Andare come un treno, a idrogeno

Un treno parte da Brescia, si riflette silenzioso sul lago d’Iseo e sfila poi tra le case e le montagne della Val Camonica, lasciando il paesaggio pulito, nessuna scia di fumo nero ma un vapore acqueo, segno dell’energia che lo sta mettendo in moto. È questo lo scenario previsto, tra fine 2024 e inizio 2025, quando il Coradia Stream, primo treno a idrogeno italiano, a zero emissioni dirette di CO2 nell’ambiente, sostituirà i treni Diesel sulla linea ferroviaria non elettrificata della Brescia-Iseo-Edolo. Primo dei sei esemplari commissionato da Trenord e Ferrovie nord Milano ad Alstom, avrà 600 chilometri di autonomia, 260 posti e rientrerà nell’ambito del progetto ‘H2iseO’, prima valle italiana dell’idrogeno, che contribuirà all’obiettivo di neutralità carbonica fissato per il 2050 dall’Unione europea, ovvero una riduzione del 100% dell’emissione di CO2, tanta quanta se ne produce. A mettere in moto questo treno a idrogeno e l’innovazione che porta con sé c’è anche l’Alumna Susanna Boitano, che è stata la Train Control Engineer, ovvero la responsabile dello sviluppo software del Train Control Management System (TCMS) del treno. «Il cervello del convoglio – dice – che comunica con tutti i software dei sottosistemi di bordo».

Ci spieghi meglio il funzionamento di questo cervello

L’energia viene prodotta dalle fuel cells, le celle a combustibile che si trovano sul tetto del treno, e immagazzinata dalle batterie di alta tensione in litio. Nella Power car, la carrozza che ospita questo cuore energetico, sono distribuiti i serbatoi che contengono lo stoccaggio dell’idrogeno. Gli impianti di piping, cioè di tubazioni industriali, comunicano con le fuel cell dove avviene appunto la trasformazione chimica della combinazione di idrogeno, ossigeno e scarto d’acqua. L’energia viene quindi immagazzinata nelle batterie di alta tensione, comunicanti con i motori di trazione e con i gruppi ausiliari che prendono l’energia e la distribuiscono sul resto del treno. Dove possibile, grazie al controllo del sistema di Energy Management, il consumo del carburante a idrogeno viene limitato il più possibile. Le batterie, infatti, vengono caricate sia dalla produzione a idrogeno delle fuel cell che dalla frenatura elettrodinamica del macchinista, che consente di non disperdere energia in frenata. Parte dei software di cui mi sono occupata verifica, appunto, se le batterie di alta tensione debbano essere ricaricate mediante la conversione dell’idrogeno da parte delle fuel cell oppure mediante il recupero dell’energia di frenatura,

Il treno dunque è totalmente verde?

Sì perché l’idrogeno a contatto con l’ossigeno presente nell’aria genera energia tramite le fuel cell e rilascia acqua. Lo stoccaggio dell’idrogeno viene fatto in impianti a carico del cliente, in questo caso Trenord e Ferrovie nord Milano, le quali hanno dichiarato che proprio per mantenere il circolo legato alla sostenibilità ambientale, si riforniranno da fonti rinnovabili. Il piano di fattibilità, in corso di ultimazione, prevede il ricorso iniziale alla tecnologia Steam Methane Reforming (SMR), da metano o biometano, con cattura e stoccaggio della CO2 generata, per la produzione di “idrogeno blu”. Il nostro obiettivo è consegnare il primo treno tra la fine del 2024 e l’inizio del 2025.

Com’è stato salire a bordo per la prima volta?

Premetto che i test sono tutt’ora in corso. Detto ciò, si lavora tanti anni a tutto il design, non solo estetico ma anche a quello meccanico e del software, ma la vera soddisfazione si prova quando il treno è completo, nel suo insieme, e si gira la chiave e lo si accende per la prima volta. Il primo giro di chiave è il momento in cui ti dici: ecco a cosa hanno portato tutti questi anni.

A cosa hanno portato?

Al primo treno a idrogeno in Italia, ma in realtà anche a livello europeo perché attualmente l’unico altro treno a idrogeno è iLint, sempre prodotto da Alstom, per la Germania, ma pensato per un servizio commerciale limitato e basato su tecnologie di rete differente. Questo invece è il primo modello Smart Coradia a idrogeno, che fa parte della medesima cordata di treni regionali che sta sostituendo tutta la flotta dei treni regionali monopiani italiani. Lavorarci per me è stato un privilegio perché ti fa sentire di dare un contributo al tuo Paese.

Marco Piuri, Amministratore Delegato di Trenord e Direttore Generale di FNM, ha dichiarato: “Inaugurare l’uso di questa tecnologia in un ambito che connette, per vocazione, fa sì che il suo valore non solo si realizzi nel singolo progetto, ma si propaghi ad altri ambiti. Penso a industrie e servizi che potranno essere raggiunti dalla rete dell’idrogeno. Questo è l’obiettivo che puntiamo a realizzare con H2iseO: vogliamo che sia scalabile, oltre la mobilità ferroviaria e su bus”. Qual è il futuro dell’idrogeno?

In un mondo sempre più attento al tema ambientale penso sia fondamentale cercare vie alternative di produzione dell’energia. Un treno alimentato a diesel emette C02, circa 0,044 kg di CO2 per km. In Italia il 40% delle tratte è sprovviste di elettrificazione, ed elettrificare a volte è molto più dispendioso che acquistare un treno a diesel. Inoltre il paesaggio è spesso difficoltoso perché ci sono montagne, foreste o, come nel caso di Brescia-Iseo-Edolo, i binari passano fra le case in tunnel di dimensioni limitate. L’idrogeno potrebbe essere anche un’applicazione intelligente nelle industrie metallurgiche che hanno al momento dispendi energetici enormi.

Su quali binari potrà quindi condurci il treno a idrogeno?

Sicuramente ci porterà a un futuro in cui saremo più consapevoli e attenti anche alle piccole cose. A volte servono un grande messaggio e un grande cambiamento per far sì che il singolo si senta sensibilizzato. Il forte slancio verso l’innovazione collettiva potrà avere una ricaduta nelle scelte che prenderemo tutti quanti, ogni giorno, singolarmente.

Salirà sul treno a idrogeno per uno dei suoi primi viaggi?

Certo. Organizzerò una gita con la mia famiglia per mostrargli su cosa effettivamente ho lavorato per tutto questo tempo.

Un espresso da premio

Una piccola luce affiora dal naso di una macchina per caffè espresso e illumina la tazzina che si riempie al suono dei chicchi macinati al momento. Di sponda, il bagliore si riflette sulle curve disegnate nell’alluminio della macchina. «Questa è la messa in scena dello spettacolo del caffè» dice una voce. Siamo nello store milanese di Smeg e la voce è quella dell’Alumnus Matteo Bazzicalupo che insieme all’Alumna Raffaella Mangiarotti, anche lei qui con noi, ha disegnato questa macchina per caffè espresso completamente automatica, la BCC Smeg, vincitrice della quarta edizione del premio DesignEuropa, organizzato dall’Ufficio dell’Unione Europea per la Proprietà Intellettuale, nella categoria Industria. Il loro studio si chiama deepdesign perché, raccontano: «lavoriamo con la ricerca, mettendo in discussione le forme per realizzare un design che sia profondo». Così abbiamo deciso di dialogare proprio a partire dalle profondità del pensiero che portano poi alla creazione di linee nuove.

«Da venticinque anni ragioniamo sui prodotti non solo dal punto di vista estetico e funzionale ma anche simbolico – spiega Bazzicalupo – la potenza del simbolo va oltre le proprietà logiche e arriva al cuore e all’anima, consentendo di creare una relazione istantanea ed empatica con chi interagisce con il prodotto. L’immagine iniziale su cui abbiamo ragionato pensando a questa macchina da caffè è stata quella di un geode monolitico. Osservandola, ha un volume molto puro che riprende il dispositivo di un geode: si spacca e al suo interno custodisce un cuore prezioso. Allo stesso modo noi abbiamo ritagliato una porzione del volume primario che scopre un interno molto prezioso: la piattaforma tecnologica evoluta che c’è alla base e che si rivolge all’utente. Questa metafora racconta molto del nostro modo di lavorare, una metodologia poli-fattoriale, e racconta anche dall’interazione che si può generare nel primo istante e che poi può perdurare nel tempo».

In un video di presentazione della macchina da caffè espresso, Raffaela Mangiarotti si domanda come oltrepassare l’incomprensione iniziale, quello stallo distruttivo del rapporto fra macchina e utente. Come far parlare gli oggetti. Così le chiediamo in che modo gli oggetti possono riuscire a parlarci. «La forma esprime sempre un potenziale iconico – dice – ogni oggetto appartiene a una sua tradizione tipologica che può essere consacrata o dissacrata. A seconda del contesto aziendale con cui collaboriamo, ci sentiamo liberi di scegliere come agire: a volte abbiamo consacrato e a volte abbiamo distrutto le tipologie perché abbiamo considerato che potessero esserci modi diversi di vedere le cose, più contemporanei. Abbiamo ad esempio disegnato una lavatrice non a forza centrifuga ma centripeta, con una forma più morbida, un rumore che diventa un suono, più precisamente il suono dell’acqua e con dei movimenti fluidi all’interno di una macchina che non è più un cubo bianco ma è trasparente. In questo modo le cose diventano, oltre che funzionali, emozionali. In altri casi ci si rende conto che la tipologia è perfetta perché ci è giunta passando attraverso così tante mani e menti che l’hanno resa quasi intoccabile. Nel caso di questa macchina da caffè abbiamo adottato delle interfacce molto semplici perché non ci piace mettere in difficoltà chi ci si approccia. Le macchine, certo, diventano sempre più intelligenti ma forse non devono mostrarlo, devono anzi agevolare le nostre decisioni e capacità di comprenderle. Abbiamo pensato a qualcuno che la mattina si sveglia e arriva quasi ad occhi ancora chiusi in cucina e vuole semplicemente schiacciare un pulsante per avere un caffè. Ci sono quattro pulsanti, ne sceglie uno, sente il profumo del caffè diffondersi nell’aria, lo immaginiamo quasi sempre ad occhi chiusi, un vero risveglio soft e potente al tempo stesso. Poi, se invece sei un esperto, se hai gli occhi già aperti, scopri che c’è una modalità per cui quei quattro pulsanti comandano altre quattro opzioni di funzione; oppure puoi aprire lo sportellino, ruotare una levetta e scegliere il tipo di macinatura a seconda dell’umidità della giornata. È una macchina di livello, nel senso che è pensata per vari livelli: dal più semplice e immediato al più profondo e tecnico».

Andando dunque indietro, al momento della genesi, subito dopo l’illuminazione del monolite, come avete proceduto? Risponde Bazzicalupo: «Diciamo che all’inizio del lavoro ti danno l’interno della macchina e tu devi costruire la pelle. Ci siamo quindi concentrati sul fatto che la cosa più importante è che fosse compatta. Quindi dovevamo immaginare qualcosa di dimensioni non troppo eccessive, che potesse essere posizionata sotto il pensile della cucina. Da qui abbiamo capito che potevamo disegnare una forma stretta e lunga. A questo punto diventava interessante lavorare sul fronte e abbiamo pensato a un segno netto, pulito, con la possibilità di avere una parte anteriore dal taglio molto connotato, come fosse il taglio di una pietra. La gamma cromatica di partenza è di tre colori ma si sta ampliando. Per ora ci sono il bianco, il nero e il taupe, una sfumatura di colore che ricorda il caffellatte. Il pannello frontale è in alluminio naturale e presenta una finitura con spazzolata a bordo lucido, un colpo di luce che delinea ed enfatizza l’area del taglio».

Interviene Mangiarotti: «Lo studio che facciamo spesso è anche legato al suono, al non avere rumori ma cercare di trasformarli in suoni. In questo caso il rumore della macina del caffè trasmette l’idea che ci si sta preparando un caffè fresco. Il rumore della macina probabilmente non è romantico ma quando apri lo sportellino superiore e si sprigiona il profumo, si viene trasportati in una torrefazione. Io a volte la riempio e la lascio aperta ed è come se anche il profumo mi svegliasse. È insomma una macchina da caffè ma anche una macchina olfattiva».

Come può una linea tracciata in un certo giorno, di un certo anno, assurgere alla vita eterna? Mangiarotti ci pensa e risponde: «Personalmente non amo le soluzioni formali troppo estreme perché trovo che quando crei un oggetto molto strano, nel tempo finisca per stancarti. Per essere eterna una linea credo debba avere una pacatezza, che si può tradurre meglio nel desiderio di creare un oggetto che quando lo guardi risulta nuovo ma al contempo è come se ci fosse sempre stato». Bazzicalupo aggiunge: «Sì, un oggetto che ti sembra di aver introiettato». Mangiarotti continua: «Per disegnare questa macchina da caffè ci siamo presi del tempo per pensare a quale potesse essere una linea avente questa pacatezza. Quando pensi a Smeg, pensi a qualcosa che rimane appunto nel tempo. Qui siamo circondati dai disegni degli anni ’60 di Guido Canali, e se lavori con un’azienda che ha degli oggetti che erano belli e che sono rimasti belli, avverti una responsabilità. Noi volevamo fare qualcosa di leggiadro, di più giocoso, che parlasse ai giovani ma condividendo la stessa essenzialità. Volevamo un oggetto che facesse pensare alla memoria ma immerso nel contemporaneo».

Passiamo dunque a parlare di memorie, Mangiarotti ci racconta cosa le è rimasto del periodo di studi al Politecnico: «Il metodo scientifico. La prima cosa insegnatami da Marco Zanuso, mio docente al Poli, è stata l’etimologia del verbo “progettare”, dal latino proiectāre, e cioè gettare in avanti. Questo mi ha formato. Quando abbiamo disegnato la lavatrice a forza centripeta, l’asciugacapelli che sta in piedi da solo o la scopa elettrica che si piega in due, abbiamo fatto dei tentativi di gettare qualcosa in avanti, e non di fianco. Nel caso di un’altra macchina da caffè, la Diamantina, abbiamo fatto ricerche d’archivio sulla storica macchina Diamante. Fare ricerca è una forma di rispetto. Presuppone umiltà e significa che vai a informarti sull’intelligenza che c’è stata prima di te. Infine, puoi fare anche un omaggio ma mettendo qualcosa di tuo, inventando del tuo. Ecco, questa dimensione scientifica nei confronti del progetto la ritrovo anche nei ragazzi che oggi frequentano il Politecnico». Bazzicalupo ha un ricordo in particolare dei suoi giorni politecnici: «L’insegnamento ricevuto da Francesco Trabucco il giorno in cui dovevamo decidere il tema di tesi. Era presente un ingegnere della Nasa e mi suggeriscono un autogiro ultraleggero – antenato dell’elicottero. Eravamo tutti entusiasti ma non sapevamo neppure cosa fosse un ultraleggero. Ho così imparato che per aspirare ad innovare ed immaginare il futuro bisogna anzitutto accogliere senza timori ogni inedita sfida progettuale».

Usciti dal Poli, come si comincia e come ci si ritrova in un collega? Mangiarotti e Bazzicalupo si sono conosciuti nel 1995 nella redazione della rivista Modo fondata da Alessandro Mendini, dove entrambi scrivevano di innovazione e tecnologia e così hanno pensato di partecipare per la prima volta ad un concorso insieme. Tornando al premio DesignEuropa ci raccontano del valore di questo primo posto: «I premi di solito sono legati all’estetica e alla funzionalità del prodotto. A questi due aspetti, che sono i principali, DesignEuropa prende in esame un terzo parametro: il successo commerciale del prodotto. Non solo il design ma anche il modo in cui il prodotto è stato collocato in una certa fascia di mercato – andando magari a capire quale elemento togliere o aggiungere per mantenere un certo tipo di prezzo – fa parte del progetto. C’è dunque una sostenibilità economica, perché il successo corrisponde al ricavo che permette di ripagare le professionalità e le persone dietro il prodotto. E nel nostro caso c’è anche una sostenibilità ambientale perché è una macchina che non utilizzando capsule o cialde non produce scarti: si va dal chicco direttamente alla tazza». Citano Good Design di Bruno Munari, in cui l’artista e designer gioca con la scrittura descrivendo un’arancia e dei piselli come fossero oggetti di design. «L’ambizione è quella di seguire sempre un processo naturale – dicono – perché non c’è spreco in natura. Una foglia mostra il proprio sistema linfatico, e tu capisci che non ha niente di più di ciò che serve, ma la vedi ed è meravigliosa. Il risultato è una geometria essenziale che si tramuta in estetica». In questo universo Smeg in cui siamo immersi, voltandoci, oltre alla macchina da caffè espresso automatica, ci sono altri venti prodotti iconici disegnati da Mangiarotti e Bazzicalupo. I due hanno disegnato anche questo show-room e quello di Londra. Gli chiediamo come ci si senta a stare qui. «Ci si sente un po’ a casa».

Più spazio, e spazi, all’ambiente: i rinnovati laboratori di ricerca del Poli

La terra, le acque, le montagne, le strade e i binari, le forze che la natura agita e quelle che l’uomo mette in campo, sembrano prendere forma camminando attraverso i 4000m2 del Campus Leonardo, dove sono stati concentrati – e riqualificati – i laboratori di ricerca del DICA (Dipartimento di Ingegneria Civile e Ambientale) del Politecnico di Milano. Da una porta all’altra, da pochi passi all’altro, si attraversano: il Laboratorio di Ingegneria Ambientale; il Laboratorio di Diagnostica e Indagine sui Materiali del Costruito; il Laboratorio interdipartimentale Solid-liquid Interface Nanomicroscopy and Spectroscopy Lab e la Collezione Petrografica.

«Avevamo l’esigenza di unirci in un unico ambiente» racconta l’Alumnus e docente Attilio Frangi, Direttore del Dipartimento, «qui convivono tutte quelle competenze che ci permettono di essere uno degli attori fondamentali in tema di sostenibilità e rinnovo del sistema infrastrutturale italiano, che siano infrastrutture di aria, di trasporto o idrauliche». Quali sono le fragilità dell’ambiente naturale e di quello costruito, e che interventi questi laboratori mettono letteralmente in campo? «In molte situazioni – risponde Frangi – per la natura dei materiali impiegati e per i limiti dei metodi costruttivi adottati, le infrastrutture dei trasporti, dell’energia, dell’acqua sono nella fase finale della loro vita utile. Sono nate cinquanta, cento anni fa e hanno bisogno di un rilancio che copra altri cinquanta, cento anni. Si parla di una vera e propria rigenerazione. Inevitabilmente le dobbiamo ammodernare o addirittura sostituire mentre le usiamo, poiché hanno una tale centralità nella nostra vita che non ci è possibile interromperne l’esercizio senza colpire la stabilità degli insediamenti umani che ormai ne dipendono. A questa sfida impegnativa per gli ingegneri civili e ambientali se ne aggiunge un’altra: dobbiamo rigenerare gli asset infrastrutturali ricordiamoci che il mondo delle costruzioni è responsabile per circa il 40% delle emissioni complessive di gas serra. Le infrastrutture, non devono solo assolvere a un compito, ma devono essere sostenibili, e quindi integrate con le esigenze della comunità e del territorio sul quale insistono».

Visitando i laboratori si ha la sensazione che in queste sale si lavori al presente e al futuro panorama italiano, che si studino e si mettano alla prova scenari. «Un tempo si finanziava la costruzione di un’infrastruttura dimenticandosi di prevedere cosa sarebbe potuto accadere al fine vita di questa – riflette Frangi – ed è il motivo per il quale oggi il nostro territorio è costellato di eco-mostri. Fino a poco tempo fa c’era chi progettava e chi protestava, e ad una prima occhiata il nostro dipartimento potrebbe contenere due anime diverse: da una parte i progettisti che sviluppano le strutture dall’altra l’anima ambientale, come fossero in contrapposizione. L’approccio oggi è cambiato anche a causa di tutte le tragedie vissute sulle nostre infrastrutture e queste due anime collaborato fin dall’inizio in modo da rendere le infrastrutture, che sono necessarie e imprescindibili, compatibili con l’ambiente naturale in cui viviamo». Gli chiediamo un esempio concreto di queste sinergie: «Oggi un ingegnere civile non può non essere anche ambientale, o meglio, un team di ingegneria civile non può non includere tutte e due le presenze e lavorare collettivamente per la sostenibilità dell’infrastruttura secondo una logica di life cycle thinking. Si deve progettare una infrastruttura prevedendo sin dall’inizio tutte le fasi: costruzione, servizio, refitting, dismissione. Strettamente connesso a questo vi è il tema del life cycle assessment, che è una metodologia per valutare l’impronta ambientale di un intervento lungo il suo intero ciclo di vita. partire dalle fasi di estrazione delle materie prime costituenti il prodotto, alla sua produzione, distribuzione, uso e sua dismissione finale, includendo la possibilità; di riciclo. Per citare uno dei tanti nostri progetti in corso, alcuni nostri gruppi di ricerca propongono il riuso di fanghi da inceneritore che dopo un processo di inertizzazione e frantumazione possono essere riutilizzati in sostituzione degli aggregati e del cemento nel calcestruzzo, riducendo il consumo di risorse naturali e di cemento.

E questo non solo per le infrastrutture civili ma anche per le reti di distribuzione delle risorse e nell’ambente naturale. Come esempi possiamo citare il riuso di acque di irrigazione, o il recupero di nutrienti da acque reflue. Un lavoro di questo tipo coinvolge competenze ambientali, competenze legate alla caratterizzazione geomeccanica del materiale inertizzato e competenze della meccanica dei materiali e delle strutture, nel momento in cui si valuta la fattibilità del loro riutilizzo come materiale da costruzione».

Chiediamo all’Alumnus Frangi di delineare il tratto comune, che non solo fisicamente ma anche idealmente, avvicini tutte le figure presenti nei diversi laboratori. «Direi che il tratto comune è un tratto propriamente politecnico: l’ingegnere è poliedrico, e in questi laboratori emerge una fortissima multidisciplinarietà, fondamentale per affrontare tematiche e problematiche altrettanto multi-disciplinari».

Approfondisci le caratteristiche di ciascun laboratorio raccontate da chi ci lavora ogni giorno sul MAP 13, la rivista degli alumni del Politecnico di Milano, a questi link:

Dall’UE, quasi 8 milioni di € per la simulazione numerica di fenomeni complessi

Alla guida del Laboratorio di Modellistica e Calcolo Scientifico MOX del Dipartimento di Matematica del Politecnico di Milano c’è la professoressa Paola Antonietti, principal investigator nel team che si è aggiudicato il Synergy Grant dell’ERC – Consiglio Europeo della Ricerca: un finanziamento pari a 7,8 milioni di euro per un periodo di sei anni. 

I numeri l’hanno affascinata da subito, tanto che Antonietti non ricorda un momento preciso in cui ha incominciato a esserne attratta. «È stato tutto molto naturale. Da bambina mostravo interesse per i giochi di logica e per quelli di costruzione come Lego e Meccano, che smontavo e rimontavo. E da ragazzina ho continuato a fare la stessa cosa con il computer: ricordo pomeriggi interi passati sul Commodore 64, per cercare di carpirne i segreti. È così che, man mano, mi sono appassionata a ciò che amo tuttora: risolvere problemi, trovare schemi, categorizzare, astrarre». La 43enne milanese non poteva immaginare che quella passione l’avrebbe condotta non solo a laurearsi in Matematica con lode, ma anche a vincere una borsa di studio che l’avrebbe portata a conseguire il dottorato in Matematica e Statistica all’Università di Pavia, per poi diventare ricercatrice presso la School of Mathematical Sciences dell’Università di Nottingham e, infine, costruirsi una carriera all’interno del Politecnico di Milano. Qui, dopo anni di ricerca e insegnamento, dal 2019 è Professore Ordinario di Analisi Numerica e dal 2023 responsabile del Laboratorio di Modellistica e Calcolo Scientifico MOX del Dipartimento di Matematica. «E pensare che dopo il liceo scientifico volevo iscrivermi a Medicina! Ma la mia famiglia e la professoressa di matematica e fisica mi hanno spinta ad assecondare il mio talento per la matematica. Anche se poi, al di là della materia, ciò che ha contato di più è che adoro studiare, per cui, semplicemente, ho fatto in modo di studiare per tutta la vita. Non mi perdo mai d’animo: se qualcosa non mi riesce, non demordo; più una questione è complicata, più mi sento stimolata a impegnarmi al massimo per scovare una soluzione. E questo, in un settore competitivo come quello scientifico-accademico, ha fatto la differenza». 

Oggi i risultati si vedono, e non sono solo tappe di crescita professionale individuale elencate in un curriculum. Con Nemesis (acronimo di NEw GEneration MEthods for Numerical SImulationS), progetto di ricerca internazionale che la vede al fianco di Lourenço Beirão da Veiga (Università degli Studi di Milano-Bicocca), Daniele Di Pietro (Université de Montpellier) e Jérôme Droniou Jérôme Droniou (direttore di ricerca del CNRS – Centre National de la Recherche Scientifique), Antonietti è impegnata nello sviluppo di metodi numerici di nuova generazione, metodi creati a partire da basi teoriche e messi in pratica attraverso l’uso di supercomputer, allo scopo di risolvere le sfide globali e tecnologiche del XXI secolo, principalmente nel campo della sostenibilità. Di recente il team ha ottenuto un riconoscimento importante: il gruppo di lavoro si è aggiudicato uno dei 37 Synergy Grant dell’ERC.

«Il progetto Nemesis è una grande iniziativa europea finanziata per migliorare la simulazione numerica di fenomeni complessi», spiega lei. «Quando vogliamo modellare fenomeni fisici, come quelli nell’ingegneria o nelle scienze, usiamo equazioni matematiche. Tuttavia, tali equazioni sono spesso troppo complesse per essere risolte direttamente, ed è qui che intervengono i metodi numerici per approssimare le soluzioni tramite calcolatori. La nostra ambizione è, allora, di sviluppare metodi migliori, più precisi ed efficienti, di quelli già esistenti, per poter elaborare approssimazioni di fenomeni complessi e implementarle su computer dotati di una potenza di calcolo estremamente elevata. A tale scopo ricorriamo a griglie di calcolo più flessibili, chiamate “politopali”, diverse dagli elementi standard, ossia da quelle forme geometriche comuni e regolari – cubi, prismi, tetraedri, esaedri ecc. – comunemente usate per semplificare la rappresentazione di un dominio di calcolo. Diverse in quanto capaci di adattarsi liberamente ai contorni o alle geometrie dei fenomeni reali che si stanno simulando». Ovvio che tutto ciò possa suonare astruso a chiunque non mastichi la matematica, ma di fatto è come se si dovesse rappresentare un paesaggio: secondo i metodi tradizionali si potrebbero usare piccoli quadrati o triangoli per raffigurare il terreno, il cielo, gli alberi, ma se il paesaggio è particolarmente irregolare o presenta delle peculiarità rispetto ad altri, quelle figure geometriche rigide potrebbero rivelarsi limitanti e per una rappresentazione più accurata sarebbe, dunque, più corretto ricorrere a pezzi di cartoncino flessibile modellati ad hoc.

«Siamo in una fase di trasformazioni epocali, che si stanno compiendo davanti ai nostri occhi a una velocità mai vista prima», osserva Antonietti. «In questo contesto il linguaggio universale della matematica, ovvero la capacità di descrivere fenomeni quantitativi attraverso equazioni, è fondamentale. Perché le stesse equazioni matematiche possono essere sfruttate per studiare sia come il sangue circola nel cervello, sia come un inquinante si diffonde nell’acqua; sono solo i valori dei parametri fisici e geometrici a cambiare e questo ci consente di compiere simulazioni virtuali per ottenere risposte dettagliate e quantitative a problematiche di vario genere. Per esempio, potremmo voler valutare gli effetti di un terremoto potenziale, predire il rischio di problemi cardiaci dopo un’aritmia, ottimizzare la forma e la resistenza degli pneumatici, personalizzare i trattamenti di radioterapia per pazienti con tumori». 

È quanto fanno i ricercatori di MOX, le cui simulazioni virtuali e analisi dei dati fungono da «laboratori digitali che permettono di esplorare e quantificare una vasta gamma di fenomeni», per dirla con Antonietti, ispirata in questo dal professore di fama mondiale Alfio Quarteroni, il matematico padre fondatore del MOX, alla guida dello stesso dal 2002 al 2022. «Gli devo molto, è grazie alla sua innovativa visione che ho assimilato un modo di fare matematica al servizio delle sfide concrete e realizzato quanto conti, in tutto ciò, confrontarsi costantemente con i colleghi di altre discipline, dagli ingegneri ai designer, dagli architetti agli scienziati applicati. All’inizio non è stato tutto rose e fiori, avevo alle spalle un percorso diverso, per cui i primi anni al Politecnico non sono stati facili. Ma all’Università di Pavia avevo avuto maestri eccezionali: penso alle mie direttrici di tesi di dottorato, le professoresse Annalisa Buffa, ora all’École Polytechnique Fédérale di Losanna (EPFL), e Ilaria Perugia, attualmente all’Università di Vienna, così come a Franco Brezzi e a Donatella Marini. Questo mi ha aiutata e oggi sono fiera di essere parte di una realtà così prestigiosa: secondo l’ultimo QS World University Rankings, il Dipartimento di Matematica del Politecnico di Milano si classifica primo in Italia, 11esimo in Europa e 34esimo nel mondo, tra i competitor nella stessa materia».

Nel frattempo, anche il MOX è cresciuto: nell’anno della sua fondazione contava una decina ricercatori, oggi siamo a circa un centinaio. Il fulcro è la ricerca problem driven di carattere transdisciplinare e interdisciplinare, finalizzata all’applicazione negli ambiti più disparati, dalle neuroscienze all’ecologia, dai processi manifatturieri alla mobilità sostenibile alla digitalizzazione. «Sulla stessa linea, in Nemesis l’aspirazione è di sviluppare una nuova generazione di metodi numerici superando le barriere attuali, anche attraverso il perfezionamento delle capacità predittive con tecniche di intelligenza artificiale. Il cuore di questa ricerca sono i metodi politopali di cui sopra, che supportando griglie di calcolo composte da elementi di qualunque forma e superando così il paradigma classico, rendono possibile sia un’eccezionale capacità di approssimazione dei dati e del dominio o campo di applicazione, sia l’integrazione diretta di leggi fisiche specifiche nell’ambito numerico – integrazione che permette di rispecchiare la reale struttura del problema fisico in esame –, sia una massimizzazione dell’elaborazione computazionale». 

L’obiettivo primario è di congegnare un quadro matematico rigoroso e algoritmi efficienti per abilitare e agevolare questo nuovo modo di fare simulazioni che, in ultimo, andranno a determinare le strategie politiche nei vari settori. «In particolare, come team Nemesis ci occuperemo di mitigazione degli effetti delle attività antropiche nel sottosuolo, per esempio costruendo scenari virtuali per prevedere gli effetti delle attività di stoccaggio della CO2 o della produzione di energia geotermica. E ancora, di equazioni della magnetoidrodinamica o MHD, cioè delle istruzioni matematiche che ci raccontano come si comportano i liquidi conduttori di elettricità in presenza di un campo magnetico, utilizzate per studiare i complessi meccanismi della fusione nucleare, la meteorologia spaziale e molto altro. Le equazioni MHD rivestono un ruolo chiave nella modellazione al calcolatore dei processi di produzione dell’alluminio, che sono ad alta intensità energetica e che necessitano, perciò, di essere ottimizzati nel rispetto dell’ambiente».

All’epoca della sua laurea si parlava ancora poco di gender gap nelle discipline STEM (Scienze, Tecnologia, Ingegneria e Matematica), argomento oggi al centro del dibattito pubblico e da tempo una priorità per il Politecnico, dove le donne sono meno del 30% dei 47000 studenti e dei 1400 ricercatori. «C’è ancora molta strada da fare, ma le cose stanno cambiando», commenta Antonietti. «Sono state introdotte azioni concrete in tal senso: tra le tante, attività di orientamento rivolte alle studentesse delle scuole superiori verso le materie STEM, borse di studio per studentesse che scelgono di immatricolarsi ai corsi di ingegneria con minore presenza femminile, asili nido e centri estivi per la comunità universitaria… Come mamma di due figlie femmine di 6 e 11 anni posso testimoniare che sono iniziative che possono fare la differenza: gli esempi sono più incisivi delle parole e credo sia essenziale dimostrare con i fatti, alle bambine e alle giovani ragazze, che “si può fare”. Cosa che per me vale anche nel privato: nella mia famiglia non vige alcuna separazione dei ruoli». Quanto all’ambito professionale, Antonietti afferma di non avere «mai sentito il peso di essere una donna, nemmeno quando, come spesso accadeva e accade, ero l’unica donna al tavolo». Ma sottolinea di aver «sperimentato, negli anni, il peso della segregazione orizzontale – le donne nelle materie STEM sono sotto-rappresentate – e di quella verticale, legata alla disparità di genere nei ruoli apicali». E continua: «Serve un cambiamento culturale. Sotto questo aspetto la Commissione Europea, tramite l’inserimento della dimensione di genere in tutte le politiche di sviluppo, sta facendo molto: i segnali di un progresso iniziano a vedersi un po’ ovunque, non è un caso che il Politecnico sia oggi guidato, per la prima volta dalla sua nascita, da una rettrice».

Anche da questa prospettiva, aggiudicarsi un ERC Synergy Grant è un traguardo da festeggiare: quest’anno, su 395 progetti che hanno partecipato al bando, solo 37, cinque dei quali partecipati da scienziati italiani, hanno ottenuto il finanziamento, coinvolgendo 135 ricercatori chiamati a realizzarli presso 114 università e centri di ricerca in 19 Paesi europei e non solo. «Quella di ERC è senza dubbio la linea più prestigiosa di finanziamento della ricerca a livello europeo», dichiara Antonietti. «Sono orgogliosa di questo traguardo raggiunto con Nemesis, anche perché a essere valutate sono proposte in ogni campo della scienza, senza argomenti predefiniti e valutate sulla base del solo criterio dell’eccellenza scientifica». E gettando lo sguardo indietro, a quando, ancora bambina, si divertiva ad assemblare i mattoncini del Lego, precisa: «Non sono ossessionata dalla matematica, mi piace anche leggere, anzi, sono una divoratrice di libri. E ce n’è uno che per me ha significato tantissimo, “Cuore” di Edmondo De Amicis: mi fu regalato alle elementari dalla maestra, come premio per essere stata una lettrice d’eccezione, e mi ha accompagnata nei momenti più importanti della mia vita, quando sono andata via di casa, quando mi sono sposata, quando l’ho passato alle mie figlie. Perché è un inno all’educazione, al rispetto, alla gentilezza, alla gratitudine, al coraggio, al sacrificio, ed è dall’educazione e dalla cultura che passano i valori imprescindibili di tutela e difesa dei diritti di tutti».

Traguardi raggiunti: chi sono gli Alumni e le Alumnae da tenere d’occhio nel 2024?

Abbiamo chiuso il 2023 con la lista degli Alumni e delle Alumnae politecnicə che hanno ricevuto un premio o un riconoscimento alla carriera. Ma questa lista non è mai un lavoro compiuto.  

Apriamo questo 2024 con 12 architetti e designer, 12 talenti dal mondo del progetto. Sono nella lista di AD – ARCHITECTURAL DIGEST Italia dei 100 migliori architetti e designer da tutto il mondo da tenere d’occhio nei prossimi mesi: alcuni “mostri sacri” e altri che potrebbero suonarvi nuovi, ma solo se non siete addetti ai lavori.  

Sono citati: ACPV, studio di architettura fondato dagli Alumni Antonio Citterio e Patricia Viel – noto per la sua estetica oltre il convenzionale che si cimenta in sfide negli ambiti più disparati (per esempio sono appena nate due unità specializzate come ACPVIDEO, dedicata alla produzione video e ACPVX, per la consulenza di progettazione digitale); Droulers Architecture, studio milanese fondato dall’Alumna Nathalie Droulers (laureata in architettura nel 1996) e dalla sorella (che ha studiato invece alla School of Design di New York); Hannes Peer, architetto originario di Bolzano e laureato al Politecnico di Milano nel 2002; Mario Bellini, fondatore dell’omonimo studio di design e architettura, laureato in architettura nel 1959 al Politecnico di Milano (dove ha avuto come professori Ernesto Nathan Rogers, Gio Ponti, e Piero Portaluppi). I suoi riconoscimenti non si contano. Ma – per rinfrescare un po’ le lezioni di storia made in Polimi – vi rimandiamo alla storia della mitica “Perottina”: la Olivetti Programma 101, primo Personal Computer della storia, che vi abbiamo raccontato qui. Poi Patricia Urquiola, naturalmente, che del maestro Achille Castiglioni ha preso la connessione empatica profonda che mette nei suoi progetti (Alumna Architettura 1989). Piero Lissoni, un altro grande politecnico, laureato in Architettura nel 1985 – nome che ricorre più volte ogni anno nell’Olimpo del design. L’Alumnus e senatore Renzo Piano, laureato nel 1964 al Politecnico di Milano, figura chiave dell’architettura internazionale degli ultimi quarant’anni. Storage Milano, studio di architettura e design fondato a Milano nel 2002 dagli Alumni architetti Barbara Ghidoni, Marco Donati e Michele Pasini. E infine 2050+, agenzia interdisciplinare milanese fondata dall’Alumnus (Architettura 2005) Ippolito Pestellini Laparelli

E A PROPOSITO DI TRAGUARDI 

Vogliamo recuperare una news del 2023 che non abbiamo fatto in tempo a raccontarvi: l’ingegnera chimica Laura Galli è la nuova Managing Director di 3M Italia, ruolo che affianca a quello di accanto a quello attuale di Vice President EMEA per la divisione Personal Safety, ricoperto in azienda dal 2022. Galli ha una consolidata esperienza in azienda che l’ha portata a ricoprire ruoli di sempre maggiore importanza, sia nazionali che internazionali, per diversi settori in cui opera 3M, dai mercati industriali a quelli della salute e del largo consumo. Nel 2021 l’abbiamo intervistata per il libro Alumnae: Ingegnere e Tecnologie: ci racconta il suo percorso, dal Politecnico di Milano, e com’è che ha deciso di fare “l’ingegnere”.  

La spettroscopia utraveloce è un capitolo della scienza che si scrive a Milano

Il Politecnico è ai vertici delle classifiche mondiali delle università anche grazie alla ricerca scientifica di frontiera che porta avanti nei suoi laboratori. I protagonisti di questo primato italiano sono i circa 3500 scienziati e ricercatori del Politecnico. Tra i temi più caldi ci sono ovviamente quelli legati alla trasformazione sistemica verso la neutralità climatica; e poi il mondo del digitale, dell’esplorazione spaziale, delle life sciences, i movimenti abbracciati dal New European Bauhaus, le nuove frontiere nello studio della materia…  In particolare i giovani ricercatori immettono nuova linfa nel sistema della ricerca e fanno crescere filoni scientifici innovativi. Il Politecnico investe in attività mirate proprio a incentivare l’arrivo di giovani scienziati di eccellenza. Tra i molti, quest’anno accogliamo dodici nuovi giovani ricercatori e ricercatrici tra i migliori della loro generazione, che arrivano al Politecnico di Milano grazie al programma Marie Skłodowska-Curie Actions (MSCA) fellowship. Ve li presentiamo… in rigoroso ordine d’appello.

CHIARA TROVATELLO ha scelto di portare il suo progetto al Poli per la ricerca estremamente competitiva nel campo dell’ottica non lineare e della spettroscopia ultraveloce, che rappresentano fiori all’occhiello per l’ateneo milanese. Il suo progetto li applica allo studio di materiali bidimensionali (come il grafene, i dicalcogenuri di metalli di transizione e le eterostrutture van der Waals): unisce scienza dei materiali, ottica non lineare e ottica quantistica per svelare sorgenti di luce integrate alla nanoscala, con possibile impatto sul futuro delle comunicazioni quantistiche sicure, creando nuovi protocolli e tecnologie avanzate per comunicazioni sempre più rapide ed energeticamente favorevoli.

Scopri di più: tutti i ricercatori Marie Skłodowska-Curie Actions (MSCA) del 2023 su MAP 12

L’alumnus Simone Carniglia nel Guinnes dei primati

Sono circa 132mila le persone che nel mondo hanno finito le 6 più importanti maratone del mondo: di queste solo poche decine sono diabetiche, di queste poche decine solo due hanno il diabete di tipo 1, quello più grave perché autoimmune e al momento senza cura; “ma manca poco” ha detto con fiducia il ragazzo di cui parliamo qui. Quel ragazzo è Simone Carniglia, Alumnus del Politecnico di Milano, ingegnere meccanico laureato nel 2011 e oggi assunto da Saipem, azienda che opera nel settore energetico, petrolifero e delle rinnovabili.

La storia di Simone è di quelle che ispirano: “Molte mamme dopo avermi conosciuto mi hanno ringraziato, perché ho fatto vedere che anche i loro figli diabetici potevano fare sport”. Fare sport, e non solo: fare-sport-di-resistenza, quello che agli occhi di molti sembra precluso ai diabetici: “Il messaggio che voglio mandare è proprio questo, che noi diabetici possiamo fare sport di resistenza, basta stare attenti a diversi parametri durante la performance: come l’alimentazione, che deve essere maggiore rispetto agli altri e con più carboidrati, e l’idratazione. Dobbiamo bere tanto”.

Carniglia è arrivato alle maratone per caso: “Ho sempre fatto sport di squadra, prevalentemente basket e pallamano ma, nel 2017 a 30 anni, avevo subito troppe distorsioni alle caviglie e ho dovuto smettere. Sono ingrassato, è uno dei problemi collaterali della nostra malattia, pesavo oltre 125 kg. Poi alcuni amici mi hanno proposto di fare una corsa di 10 km, la Milano DJ ten. Non avevo mai corso prima, ma ho accettato e l’ho finita”.

Da lì ha scoperto un talento: “Ho iniziato a correre le maratone e ho scoperto di essere veloce”.

In realtà Simone è più che veloce: ha fatto dei record importanti, tanto che è finito nel guinness dei primati per essere il diabetico di tipo 1 ad aver concluso le sei maratone maggiori nel minor tempo possibile: poco più di 16 ore (il precedente record era 21 ore).

Le sei maratone sono: Londa, Boston, Chicago, Tokyo, Berlino e New York: “E a differenza di quel che pensano gli italiani la più prestigiosa è Boston, non NY”.

Ancora: “Ho un personale di 2 ore 38 minuti e 21 secondi (il che vuol dire correre un km ben sotto ai 4 minuti…!)ma il mio obiettivo è scendere almeno una volta sotto le due ore e 35. Penso di potercela fare, ci sono andato vicino due volte”.

Ma perché Simone corre? Sicuramente perché gli piace ma anche per aiutare la ricerca: “Sì. Siamo all’ultimo chilometro per trovare una cura contro il diabete di tipo 1. L’insulina è una terapia ma non è una cura. Il tipo 1 è una malattia autoimmune ma gli scienziati sono riusciti a trovare dei metodi per rendere le cellule distrutte dal nostro sistema immunitario invisibili al sistema immunitario stesso e a consentire così il trapianto di nuove cellule ottenute da staminali in sicurezza, permettendo loro di produrre insulina come in un pancreas sano. So che sull’uomo la sperimentazione è già in corso da 2-3 anni e chi ha avuto le cure ha smesso di utilizzare l’insulina”.

Insomma manca davvero poco: “Potrebbero essere 10 anni oppure solo due o tre. Quel che so è che io vedrò la cura e la potrò usare, i bambini a cui viene diagnosticato il diabete di tipo 1 possono stare tranquilli che saranno curati. Mi piace sostenere la ricerca ed è per questo che qui potete donare per aiutare JDRF, la principale organizzazione globale nella ricerca della cura per il diabete di tipo 1, che finanzia le migliori ricerche nel mondo, Italia inclusa”.

Ancora su se stesso: “Correre una maratona è già impegnativo per il corridore amatoriale medio, ma per un diabetico lo è ancor di più. Durante una maratona un diabetico ha ulteriori fattori da tenere in considerazione: deve controllare continuamente i livelli di zucchero nel sangue per essere sicuro di non svenire o al contrario andare in ketoacidosi o ancora peggio in coma. Il diabetico è più soggetto a disidratazione e crampi durante l’attività fisica, soprattutto se i livelli di glucosio non sono perfetti. Questo avviene perché con il T1D il pancreas smette di produrre insulina, un ormone essenziale per trasformare il cibo in energia”.

La vita quotidiana di una persona affetta da T1D comporta molte sfide come le tante iniezioni giornaliere di insulina che devono essere bilanciate con l’alimentazione e l’attività fisica.

“Mi qualifico alle gare con i miei risultati, non vengo ammesso per beneficenza o perché sono malato. A Boston, Chicago e Tokyo sono stato il terzo italiano in assoluto al traguardo e ho ottenuto un quarto posto assoluto a Reikiavik e un sesto posto assoluto ad Helsinki, altre maratone internazionali non facenti parte delle Majors”.

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Anthea Comellini, astronauta politecnica

«Un giorno mi è arrivata una chiamata da un numero francese e dall’altra parte ho sentito una voce maschile che mi parlava in inglese con un accento germanico. Io penso che in Europa ci sia una sola persona che corrisponda a questo criterio: Josef Aschbacher, il direttore generale dell’ESA». Quel giorno, quella voce, ha comunicato all’Alumna Anthea Comellini che era appena stata scelta dall’ESA tra 23mila candidati per entrare a far parte dei 17 astronauti e astronaute, unica donna italiana, in qualità di membro della riserva. In collegamento dalla sede francese di Thales Alenia Space, dove lavora come ingegnera nel reparto di Ricerca e sviluppo, ci ha raccontato il suo percorso.

Dove ha inizio la strada per la luna?

Ho cominciato ad alzare la testa al cielo da piccola. Mi affascinava la tecnologia che l’uomo riusciva a mettere in campo per avventurarsi in questo tipo di esplorazioni, e anche la complessità che ne derivava: quante persone servivano, quanti sviluppi tecnologici e quanta preparazione occorrevano. Uno dei primi film di fantascienza che ricordo di aver visto è stato Armageddon, non certo un’opera particolarmente accurata dal punto di vista scientifico, però mi colpì subito l’immagine dello shuttle sulla rampa di lancio. Poiché ero appassionata di Star Wars, pensavo si trattasse di science-fiction. Fu dopo qualche giorno, parlando con i miei genitori, che scoprii che lo shuttle esisteva davvero e che realmente partiva da quella rampa di lancio. Mi dissi che allora un po’ di cose alla Star Wars si potessero fare. Allo stesso modo mi affascinavano i pionieri dell’aviazione, perché noi non siamo nati per volare ma tutti questi anni di progressi scientifici e tecnologici ci hanno permesso di farlo e ci aiutano a portare avanti studi che non sono fini a se stessi ma che hanno impatti reali sull’umanità. Questo mi ha dato molta forza e ha alimentato la mia passione.

Dopo aver scoperto che dietro la fantascienza si celava una verità tecnologica, com’è proseguita la sua strada?

Il primo sliding doors della mia vita è stato verso la fine delle scuole medie, quando mi sono posta l’interrogativo: carriera umanistica o scientifica? E lì, la scelta per la seconda opzione. C’è stato un momento in cui ho anche considerato di entrare in Accademia Aeronautica a Pozzuoli ma ho capito che avrei preferito studiare gli aerei invece di pilotarli. Sentivo che la mia era una sete di conoscenza tecnologica. Ho scelto così la triennale in Ingegneria Aerospaziale. Quello che ha fatto il Poli per permettermi di essere dove e come sono ora è stato fondamentale. La maniera in cui ho studiato e assimilato le cose mi ha permesso di avere una visione globale. L’aver speso così tante ore sui libri per assimilare concetti nelle discipline più disparate mi ha dato la consapevolezza che magari non ricordo a memoria una formula, ma so benissimo dove andare a cercarle e come applicarla. Questo, in un settore multidisciplinare come lo spazio, è un valore fondamentale. Gli astronauti vengono spesso definiti come “generalisti”, ovvero persone che se la cavano in tutto, ed è una perfetta descrizione di me.

Quanto tempo è durata la selezione e in cosa è consistita?

Ci sono stati sei step in un anno e mezzo. Il primo step è stato l’invio del curriculum insieme ad una lettera di motivazione e la compilazione di un questionario. Da qui, siamo passati dall’essere 23mila a 1400 candidati. Il secondo step è stato una giornata di test psico-metrici molto simili a quelli che le compagnie aeree sottopongono agli aspiranti piloti durante la selezione: test di velocità di percezione, di memoria visiva e uditiva a lungo e a breve termine, coordinazione mani-occhi, multitasking e resistenza dell’attenzione, infine test di matematica e tecnica. Dopo questo secondo passaggio siamo rimasti in 400. Siamo stati invitati quindi a Colonia, al Centro Addestramento Astronauti, per una giornata di assessment psicologico. Abbiamo svolto esercizi a due, per vedere le capacità di comunicazione sotto stress, ed esercizi di gruppo per vedere come interagivamo con gli altri candidati. Nella stessa giornata abbiamo sostenuto l’intervista con uno psicologo e un panel con una giuria composta da psicologi, membri delle risorse umane ed ex astronauti. Nel mio caso, ho incontrato il buon Luca Parmitano. A seguito di questo step siamo rimasti in cento e siamo stati sottoposti ad una settimana di test medici e fisici. Cinquanta di noi hanno potuto accedere alle ultime due fasi: una prima intervista con un board composto da membri senior delle risorse umane, degli astronauti e anche persone della comunicazione, perché a quel punto entrava in gioco anche la capacità di divulgazione delle tematiche spaziali. Ventisei di noi hanno sostenuto l’ultima intervista con il direttore dell’ESA. Quel giorno ero abbastanza rilassata perché sapevo che ero arrivata al massimo di cui sarei potuta arrivare e non avevo nulla da recriminarmi. Avevo sottolineato che per me diventare astronauta non era stata una ossessione, perché avevo fatto il mio percorso cercando di diventare innanzitutto un buon ingegnere e il resto erano delle convergenze che mi avevano portato a candidarmi. Mi hanno chiesto se secondo me ciò non volesse dire che fossi meno motivata di qualcuno che invece aveva orientato dieci anni della propria vita a questo obiettivo. La mia risposta è stata che il mio era un approccio meno egoistico, in quanto più che sull’ossessione per ottenere qualcosa su cui mi ero fissata, ero interessata all’utilità di ciò che possiamo fare come comunità spaziale.

Sei quindi stata nominata astronauta di riserva, cosa fa un astronauta di riserva?

La riserva ha innanzitutto lo scopo di assicurare la continuità nel caso di un ricambio generazionale. Poi, dato che ci troviamo in un momento storico in cui c’è l’avvento degli operatori commerciali, le missioni non sono più solo a carico delle istituzioni, il che apre al turismo spaziale per chi se lo può permettere ma dà la possibilità anche a paesi europei più piccoli ad accedere più facilmente a missioni con astronauti della loro nazionalità. Nel frattempo proseguo il mio lavoro di ingegnere, soprattutto sui rendez-vous. Mi occupo cioè di permettere ai satelliti di compiere autonomamente traiettorie senza bisogno del supporto da terra. Ciò ha diverse applicazioni: i rendez-vous autonomi servono ad esempio per recuperare i detriti spaziali e riportarli in atmosfera o per effettuare servizi di estinzione vita, rifornimento e riparazione. Mi sento di star contribuendo in una maniera che è buona, cerchiamo di massimizzare le risorse già in orbita, ripuliamo ci che è stato fatto negli anni precedenti quando i lanci erano più liberi e non si pensava al dopo.

A proposito di questo, che valore ha la sostenibilità nello spazio?

Questo tipo di sistemi orbitali sono un esempio eccellente di economia circolare e sostenibile: si ricicla fino all’80 per cento dell’acqua, sono totalmente indipendente dal punto di vista energetico grazie ai pannelli solari e ci aiutano a sviluppare tecnologie che hanno dei ritorni sulla terra, che possiamo applicare nella vita di tutti i giorni. Lo stesso vale per l’esplorazione lunare, in cui il touch-down non è più nazionalistico, l’essere arrivati per prima, ma si cerca di costruire degli habitat più o meno permanenti e di utilizzare risorse in situ per la produzione di acqua e ossigeno, la protezione contro le radiazioni.

Da quando sei stata nominata membra della riserva astronautica e alzi lo sguardo al cielo, com’è vedere la luna?
Non lo alzo più perché mi fa paura (ride, ndr). Ogni tanto, per scherzo, quando sono in compagnia del mio ragazzo, guardo la luna e le ammicco.

Quando le capita di incontrare coetanei o persone più giovani, qual è il messaggio che le preme trasmettere?

Ai più giovani dico di non temere di compiere scelte difficili. Cerco poi di porre l’attenzione su quanto sia sbagliata un certo tipo di narrativa, ancora presente, per cui se sei una ragazza e scegli la carriera tecnico-scientifica avrai vita difficile, perché non è un posto per donne. Infine, dico che non è che si debba diventare per forza astronauti. A me è andata bene, ma una delle ultime fasi, quella dei test medici, non dipende dal nostro impegno e superarla non è un merito. Quindi non possiamo condizionare la nostra felicità ad una metà in cui c’è una così grande componente di fortuna. Dico sempre che se fosse andata male non mi sarei sentita una fallita. Anche senza essere astronauta, grazie a tutta la strada percorsa, mi sarei comunque trovata a fare con passione ciò che amo.

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Il Poli è nel top 7% delle migliori università in Europa

Nella classifica 2023 dedicata all’Europa (fonte: QS University Rankings), il Politecnico di Milano si posiziona nel top 7% delle migliori università presenti in graduatoria (690 in totale). Rimane saldo in prima posizione in Italia, mentre nella classifica mondiale raggiungiamo la posizione più alta della nostra storia, classificandoci quest’anno al 123° posto su un totale di 1500 università globali. Per la prima volta il Politecnico entra nel top 9% delle università di eccellenza a livello mondiale.

Sempre secondo QS, i dati confermano l’ottima performance dell’Ateneo, che si posiziona tra le prime 20 università al mondo nei campi del Design (8° posizione), dell’Architettura (10° posizione) e dell’Ingegneria (18° posizione).

Avete spesso occasione di leggere notizie come questa: di “ranking”, cioè classifiche universitarie, si parla sempre di più. Ma cosa sono? Su quali criteri si basano? E soprattutto… ci interessano davvero?

CHI FA LE CLASSIFICHE

Esistono decine di ranking, tra classifiche e sotto-classifiche. In genere, sono realizzate da società private, dall’editoria alla consulenza. Per esempio, c’è il ranking formulato da Times Higher Education, periodico britannico. Il ranking “di Shanghai”, come viene chiamato informalmente, è pubblicato dalla ShanghaiRanking Consultancy. La classifica Qs, citata sopra, è realizzata da Quacquarelli Symonds.

Nessuna classifica è “definitiva”: ce lo spiega Francesca Saracino, Head of CareerService al Politecnico di Milano: “Quelle citate sono le classifiche che hanno maggiore impatto mediatico, ma non esiste un organismo sovranazionale indipendente che definisca una volta per tutte i parametri per decidere quale sia l’università migliore. Esistono diversi punti di vista e soprattutto diversi sistemi accademici, non c’è quindi un accordo di base, universale e internazionale su cosa sia l’università: alcune fanno ricerca, altre no; ci sono università che coprono tutte le materie, altre, come la nostra, sono molto focalizzate. Le rilevazioni adottano quindi metodologie diverse, prendono in considerazione indicatori diversi e, di conseguenza, anche i risultati che ottengono variano in maniera consistente”.

MA QUINDI, A COSA SERVONO?

Questo panorama così variegato rispecchia la varietà di orientamenti delle diverse zone geopolitiche nei confronti del sistema accademico e universitario. Insomma, potrebbe capitarvi di leggere che il Politecnico è primo in una determinata classifica, 50° in un’altra, in un’altra ancora non venga proprio nominato. Ma è sempre bene tenerne conto. Prima di tutto, continua Saracino, “Gli studenti hanno imparato che uscire da un’università ben posizionata rappresenta un vantaggio competitivo per accedere a carriere prestigiose, perché ci sono aziende che guardano alle classifiche, quando assumono. Vale anche per i ricercatori, che attraverso le classifiche si tengono aggiornati sulle università più forti nei campi di loro interesse. In questo senso, i ranking hanno una finalità di attrazione di talenti a livello internazionale, perché hanno un marketing così forte da raggiungere qualsiasi angolo del mondo. Sono poi un utile strumento di confronto per le università stesse: possiamo vedere come si posizionano i nostri competitor e prendere decisioni strategiche di conseguenza”.

I RANKING SONO UN TERMOMETRO PER LA SALUTE DELL’ATENEO

Sono quindi uno strumento, più che un fine. E in questo senso è utile sapere quali siano gli indicatori in cui siamo forti e quelli sui quali dobbiamo ancora lavorare. Ci aiutano anche a farci un’idea delle criticità degli ecosistemi nazionali e internazionali nei quali siamo inseriti.

Per esempio, nell’indicatore “Faculty Student”, che misura il numero di docenti per studente, le università italiane non vanno forti, perché il reclutamento dei docenti ha limiti strutturali definiti, dal Ministero dell’Università e della Ricerca.

Siamo invece molto forti in Employer Reputation, un indicatore che valuta le opinioni dei datori di lavoro a livello globale su come le università formano i laureati per il mondo del lavoro. Ci premia anche l’Academic reputation, basato sulle risposte a un sondaggio di migliaia di accademici chiamati a stilare l’elenco delle Università più autorevoli nella propria disciplina scientifica. Il nostro Ateneo si posiziona tra le prime 100 università al mondo per reputazione accademica e aziendale. Anche gli indicatori di internazionalizzazione, come il numero di docenti e studenti internazionali sono in miglioramento negli ultimi anni. È particolarmente rilevante il punteggio elevato ottenuto nel nuovo indicatore dell’International Research Network, che valuta il livello di collaborazione internazionale nella ricerca scientifica.

LO SAPEVI CHE PUOI DIRE ANCHE LA TUA?

Gli Alumni possono unirsi alla comunità internazionale dei referenti aziendali e condividere la loro opinione con QS su quali siano le migliori università nel mondo. Chi desidera farlo, può registrarsi per esprimere il proprio interesse a partecipare alla QS Global Employer Survey 2024: QS potrebbe contattare gli interessati via email entro i primi mesi del 2024, invitandoli a partecipare alla survey. Le risposte verranno lette in maniera aggregata per costruire gli indicatori di Employer Reputation che figurano nel QS World University Rankings. Registrati a questo link

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2023 da fuochi d’artificio! Un anno di alumni e progetti politecnici premiati nel mondo

Il 2023 è stato un anno d’oro per il Made in Italy firmato Politecnico di Milano. Abbiamo raccolto in questa pagina tutti i premi e i riconoscimenti di cui siamo venuti a conoscenza: sicuramente ce ne stiamo dimenticando alcuni, segnalateceli!

FEBBRAIO

  • Milanese di nascita, californiano di adozione (insegna all’Università della California, Berkeley) Alberto Sangiovanni Vincentelli, Alumnus del Poli, è uno dei maggiori esperti al mondo nel campo dell’informatica. Citiamo solo l’ultimo dei suoi numerosi premi riconoscimenti: il prestigioso BBVA Foundation “Frontiers of Knowledge Award”
  • La professoressa Amalia Ercoli Finzi, la “signora delle comete”, ha ricevuto ufficialmente il prestigioso premio Hubert Curien

MARZO

APRILE

  • 7 Alumni nella classifica Forbes 30under30: Leonardo Bertelli – 26 anni – categoria Science; Camilla Cecilia Conti – 28 anni – categoria Manufacturing & Industry; Rachele Didero – 26 anni – categoria Consumer Technology; Alessandro Fanni – 29 anni – categoria Science; Lisa Iannello – 26 anni – categoria Healthcare; Francesca Madonini – 27 anni – categoria Science; Guido Putignano – 20 anni – categoria Science
  • Primo premio al Piranesi Prix de Rome et d’Athènes 2022-23 a un progetto firmato dai docenti Massimo Ferrari e Claudia Tinazzi, del Dipartimento di Architettura, Ingegneria delle Costruzioni e Ambiente Costruito

MAGGIO

  • Il prof. Andrea Castelletti, del Dipartimento di Elettronica, Informazione e Bioingegneria, è il vincitore nazionale per l’Italia della prima edizione del Frontiers Planet Prize, nato per valorizzare le migliori ricerche pubblicate negli ultimi 2 anni nell’ambito della scienza della sostenibilità

GIUGNO

LUGLIO

AGOSTO

  • Il team italiano ha vinto la prestigiosa competizione Hack a-Sat, organizzata dal Dipartimento della Difesa USA. Obiettivo (riuscito): violare la sicurezza informatica di un satellite. Complimenti ai Mhackeroni, guidati dal prof. Mario Polino del dipartimento di Elettronica Informazione e Bioingegneria
  • Gaia Letizia Civardi, dottoranda presso il Dipartimento di Scienze e Tecnologie Aerospaziali, è stata premiata con una prestigiosa borsa di studio Amelia Earhart

SETTEMBRE

  • Il prof. Alfio Quarteroni, del Dipartimento di Matematica, ha ritirato a Tokyo il prestigioso ICIAM Lagrange Prize, assegnato ogni quattro anni dall’International Council for Industrial and Applied Mathematics a matematici che nel corso della loro carriera hanno saputo fornire un contributo eccezionale nel campo della matematica applicata. Il prof. Quarteroni è stato premiato, recita la motivazione del premio, “per i suoi rivoluzionari contributi che hanno avuto un impatto significativo sulla matematica”
  • A Subrata Ghosh, del Dipartimento di Energia, è stato assegnato il Diamond and Carbon Materials Early Career Research Award
  • Francesco Pierri, ricercatore del Dipartimento di Elettronica, Informazione e Bioingegneria ha vinto l’Outstanding Dissertation Award – Runner Up di SIGKDD 2023

OTTOBRE

NOVEMBRE

DICEMBRE

  • Il Prof. Enrico Tronconi del Dipartimento di Energia del Politecnico di Milano ha vinto uno dei tre premi dell’Air Liquide Scientific Challenge con la sua proposta innovativa di utilizzo dell’energia elettrica per la produzione di idrogeno. Ora potrà sviluppare il suo progetto e trasformarlo in una tecnologia pronta per il mercato
  • Il Premio del Presidente per la Giornata delle Marche è stato assegnato a Sofia Scataglini, Alumna Ingegneria Biomedica, che oggi è docente all’Università di Anversa. Il suo lavoro di ricerca si concentra sulla progettazione per la salute e la cura delle persone; collabora con numerose istituzioni e ha fondato il gruppo Digital Human Modeling by Women, che si dedica al supporto delle donne che lavorano su materie STEM.
  • Ddpstudio, fondato dagli Alumni Lorenzo de Bartolomeis, Gabriele Diamanti e Filippo Poli, riceve il XIII Premio Nazionale per l’Innovazione Premio dei Premi per Hannes, la “mano bionica”
  • L’anno si apre e si chiude con la prof.ssa Amalia Ercoli Finzi, che ha ricevuto dal sindaco di Milano l’Ambrogino d’oro 2023

Il prof. Alberto Guadagnini vince la prestigiosa Darcy Medal 2024

«Ho sognato tante volte di ricevere questo premio, uno tra i più prestigiosi a livello internazionale nel campo dell’idrologia. Anzi, a essere sincero non l’ho solo sognato, ci ho anche pensato spesso, in particolare mentre assistevo alle lecture plenarie di coloro che sono stati premiati prima di me». Alberto Guadagnini, vicerettore per la ricerca al Politecnico di Milano e docente di Idraulica presso il Dipartimento di Ingegneria Civile e Ambientale, ammette che aggiudicarsi la Medaglia Henry Darcy 2024 dell’European Geosciences Union era una delle sue massime ambizioni. «Parliamo dell’organizzazione leader in Europa nel settore delle scienze della terra, planetarie e spaziali», dice il professore, che riceverà fisicamente l’importante riconoscimento durante l’Assemblea Generale dell’EGU, in programma dal 14 al 19 aprile prossimi a Vienna – anche se la notizia è già ufficiale. «Quando mi è stato comunicato che mi avrebbero assegnato la Darcy Medal, credevo fosse uno scherzo. Poi ho capito che era tutto vero e mi sono emozionato tantissimo: sono molte le tappe del percorso ultratrentennale – iniziato nel 1991 – che mi ha condotto sin qui, eppure mi sono reso conto di quanto il mio mestiere, lungi dal venirmi a noia, non abbia smesso di appassionarmi. Questo premio, oltre a essere un grande riconoscimento, è una grandissima responsabilità: ora mi sento ancora più motivato a portare avanti le linee di ricerca avviate negli ultimi anni».


LE LEGGI FISICHE DEL SOTTOSUOLO
I temi spaziano dall’idrologia stocastica al flusso e al trasporto multifase, dalle risorse idriche ed energetiche nel sottosuolo al trasporto reattivo. «In sostanza mi occupo di acque sotterranee e, nella fattispecie, dello stato qualitativo di acquiferi a grande scala, ossia alla scala delle singole città o regioni, e di utilizzo delle risorse energetiche nel sottosuolo. Risorse convenzionali e non, laddove per non convenzionale intendo, per esempio, la fratturazione idraulica e l’estrazione di gas. In tale contesto una delle domande di fondo è: quanto può impattare un intervento legato alle risorse energetiche nel sottosuolo – dalla geotermia al gas agli idrocarburi allo stoccaggio di anidride carbonica – sulla qualità di acquiferi la cui acqua può essere usata a scopo potabile, cioè per bere, o per l’irrigazione agricola o a fini industriali?”. Facile intuire quanto tali studi siano rilevanti per le politiche ambientali e per l’auspicata transizione ecologica, dal momento che l’utilizzo responsabile delle risorse e la preservazione della qualità dell’acqua sono fondamentali per garantire un ambiente sano e sostenibile. «Uno dei punti di rilievo – spiega Guadagnini – è quantificare i possibili rischi legati alla contaminazione delle acque sotterranee e, nel caso si verifichi un evento di contaminazione, cercare un rimedio, ovvero capire cosa fare per ripristinare il buono stato dell’acqua nel sottosuolo. Ma come? Personalmente mi sono concentrato sulle leggi fisiche che stanno alla base di questo genere di processi. Perché ritengo che solo il continuo incremento delle nostre conoscenze in questo ambito, quindi relativamente a tutto ciò che regola il comportamento e lo stato qualitativo dell’acqua in un ambiente complesso e mutevole come il sottosuolo, possa fornire un solido fondamento per la progettazione di interventi che permettano di gestire le risorse idriche nella maniera più sostenibile possibile».


COSA ACCADE NEL CUORE DELLA TERRA? CE LO DICE LA PROBABILITÀ
L’idea è che la ricerca di base sia essenziale alla ricerca applicata, ragion per cui Guadagnini si è approcciato alla seconda senza tralasciare la prima, ossia quella da cui era partito a inizio carriera. Se non si portasse avanti la ricerca di base, quella applicata non avrebbe più idee e concetti nuovi da sfruttare per le proprie indagini mirate, in ultima istanza, alla risoluzione di problemi concreti e reali. E vale anche il contrario, visto che a sua volta la ricerca applicata può favorire la scoperta di nuovi fenomeni e stimolare ulteriormente quella di base. È un ciclo virtuoso. Entrando nel dettaglio degli studi specifici del professore originario di Verona, classe ’64, questo ha significato, in primis, partire dalla conoscenza della fisica di base sui mezzi porosi, vale a dire suoli o sistemi artificiali quali, per esempio, membrane e affini, concepiti ad hoc grazie alle tecnologie più avanzate. «Anche la nostra pelle è un mezzo poroso, sia chiaro, semplicemente io mi occupo di altre tipologie di mezzi porosi», precisa lui, che si è successivamente focalizzato sullo sviluppo di schemi teorici di tipo probabilistico. «Uno degli aspetti affascinanti dei sistemi idrici sotterranei è che sono ricchi di processi fisici, dal flusso di fluidi – non importa si tratti di sola acqua, di mix di acqua e gas, di acqua e idrocarburi o altro – all’interazione del terreno con i composti chimici disciolti all’interno di questi fluidi, composti che provocando tutta una serie di reazioni geochimiche possono finire per trasformare completamente la natura del sistema. A me interessava studiare non solo la natura di quei processi fisici, ho anche cercato di identificare questi ultimi mediante un’appropriata formulazione matematica e di comprendere come impiegare i dati così raccolti nella realtà all’interno di modelli previsionali. È qui che, visto che non si possono avere così tanti dati su ciò che accade a mille o duemila metri di profondità, interviene lo sviluppo di modelli teorici costruiti considerando il concetto di probabilità, che ci fornisce una misura della possibilità che un evento si verifichi».
RICERCA PER LA SOSTENIBILITÀ E LA TRANSIZIONE ECOLOGICA
Nel concreto, si potrebbe avere bisogno di calcolare la probabilità che in un terreno la concentrazione di una data sostanza superi un determinato livello, provocando effetti nocivi sull’ambiente. Oppure, in caso di contaminazione intorno a un pozzo da cui si estrae acqua potabile da distribuire alla popolazione, potremmo dover verificare dopo quanto tempo l’effetto contaminante potrebbe ripercuotersi sulla qualità dell’acqua estratta dal pozzo stesso. Sono solo due esempi, i progetti di ricerca che ha coordinato Guadagnini sono numerosi: si va dall’analisi delle aree di influenza dei pozzi di emungimento sotterraneo all’identificazione di modalità di protezione delle sorgenti idriche naturali, dallo studio dell’effetto combinato dei cambiamenti climatici e delle attività antropiche sulle risorse idriche sotterranee all’indagine relativa al modo in cui l’anidride carbonica immagazzinata nel sottosuolo possa influenzare quest’ultimo e la preservazione dell’acqua. «Le applicazioni della ricerca sono potenzialmente infinite. Parlando di transizione ecologica, stiamo anche studiando alcuni contaminanti emergenti che sono di fatto prodotti farmaceutici: attualmente sono alla guida di un progetto europeo connesso alla propagazione nelle acque sotterranee di particolari fluidi di contrasto usati nelle risonanze magnetiche. Questo perché tali contrast media agents, pur essendo innocui per l’organismo, quando vengono espulsi e finiscono nell’ambiente possono dare luogo a prodotti il cui effetto non è ancora chiaro».
Diplomato al liceo classico e poi iscrittosi a Ingegneria Civile «perché ho sempre provato una forte attrazione per la matematica e le scienze applicate», Guadagnini afferma che per far fronte alla forte competizione nel suo settore servono «il talento individuale, tanto impegno e un ecosistema che sostenga le attività di ricerca». Da questo punto di vista «le infrastrutture e le opportunità che offre il Politecnico di Milano sono eccezionali – osserva –, a partire dalla vitalità dell’ambiente per arrivare alla possibilità di sviluppare ricerche in completa autonomia, anche creando laboratori sperimentali supportati dall’Ateneo». E aggiunge: «Non c’è intervento dell’uomo sull’ambiente che non comporti rischi. Per come la vedo io, è importante essere consapevoli di quei rischi e saperli quantificare includendo l’incertezza associata al nostro livello di comprensione. Così che poi si possa procedere con lo sviluppo di nuove tecnologie ed eventualmente, a livello politico, compiere valutazioni informate per affrontare le sfide che di volta in volta ci si presentano davanti nel mondo reale».