laboratori della Ricerca e Sviluppo, si sono poi concluse con un project work aziendale elaborato in piccoli gruppi di studenti con il proprio tutor e un team dedicato con l’obiettivo di trovare ed evidenziare le principali connessioni tra argomenti innovativi, strategici e di crescita per l’azienda.

Il Master “R&D EXCELLENCE NEXT” è uno degli esempi del legame tra Pirelli e il mondo universitario e rafforza il suo modello di open innovation che oggi vede l’azienda al lavoro su circa 65 progetti con 18 Università. Le collaborazioni con il mondo accademico integrano e completano la Ricerca & Sviluppo di Pirelli, con i suoi 13 centri di ricerca interni che occupano oltre 2mila persone a livello mondiale.

Fonte: La Repubblica

Buone notizie per bambini e genitori: il poli sta studiando gli asili nido

Si stanno per concludere i cinque progetti di ricerca a tema «Equità e Ripresa» selezionati dal Polisocial Award 2021 e finanziati grazie alle donazioni del 5 per mille IRPEF al Politecnico. L’emergenza sanitaria derivata dalla pandemia ha contribuito ad acuire squilibri e marginalità e a rendere concreto il rischio di un aumento delle disparità; per questo, i progetti finanziati hanno agito in una prospettiva di ripresa economica, sociale e culturale, promuovendo lo sviluppo di metodi, strategie, strumenti e tecnologie tesi a ridurre le disuguaglianze e a favorire l’accesso a risorse e opportunità da parte di persone, categorie sociali o comunità particolarmente vulnerabili. 

TRADOTTO DAL LINGUAGGIO BUROCRATICO, C’È UN GAP NEI SERVIZI ALL’INFANZIA 

Il punto di partenza del progetto Equi06 è il decreto legislativo 65/2017, che ha proposto la creazione di un “sistema integrato 0-6”, che integri i due segmenti nido d’infanzia-scuola dell’infanzia (quelle che una volta si chiamavano “scuole materne”), storicamente sviluppati in modo separato con un approccio educativo, gestori e enti istituzionali diversi. “Anche il livello di sviluppo dei due segmenti è disomogeneo”, sottolinea Stefania Sabatinelli, responsabile scientifica del progetto. “In Italia le scuole dell’infanzia sono frequentate dalla quasi totalità dei bambini tra i tre e i cinque anni, al contrario dei nidi 0-2”. 

Il sistema integrato 0-6 è ancora un work in progress: a livello pedagogico sono uscite alcune linee guida ministeriali, e il PNRR prevede dei finanziamenti per la realizzazione di poli 0-6, ovvero strutture dedicate all’educazione da zero a sei anni. Perché è necessario integrare questi due segmenti educativi? “La letteratura comparata ci dice che nei Paesi nei quali i servizi sono organizzati in un unico ciclo (quelli del nord Europa) i livelli qualitativi dell’offerta sono più elevati e più omogenei”, spiega Sabatinelli. “Il ciclo unico potrebbe inoltre favorire un accesso più precoce da parte dei bambini: al momento i costi di iscrizione ai nidi sono spesso molto elevati, a differenza di quelli delle scuole dell’infanzia, e questo è un ostacolo per molte famiglie”. L’accesso precoce a servizi di elevata qualità è importante perché nei primi anni di vita si impara ad imparare e a stare con gli altri: è in questa fase che è possibile contrastare più efficacemente le disparità che portano i bambini ad avere punti di partenza diseguali già all’inizio della scuola dell’obbligo. 

L’IMPATTO DI UN SISTEMA INTEGRATO 

Il progetto Equi06 ha tre obiettivi di ricerca principali: mappare i servizi 0-6 esistenti a Milano, approfondire le condizioni di un contesto territoriale specifico, sperimentare la trasformazione di uno spazio esistente per favorire l’integrazione 0-6. 

“Mappare i servizi 0-6 esistenti a Milano è stata un’azione di ricerca utile di per sé, che ci ha permesso di localizzarli su una mappa: questa operazione non era mai stata fatta”, sottolinea Sabatinelli. “Ora conosciamo anche le relazioni tra i nidi e le scuole dell’infanzia, i servizi pubblici e quelli privati, quelli comunali e quelli statali, quelli continuativi e quelli integrativi”. 

Con queste informazioni, i ricercatori hanno identificato un’area su cui concentrare il proprio studio: “Abbiamo scelto il quartiere Comasina perché qui abbiamo riscontrato un’alta domanda potenziale di servizi 0-6 e la presenza di indicatori di fragilità sociale”, spiega Sabatinelli. Restringendo ulteriormente il campo di ricerca, il team ha selezionato un riquadro di 1,5 km per 1,5 km nel quartiere, all’interno del quale si trovano servizi pubblici, privati, comunali, statali e anche una sede pluriservizio comunale nido-infanzia, dove i due cicli educativi funzionano separatamente ma vengono offerti nello stesso edificio. 

L’ultimo obiettivo, coordinato dal dipartimento di DESIGN e tutt’ora in corso, è quello di lavorare sulla sede pluriservizio Merloni con la coordinatrice dei servizi della zona, alcune educatrici e alcuni genitori, ragionando su come migliorare gli spazi interni ed esterni alla struttura e i percorsi per raggiungerla, per capire come l’ambiente educativo può essere trasformato e migliorato con interventi minimi. 

L’aspetto pedagogico non è trascurato: seppur non rientri nelle competenze politecniche dei dipartimenti coinvolti, viene integrato dai partner esterni – il Comune di Milano, l’Istituto Nazionale di Documentazione, Innovazione e Ricerca Educativa (INDIRE), Save the Children, il Gruppo Nazionale Nidi e Infanzia, Legacoop Lombardia. 

L’obiettivo finale è definire un documento di orientamento riguardo agli apprendimenti realizzati: “La nostra ambizione è trarre insegnamenti generali, linee guida che possano essere utili al di là del contesto specifico. Sarà interessante replicare il progetto in altri contesti, e forse anche su altre scale”, conclude Sabatinelli. 

Presentati i risultati del progetto 5A – Autonomie per l’autismo

Si è svolto venerdì 31 marzo l’evento di presentazione finale del Progetto 5A – Autonomie per l’Autismo, Attraverso realtà virtuale, realtà Aumentata e Agenti conversazionali.

Al termine di due anni di intenso e appassionante lavoro, è stato possibile conoscere e sperimentare le soluzioni innovative sviluppate nell’ambito di questo progetto di ricerca, nato per rafforzare l’autonomia delle persone con DSA (Disturbi dello Spettro Autistico) e favorirne l’inserimento sociale e migliorarne la qualità di vita. 

Il progetto 5A prevede infatti l’utilizzo di applicazioni interattive fruibili anywhere-anytime attraverso smartphone, tablet e visori indossabili che integrano Realtà Virtuale Immersiva, Realtà aumentata e Agenti conversazionali e, creando un continuum tra training nel mondo virtuale ed esperienze nel mondo reale, aiutano le persone con DSA a comprendere le caratteristiche ambientali e socio-organizzative degli ambienti di vita quotidiana e a eseguire correttamente le relative attività. Con benefici non solo di potenziamento funzionale, ma anche di rafforzamento emotivo-psicologico e di benessere generale.

Credits: www.5a.polimi.it

Gli sforzi della ricerca si sono concentrati sulla mobilità negli spazi cittadini: la metropolitana, il treno, il supermercato, il museo, la biblioteca, l’ospedale, etc. Ad esempio, le applicazioni 5A di Realtà Virtuale permettono alla persona di esercitarsi nell’uso dei mezzi pubblici, “immergendosi”, attraverso un visore indossabile, in un ambiente digitale che simula spazi e attività tipiche dell’uso di treno e metropolitana. Le applicazioni 5A di Realtà Aumentata supportano gli utenti mentre usano i mezzi pubblici nel mondo reale, generando, su tablet o smartphone, informazioni visive che appaiono come sovrapposte alla visione dell’ambiente circostante e aiutano le persone a capire come muoversi e che cosa fare. Entrambi i tipi di applicazioni integrano un Agente Conversazionale che agisce da compagno virtuale e dialoga proattivamente con l’utente per guidarlo sia durante la simulazione dell’utilizzo dei mezzi pubblici sia durante l’esperienza nel mondo reale

Le applicazioni 5A sono state co-progettate da un team multidisciplinare composto da ingegneri e interaction designer del Politecnico di Milano e specialisti di autismo di due prestigiosi istituti di assistenza e cura, partner clinici del progetto: Fondazione Sacra Famiglia IRCCS E. Medea – Associazione La Nostra Famiglia.

Il progetto 5A é stato realizzato con il contributo di Fondazione TIM (Bando “Liberi di comunicare. Tecnologie intelligenti e innovazione per l’autismo”) e del progetto PNRR MUSA (Multilayered Urban Sustainability Action/Spoke6 – Innovation for Sustainable and Inclusive Societies).

Working in a joint research lab: Smart Eyewear Lab 

Working as a PhD  

The Industrial PhD in SEL is a three-year, high-level research course launched by the University and funded with the contribution of EssilorLuxottica that participates in defining the research theme. The PhD is a recent graduate who acts as a driver of change and brings to the organization, after three years of training on a shared research topic, a young point of view and new methods. He or she will work in the research line group and generate results and publications. The doctoral student will then be able to pursue both academic and professional careers.

Ask here for more information: smarteyewearlab@polimi.it

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Working as Researcher after your PhD 

You can pursue postdoctoral studies at SEL. As researcher, you help SEL professors, researchers and pm in the progress of research lines. To be a senior researcher, you must be supervised by one of our affiliated professors or Project Managers. 

Ask here for more information: smarteyewearlab@polimi.it

Are you a Polimi Student? 

As a Politecnico di Milano student in the lab you will be involved in teaching and project work activities related to your curriculum, but concretely connected to lab activities. As a student, you can bring your contribution to Smart Eyewear Lab supervised by one of its affiliated professors. 

Ask here for more information: smarteyewearlab@polimi.it

Il problema dello scambio tra rete elettrica e pannelli fotovoltaici

Si stanno per concludere i cinque progetti di ricerca a tema «Equità e Ripresa» selezionati dal Polisocial Award 2021 e finanziati grazie alle donazioni del 5 per mille al Politecnico. L’emergenza sanitaria derivata dalla pandemia ha contribuito ad acuire squilibri e marginalità e a rendere concreto il rischio di un aumento delle disparità; per questo, i progetti finanziati hanno agito in una prospettiva di ripresa economica, sociale e culturale, promuovendo lo sviluppo di metodi, strategie, strumenti e tecnologie tesi a ridurre le disuguaglianze e a favorire l’accesso a risorse e opportunità da parte di persone, categorie sociali o comunità particolarmente vulnerabili. 

Il progetto RESTARTHealth (da Renewable Energy Systems To Activate Recovery Through the Health sector) mira a ottimizzare l’efficienza energetica del secondo ospedale più grande dell’Uganda, il St. Mary’s Lacor Hospital, che sorge nel distretto di Gulu. “Da tempo collaboriamo con l’ospedale Lacor, che da pochi anni ha come responsabile tecnico Jacopo Barbieri, alumnus del Politecnico di Milano”, ci spiega Riccardo Mereu, project manager di RESTARTHealth e ricercatore del dipartimento di Energia. Con oltre 600 lavoratori, molti dei quali vivono nel complesso ospedaliero, quando si parla di efficienza energetica al Lacor non si fa riferimento solo a macchinari medici: “Il complesso ospedaliero comprende guesthouse, mense e gli alloggi dei dipendenti”, spiega Mereu. È una piccola città da duemila persone (anche le famiglie degli impiegati vivono “on campus”, oltre, ovviamente, ai pazienti): bisogna quindi pensare anche all’energia che viene utilizzata per cucinare (quasi sempre, al momento, lo si fa a legna), per lavarsi con l’acqua calda, per illuminare le case e per il trasporto.  

UN SISTEMA ELETTRICO IBRIDO MIGLIORABILE 

Attualmente il complesso è già dotato di un buon numero di pannelli fotovoltaici, che producono centinaia di kilowattora di energia. “I pannelli fotovoltaici sono indubbiamente la fonte energetica più adatta al luogo”, afferma Mereu. “Le risorse della zona non permettono certo di pensare a idroelettrico o eolico, mentre abbiamo valutato la possibilità di produrre biogas a partire dai rifiuti dell’ospedale. Dobbiamo capire se gli scarti sono sufficienti per produrne abbastanza”.  

Uno dei principali limiti è il fatto che l’energia prodotta dai pannelli fotovoltaici non può essere immessa nella rete elettrica nazionale: “Manca uno scambio bidirezionale, e questo fa sì che molta energia venga persa, che l’efficienza ne risenta”, spiega Mereu. “Il sistema è già e dev’essere per forza ibrido: attualmente sono attivi i pannelli fotovoltaici, la rete elettrica e alcuni gruppi elettrogeni diesel per quando salta totalmente la corrente. L’idea, in futuro, è che queste tre fonti vengano sfruttate in modo ottimizzato rispetto ad ora, con minori perdite di energia e migliore gestione dei picchi di potenza, che potrebbero stressare la rete interna dell’ospedale”. Quello dello scambio tra reti elettriche da rinnovabili e reti tradizionali è un tema molto attuale anche nel nostro continente, alla ricerca di una formula che ne permetta l’integrazione completa sia dal punto di vista infrastrutturale sia da quello amministrativo.  

LA CREAZIONE DI LINEE GUIDA 

L’obiettivo a lungo termine, oltre all’efficientamento energetico dell’ospedale, è quello di creare delle linee guida che possano essere utili in altri contesti. L’ospedale St. Mary’s Lacor è un caso particolare, perché non è statale ma privato, ed è gestito da una fondazione italiana: tuttavia i ricercatori hanno guardato anche ad altri casi studio, come alcuni ospedali governativi e di enti privati come Emergency, per avere un quadro ancor più completo della situazione. 

Oltre alla sede principale dell’ospedale, i test sono stati condotti anche in altri tre ambulatori dislocati in zone rurali a 50-60 km di distanza. “Il progetto termina a fine maggio 2023: al momento stiamo analizzando i dati raccolti, dai quali ricaveremo le informazioni necessarie a redigere delle linee guida energetiche specifiche e generali. Valuteremo l’impatto che alcuni miglioramenti energetici avrebbero nel complesso ospedaliero, come ad esempio la possibilità di uno scambio bidirezionale tra rete elettrica nazionale e pannelli fotovoltaici, la presenza di cucine elettrificate, l’introduzione di ulteriori pannelli solari per il riscaldamento dell’acqua e la possibilità di elettrificare il trasporto interno di rifiuti medicali. Per il momento, ci fermiamo allo studio di fattibilità: la messa in pratica dipenderà dall’ottenimento da parte dell’ospedale di finanziamenti privati e donazioni, o dalla vincita di bandi pubblici o privati”, conclude Mereu. 

Guido Crepax: come architettare storie

Guardia notturna, Portiere, Agenzia di Viaggi, Telefono. Sono alcune delle indicazioni scritte a mano, con l’impronta tonda dei caratteri di un fumetto, che si trovano non in un baloon ma nelle linee geometriche della planimetria di un edificio di via Laghetto a Milano. Su un foglio della stessa serie si legge: “Corso di composizione architettonica 2, 1956-1957, Guido Crepas, Tema di Laurea”.

I personaggi e le indicazioni inserite nella planimetria ci mostrano che il ventiquattrenne Guido Crepax pensa già a chi abiterà esattamente fra quelle linee precise, è un’anticipazione dell’indole d’autore, di chi è interessato ad architettare soprattutto le storie. «Circa cinque anni fa abbiamo trovato queste planimetrie nel soppalco di casa di nostra madre», racconta Caterina, figlia del grande disegnatore e Alumnus del Poli, «ed è sempre un’emozione quando scoviamo qualcosa che ci racconta un nuovo aspetto di nostro padre».

Giacomo – che con Caterina e l’altro fratello Antonio – cura e valorizza l’archivio Crepax, accenna una breve biografia post-laurea: «Conclusi gli studi al Politecnico, oltre a lavorare già come disegnatore in campo pubblicitario e discografico, nostro padre inizia a lavorare per degli architetti realizzando per loro delle prospettive; ciò che fanno ora i computer. Possiamo dire che era la mano-render». Negli ultimi anni la mano e la figura di Crepax sono tornate al Politecnico per una serie di mostre, l’ultima proprio di quest’anno si intitola “Guido Crepax, Architetto del Fumetto” ed è una ricognizione nei lavori di tutta una carriera, alla ricerca della mano d’architetto in controluce con quella del disegnatore. «Celebrarlo nel luogo della formazione – spiega Giacomo – ha un grande valore perché è qui che ha cominciato a sperimentare ed è qui che ha appreso molte nozioni di carattere storico legate all’architettura e al design che sono letteralmente entrate nel suo lavoro. Ci sembra necessario dunque raccontare il periodo della sua formazione. E poi anche io e mia sorella siamo Alumni, entrambi laureati in architettura».

Entrando così nel suo ruolo professionale, commenta un’altra tavola paterna, che mostra la prospettiva dell’edificio: «La base di partenza era una specie di centro commerciale che si sviluppava poi come torre abitativa. Lo schema è interessante, presenta elementi curvi laterali, molto morbidi, che sembrano citare le architetture di Sant’Elia. Lo descriverei come un progetto che coglie pienamente l’idea futurista degli anni ’50, fatto di trasparenze che mettono in risalto anche la parte strutturale dell’edificio: i vuoti, tipici dell’architettura razionalista di quel periodo, e le parti moderne identificate tramite le vetrate e la struttura solida dei pilastri in cemento armato». Anche su questa tavola è possibile cogliere elementi dei fumetti che verranno: un auto americana, gli abiti delle persone, l’intestazione Hotel Sforza, lo scorcio del Duomo che compare sullo sfondo, stretto tra altri due palazzi. 

La laurea conseguita al Politecnico di Milano

Il percorso di studi emerge a tratti: Valentina che passeggia in zona Missori, alle sue spalle Torre Velasca, realizzata dal suo relatore di tesi, l’Alumnus Ernesto Nathan Rogers. La vignetta di un uomo al tecnigrafo ci riporta un altro scampolo di biografia, «Era suo nonno, ingegnere. Infatti nostro padre prima di iscriversi ad architettura aveva atto un anno di ingegneria ma ne era scontentissimo», svela Caterina. «Per tutta la vita però ha disegnato proprio sulla scrivania di suo nonno, che oggi si trova nello studio di architettura in cui lavoro», dice Giacomo. In questo flusso di memorie e rimandi Caterina dice: «Nella biblioteca di casa abbiamo sempre trovato libri di architettura, che poi abbiamo sfruttato a nostra volta. Per lui erano fonte di ispirazione soprattutto i libri di design, perché gli interessava disegnare gli interni e le persone nei loro ambienti, per raccontare le storie anche attraverso gli oggetti di design, le tappezzerie, le lampade. Molti erano pezzi di design provenienti dalla nostra casa, che ci ritrovavamo nei fumetti». La lampada Arco, i divani le Corbusier, il televisore Brionvega, il letto di Magistretti, riferimenti che si mischiano a ispirazioni più personali, come racconta Caterina: «La poltrona con il poggiapiedi sui cui nostra madre leggeva, di fronte al tavolo su cui nostro padre disegnava e così si innescava questo scambio fra realtà e carta». Mostrando una tavola con la città di Praga, Giacomo spiega: «Siccome non usciva quasi mai dal suo studio, chiedeva le foto dei nostri viaggi all’estero, che poi diventavano i luoghi delle avventure di Valentina».  

La scrivania originale di Guido Crepax

Altre due tavole ci restituiscono le sue coordinate: i ritratti di Gropius e Frank Lloyd Wright, il suo volto accanto ala Casa sulla cascata. Gli strumenti del suo mestiere, erano gli stessi del mestiere di architetto: le chine, i lucidi e le lamette con cui li grattava, il compasso, le rapidograph. «I bordi stessi delle vignette li stendeva con il rettilineo a punta piatte – analizza Giacomo – le sue tavole sono quasi delle sezioni, delle planimetrie dove nelle singole vignette le cose avvengono. Ad esempio c’è una tavola al cui centro vi è un letto, con sopra Valentina e il suo compagno, e da sotto spuntano altre visioni laterali del letto. Oppure, la scelta di inserire il disegno di una scala a chiocciola incastrandola in una vignetta stretta e lunga ci raccontano la cura architettonica che aveva nella composizione di una immagine». Su un foglio c’è una vera e propria proiezione ortogonale di Valentina che in questo modo diventa un dispositivo per passare, nel ribaltamento, alla vignetta e all’episodio successivo.  

Il suo occhio era sul dettaglio, lo spiega bene Caterina: «Le sue storie accadono poco all’esterno e molto negli interni, ma quando siamo fuori ci mostra i luoghi sempre per frammenti. Del Duomo di Milano non c’è una panoramica ma l’inquadratura di una guglia. Gli piacevano moltissimo le porte con le maniglie, perché sempre celavano il mistero. Aveva inventato il popolo dei sotterranei, che abitavano il sottosuolo ed emergevano attraverso squarci nelle tappezzerie, nelle crepe del muro, dai mobili, figure nascoste nei motivi floreali di una carta da parati». Che architetto sarebbe stato? «Probabilmente avrebbe fatto un’architettura molto rigorosa ma al contempo di grande fantasia, perché era precisissimo nella documentazione ma all’interno del suo lavoro lanciava cose più legate al futuro che al presente. Ecco, forse sarebbe stato vicino ai lavori di Oscar Niemeyer, come Brasilia», risponde Giacomo. Caterina aggiunge: «è sempre stato iscritto alla cassa architetti e aveva firmato il progetto di una casa di sua madre, in un paesino della Versilia. Solo che nel progetto si era sbagliato e aveva inserito la facciata principale sul retro e viceversa, le aveva invertite».  

Qual è l’insegnamento che vi ha lasciato?

«Percepire l’insieme, farsi avvolgere dalla realtà che è composta da tante cose: architettura, politica, design, proprio come le sue storie. Per far emergere questo, quando allestiamo le mostre cerchiamo sempre di far entrare fisicamente il visitatore all’interno del suo mondo, quasi come se entrasse nelle tavole perché lui non aveva confini. Forse è questo l’insegnamento più grande: la nostra vita è captare tutto».  

Al Poli c’è un progetto che si occupa di fare la spesa per chi non ce la fa

Si stanno per concludere i cinque progetti di ricerca a tema «Equità e Ripresa» selezionati dal Polisocial Award 2021 e finanziati grazie alle donazioni del 5 per mille IRPEF al Politecnico. L’emergenza sanitaria derivata dalla pandemia ha contribuito ad acuire squilibri e marginalità e a rendere concreto il rischio di un aumento delle disparità; per questo, i progetti finanziati hanno agito in una prospettiva di ripresa economica, sociale e culturale, promuovendo lo sviluppo di metodi, strategie, strumenti e tecnologie tesi a ridurre le disuguaglianze e a favorire l’accesso a risorse e opportunità da parte di persone, categorie sociali o comunità particolarmente vulnerabili. 

Il progetto SOSpesa, coordinato dal prof. Davide Fassi del Dipartimento di Design, prende spunto da una iniziativa di quartiere nata dal basso, all’interno di un gruppo Facebook – NoLo Social District: durante il primo lockdown 2020 è stato un punto d’incontro tra chi voleva donare cibo, chi ne aveva bisogno, e chi poteva rendersi disponibile per consegnare la spesa porta a porta. Con la fine del lockdown, Off Campus NoLo del Poli ha deciso di adottare questa iniziativa, iniziando a sperimentare varie metodologie per offrire, negli spazi Off Campus del Mercato Mercato Comunale di Viale Monza 54, un servizio che prima era lasciato all’iniziativa individuale. I ricercatori Valentina Ferreri e Stefano Quaglia, rispettivamente dei dipartimenti DESIGN e DIG, ci spiegano i dettagli di questo progetto, a partire dalla volontà di aiutare le famiglie in difficoltà. 

PANE, CARNE, FRUTTA E VERDURA  

“Volevamo offrire un servizio diverso rispetto alle classiche spese sospese delle GDO, evitando la calca da ‘chi prima arriva meglio alloggia’”, ci spiega Ferreri. Il cibo offerto è fresco e di qualità, e il sistema di distribuzione è gestito in modo ordinato: le famiglie beneficiarie (al momento circa 200) vengono contattate per organizzare la consegna della spesa, che avviene un paio di volte al mese. Ogni beneficiario ha diritto a ritirare due tipi di spesa, in modo alternato: una volta un pacco di cibo in eccedenza, recuperato grazie alla collaborazione con RECUP e con vari negozi di quartiere che donano il loro invenduto, una volta una borsa di 30 euro di prodotti comprati da Off Campus.  

LA FORZA DEL PASSAPAROLA 

Come vengono individuate le famiglie beneficiarie? “Inizialmente bisognava iscriversi su una piattaforma online, poi nel 2021, con l’arrivo del nostro progetto Polisocial, è stato definito un paniere di famiglie beneficiarie e una metodologia di distribuzione a rotazione”, spiega Ferreri. “Non chiediamo l’ISEE, ci fidiamo della buona fede delle persone: non abbiamo né mezzi né competenze per controllare. Funziona: molte persone ci vengono segnalate da Rete Qubì di Loreto, altre vengono presentate da famiglie che beneficiano già del servizio; alcune si sono anche auto-eliminate dalla lista, perché non hanno più bisogno di aiuto”.  

TRASFORMARE L’INVENDUTO 

Un altro aspetto del progetto SOSpesa è quello che riguarda la “trasformazione” (sì, si dice così) della merce invenduta: “Molti negozianti volevano supportare la nostra iniziativa con l’invenduto, ma avevano una quantità di eccedenze non sufficiente. Così abbiamo deciso di donare una minima parte delle cassette che recuperiamo grazie al lavoro dell’associazione Recup al ristorante Cunza e alla gastronomia Fola, che rielaborano e cucinano i prodotti per farne piatti e conserve da vendere. Per ogni piatto venduto, il progetto riceve un euro”, spiega Ferreri. 

Tra le maggiori criticità riscontrate, soprattutto con uno sguardo al futuro, vi è la necessità di raccogliere fondi continui per il progetto: “Abbiamo sempre bisogno di soldi per acquistare cibo di qualità”, spiega Ferreri. “Al momento chi lo desidera può donare in tre modi: con Satispay, tramite bonifico bancario o in contanti presso i punti di raccolta. In futuro, però, se il modello dovesse espandersi in altri quartieri, la raccolta fondi sarà un aspetto di cui tenere conto”. Secondo Quaglia, il valore aggiunto di SOSpesa è dato dal fatto che, coinvolgendo realtà di quartiere, è possibile curare meglio l’aspetto sociale e creare una rete di persone disposta a collaborare. 

IL RUOLO DEGLI STUDENTI 

Il progetto ha visto il coinvolgimento di molti studenti come volontari: “Alcune associazione studentesche, come Social Innovation Teams (SIT), si sono occupate di gestire il rapporto con i beneficiari, contattandoli quando è il momento di ritirare la spesa”, racconta Ferreri. Un’altra collaborazione attiva è quella con Associazione studenti musulmani, che si occupa di dare una mano ai volontari che consegnano la spesa nella sede di Off Campus NoLo, interloquendo con i beneficiari che non capiscono l’italiano. 

UN FRIGORIFERO CONDIVISO 

I ricercatori sono ormai pronti a tirare le fila del progetto, in fase di chiusura: una delle idee per il futuro, oltre a quella di portare il modello in altri quartieri (a partire magari da altri Off Campus), è quello di sviluppare un progetto di frigorifero di quartiere. “Sarebbe interessante condividere una cella frigorifera con altri enti e servizi che si occupano di recupero e redistribuzione alimentare. Rete Qubì ha partecipato a un bando comunale con questa idea, ora non ci resta che aspettare i risultati”, conclude Ferreri. 

Piazzale Loreto, una piazza aperta al futuro

Milano, 2026. All’uscita della fermata della metropolitana Loreto un uomo viene quasi preso in consegna della piazza che – scavata e fattasi ipogeo, in pietra naturale – scende al livello del mezzanino per portarlo su, a cielo aperto, dove alzando lo sguardo scopre anche il verde delle terrazze in cima a tre edifici, geometrie prismatiche dotate di pannelli solari e al cui interno si celano negozi mentre all’esterno si muove un reticolo di pedoni e ciclisti, fra trecento alberi, luoghi di passaggio e di ritrovo. Una rigenerazione urbana che si estende su oltre novemila metri quadrati, di cui quasi quattromila di verde pubblico e più di un chilometro di piste ciclabili nell’intero progetto. Torniamo a Milano, 2023. La visione appena immaginata è – in breve – il progetto della nuova Piazzale Loreto, vincitore del bando internazionale Reinventing Cities. Si intitola LOC – Loreto Open Community, il suo avvio di cantiere è previsto entro l’autunno 2023 verso il traguardo di Milano-Cortina 2026, e ha alla base l’idea di una piazza che vuole farsi aperta a persone e idee. Ne abbiamo parlato con l’Alumnus Carlo Masseroli, Development&Strategy Director di Nhood, società internazionale di soluzioni immobiliari specializzata nel commercial real estate e nella rigenerazione urbana – capofila di una cordata multidisciplinare che include alcune fra le migliori eccellenze nel campo della progettazione, del design e del paesaggio. 

Alumnus Carlo Masseroli
IL PROGETTO SI INTITOLA LOC – LORETO OPEN COMMUNITY: IN CHE MODO IL PROGETTO SI APRE ALLA COMUNITÀ?

Il progetto si divide in quattro fasi, che nel tempo e in vari modi prevedono l’incontro con la cittadinanza. Per noi è stato fondamentale partire innanzitutto dall’ascolto del territorio, il che non significa la neutralizzazione dei potenziali comitati di quartiere o lo stare attenti al non toccare tasti che avrebbero potuto generare contrarietà. Era necessario presentare il progetto e capire con gli abitanti stessi se fosse coerente. Nella prima fase di ascolto dunque è emerso subito che in questa piazza è ancora forte l’eredità del boom dell’automobile, quando una diversa concezione di città la trasformò non in un luogo di incontro ma di divisione. Tant’è vero che Piazzale Loreto separa parti di città profondamente distanti tra loro. Non c’è un altro luogo della città in cui, ponendosi al centro e guardandosi intorno, si dipanino tante Milano differenti: c’è il mondo di NoLo, percorso da una nuova vitalità generatasi proprio grazie alla cittadinanza, ma che rispetto ad esempio a Corso Buenos Aires nasce con minori servizi. Dalla parte opposta c’è appunto il mondo di Corso Buenos Aires, la parte più ricca e destinata allo shopping. Proseguendo in asse da qui, ci sono i mondi di viale Monza e la multiculturale via Padova. E poi c’è Città Studi, il quartiere universitario. Si tratta insomma di uno snodo stradale che dal punto di vista sociale ha creato una barriera alla condivisione della città. Noi vogliamo abbatterla. Da qui prende forma l’idea di realizzare un intervento che non sia di tipo monumentale e architettonico – cosa che all’origine era – ma che conferisca a questa piazza il ruolo di ricongiunzione di tanti pezzi di città diversi. Un’agorà, un punto di incontro.  

L’ATTUALE PUNTO DI INCONTRO È LOC 2026, UNO SPAZIO FISICO CHE SI TROVA IN VIA PORPORA, APERTO AI CITTADINI CHE VOGLIONO SCOPRIRE IL PROGETTO E LE SUE EVOLUZIONI.

Sì, e coincide con la fase in cui ci troviamo ora. LOC 2026 inizierà ad ospitare iniziative ed eventi che andranno ad anticipare ciò che vorremmo accadrà nella piazza. Organizzeremo anche un ciclo di incontri dedicato agli studenti del Politecnico di Milano, per raccontare le varie fasi realizzate e comprendere anche il loro punto di vista sul progetto. Allo stesso modo incontreremo altre scuole e soggetti del territorio per spiegare i tanti aspetti del progetto, dalla mobilità all’ambiente. Riguardo a quest’ultimo, durante il mio mandato da assessore allo sviluppo del territorio (dal 2006 al 2011, ndr) ci eravamo figurati il tema dei raggi verdi della città, ovvero un parco orbitale costituito da piste ciclabili e natura che cingesse la città, percorrendola dal centro alle periferie. Piazzale Loreto rappresenterà uno di questi raggi verdi. Tornando alla genesi del nucleo di questa idea, vorrei aggiungere che il primo punto fermo di questa piazza è stata la costruzione del team di lavoro. Quando è partito il bando di Reinventing Cities ero in Arcadis, società di consulenza in progettazione e ingegneria, e volevo costruire un team in grado di vincere una grade sfida: quella di un soggetto privato che per la prima volta trasforma una piazza pubblica, emblema proprio della rigenerazione che associa l’interesse pubblico e la sostenibilità economica del privato. Così abbiamo coinvolto Nhood, società specializzata in trasformazione di spazi in luoghi di vita, il team di architetti Metrogramma e MIC-HUB per quanto riguarda la mobilità infrastrutturale pubblica e privata.  

COME CI SI SENTE NEL RIPENSARE E RICOSTRUIRE UNA PIAZZA ATTRAVERSO CUI È LETTERALMENTE PASSATA LA STORIA?

Da un lato c’è una paura enorme perché l’aspettativa è alta. E potremmo prevedere degli incontri dedicati proprio al raccontare e conservare la storia di questa piazza. Nessuno della mia generazione poi ha calpestato il centro di questa piazza e sarà una grande novità: nella piazza futura, da qualunque parte vi si potrà arrivare a piedi. Dal punto di vista della mobilità l’impatto è molto basso perché ordiniamo, ma non limitiamo. Ridurremo il traffico del 5% ma crediamo che il periodo di cantiere – che sarà la terza fase – genererà naturalmente una nuova modalità di utilizzo di questa parte di città. L’ambizione, infine, e arriviamo alla quarta fase, è che questa piazza, come le grandi piazze di altri capitali, diventi un luogo che faccia parte dei tour turistici della città.  

E SE LEI DOVESSE RIFARE UN TOUR NEL PASSATO, NEI SUOI ANNI DA STUDENTE AL POLITECNICO DI MILANO, QUAL È L’INSEGNAMENTO PIÙ IMPORTANTE CHE REPUTA DI AVER QUI RICEVUTO E CHE ANCORA OGGI È PREZIOSO NEL SUO LAVORO?

Dopo la laurea in ingegneria gestionale ho aperto una società che si occupava di sistemi informativi per il controllo della gestione. Successivamente sono stato assessore all’urbanistica di Milano per cinque anni, rivestendo un ruolo pubblico focalizzato sulla rigenerazione urbana. Quindi, come direttore generale di MilanoSesto ho rivestito il ruolo di privato e oggi parte del mio lavoro è proprio far sì che gli interessi pubblici si accordino e dialoghino con gli interessi privati e la sostenibilità economica. Questo preambolo per sottolineare come io abbia iniziato a lavorare utilizzando le competenze gestionali apprese all’università ma poi ho fatto altro. Più che le competenze verticali, ciò che è rimasto è l’aver imparato un metodo, la capacità di affrontare qualsiasi tema complesso, di rendere processo qualsiasi tipo di problema. In un mondo che vertiginosamente cambia, ho la cassetta degli attrezzi che mi porto dal Poli. L’altro insegnamento ricevuto, consiste nella tendenza a dare sempre una quantificazione. Ad avere un approccio pragmatico. Soprattutto nel mondo della rigenerazione urbana, dove si associano competenze di ogni tipo e molto articolate e bisogna avere capacità di sintesi: dunque quantificare il processo, dare un senso di concretezza alle cose che stai gestendo. In poche parole: rendere numero le cose.  

TORNIAMO NEL FUTURO: COME IMMAGINA UNA SUA PASSEGGIATA IN PIAZZALE LORETO IN UN GIORNO DEL 2026?

Il centro di piazzale Loreto credo sia il luogo più irraggiungibile per i milanesi, quasi un’utopia. Ecco, calpestare quel punto e renderlo fruibile da tutti credo possa essere un buon obiettivo simbolico. Lì, all’ombra di un giorno di sole, vorrei poter brindare alla nuova piazza. 

Non ci vedi? Ti accompagna Budd-e, il robot-guida per persone non vedenti

Si stanno per concludere i cinque progetti di ricerca a tema «Equità e Ripresa» selezionati dal Polisocial Award 2021 e finanziati grazie alle donazioni del 5 per mille al Politecnico. L’emergenza sanitaria derivata dalla pandemia ha contribuito ad acuire squilibri e marginalità e a rendere concreto il rischio di un aumento delle disparità; per questo, i progetti finanziati hanno agito in una prospettiva di ripresa economica, sociale e culturale, promuovendo lo sviluppo di metodi, strategie, strumenti e tecnologie tesi a ridurre le disuguaglianze e a favorire l’accesso a risorse e opportunità da parte di persone, categorie sociali o comunità particolarmente vulnerabili. 

Il progetto BUDD-e (Blind-assistive aUtonomous Droid Device) si inserisce in questo quadro: il team, composto da ricercatori e ricercatrici provenienti da diversi dipartimenti del Poli (DEIB, DIG, DESIGN e DABC), ha lavorato per sviluppare un robot in grado di garantire più autonomia alle persone non vedenti e ipovedenti, guidandole in attività quotidiane come una corsa al parco o un giro al centro commerciale. “L’idea iniziale era fornire alle persone cieche e ipovedenti uno strumento che le rendesse autonome nella corsa, ma poi il progetto si è esteso ad altri ambiti quando ci siamo resi conto, insieme ai nostri partner, che esistono diverse difficoltà di accessibilità negli spazi pubblici”, ci spiega il prof. Marcello Farina (Dipartimento di Elettronica, Informazione e Bioingegneria), responsabile scientifico del progetto. 

Credits: marcato
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IN CORSO LE SPERIMENTAZIONI 

Prima di iniziare, i ricercatori e le ricercatrici hanno sottoposto a diversi utenti ciechi e ipovedenti una serie di questionari, per capire quali fossero le loro abitudini e le loro esigenze: è emerso che la maggior parte di loro (il 75%) si muoveva solo se accompagnato da amici, parenti o volontari, e che l’1% non usciva addirittura di casa per paura di farsi del male. 

Budd-e vuole sostituirsi all’accompagnatore per poter dare più libertà alle persone non vedenti e ipovedenti: “L’idea è renderlo un servizio pubblico, un aiuto di cui usufruire quando si va al supermercato, al parco o alla stazione”, spiega Farina. “I due luoghi dove faremo le prime sperimentazioni sono l’Ospedale Niguarda e il Centro Sportivo Giurati del Politecnico: al Niguarda probabilmente il test sarà a giugno, mentre al Centro Sportivo non l’abbiamo ancora fissato, ma entro settembre si concluderà il tutto con un evento finale”. 

ROBOT E RADAR PER LA VITA QUOTIDIANA 

Budd-e ha le stesse dimensioni e la stessa mobilità di una sedia a rotelle, ed è una versione 2.0 di Yape, un robot già in commercio utilizzato per la distribuzione ultimo miglio (ovvero l’ultimo step della catena di approvvigionamento, che avviene con la consegna del prodotto al cliente). 

Team Kick-off
Team Kick-off

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Rispetto a Yape, la modifica più visibile di Budd-e è l’aggiunta del “cordino” che serve a guidare l’utente: “Il cordino è attivo, dà una tensione di 0,6 chilogrammi forza all’utente, che così sa dove andare: Budd-e non tira il braccio, e si muove solo quando si muove l’utente, adattandosi alla sua velocità e mantenendo sempre la stessa distanza”, spiega Farina. Alimentato con batterie elettriche, per funzionare Budd-e deve prima mappare il luogo dove si muoverà: nei luoghi chiusi (come ospedali o centri commerciali) è necessaria la tecnologia LIDAR (una tecnica di telerilevamento aereo, Light Detection and Ranging), mentre per parchi e spazi aperti è sufficiente la mappatura GPS. 

“Budd-e è un work in progress”, specifica Farina: “Anche la versione che testeremo a giugno non sarà definitiva, ma continueremo a migliorarla: Le modifiche più importanti che vogliamo apportare sono l’ottimizzazione del sistema di trazione del cordino e l’integrazione di un segnalatore acustico”. 

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