Il Politecnico di Milano, con la collaborazione della Fondazione Politecnico di Milano e dell’IRCCS Ospedale San Raffaele, ha dato vita ad ARTERY (Autonomous Robotics for Transcatheter dEliveRy sYstems), un progetto H2020 finanziato dalla Commissione europea che si occupa di ricerca nel campo delle malattie cardiache strutturali.
L’obiettivo di ARTERY è creare una piattaforma robotica che sfrutti l’intelligenza artificiale e la realtà aumentata per implementare il trattamento non invasivo delle malattie delle valvole del cuore.
COME FUNZIONA ARTERY?
Il progetto ARTERY mira a sviluppare nuovi sistemi di guida e monitoraggio e sistemi capaci di formare e supportare gli operatori, rendendo gli interventi più sicuri ed efficaci per il paziente ed eliminando l’uso dei raggi X.
I medici in training riusciranno, grazie all’utilizzo della realtà virtuale, a sperimentare gli interventi cardiovascolari in simulazione, riducendo così notevolmente lo stress e migliorando l’approccio agli interventi. In questo modo il medico non impara direttamente sul paziente ma sul simulatore, in sicurezza e azzerando i rischi.
Credits: tecnicaospedaliera.it
ARTERY prevede la creazione di una piattaforma robotica che semplificherà le procedure percutanee (ovvero le procedure in cui le strutture malate sono riparate o sostituite impiantando uno o più dispositivi nel cuore tramite un catetere inserito da un piccolo accesso periferico) e che eliminerà l’uso dei raggi-X intra-operatori; il sistema sarà inoltre semi-autonomo e le decisioni, che saranno guidate dall’intelligenza artificiale, verranno sempre condivise e concordate con l’operatore umano.
“Il progetto Artery introdurrà due grandi innovazioni che avranno un importante impatto sulle operazioni cardiache: – afferma Emiliano Votta, Alumnus e professore associato del Politecnico di Milano – il telecontrollo dei robot attraverso l’intelligenza artificiale e la realtà aumentata, e quindi la possibilità di gestire operazioni complesse in modo intuitivo e potenzialmente da remoto, e l’uso di cateteri sensorizzati, che permetteranno più controllo e precisione nei movimenti del catetere dentro il corpo del paziente. Queste innovazioni renderanno gli interventi percutanei sul cuore più semplici da imparare e da eseguire, e più sicuri per pazienti e operatori.”
Per raggiungere questo ambizioso obiettivo, il Politecnico di Milano unisce le proprie competenze con quelle dell’IRCCS Ospedale San Raffaele, che fornisce la guida clinica nello sviluppo, della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, che si occupa della sensorizzazione del sistema, dell’università Cattolica di Leuven, che si occupa dell’attuazione robotica dei cateteri e di tre aziende che contribuiranno alla traslabilità della ricerca: FBGS, esperta di sensori a fibre ottica, Artiness, esperta di realtà aumentata applicata al mondo medicale, e Swissvortex, esperta di tecnologie transcatetere.
L’analisi delle università, suddivisa tra atenei statali, non statali e politecnici e a seconda delle dimensioni, prende in esame diversi parametri, tra i quali anche le strutture dei campus, i servizi erogati, il numero di borse di studio in favore degli studenti, il livello di internazionalizzazione, la comunicazione, i servizi digitali e l’occupabilità a un anno dal titolo.
Censis nel suo report dichiara che le iscrizioni all’università in Italia sono aumentate del 4,4% nel 2020, smentendo le previsioni che ipotizzavano un calo delle immatricolazioni dovuto alla pandemia.
Anche al Politecnico di Milano si conferma questo andamento positivo: gli immatricolati nell’anno accademico 2021/2022 sono stati 15.413 (5.442 donne; 9.971 uomini), contro i 12.811 dell’anno precedente (4.497 donne; 8.314 uomini). Questo dimostra la tenuta del Politecnico di Milano che, di fronte all’emergenza pandemica, ha consolidato e potenziato prassi già in atto per garantire, nonostante il distanziamento sociale, l’accesso alle attività formative online e offline durante gli ultimi 18 mesi.
Regina De Albertis, Alumna in Ingegneria Edile, è stata eletta presidente di Assimpredil Ance, l’Associazione delle Imprese Edili e Complementari di Milano, Lodi, Monza e Brianza.
De Albertis, che lavora nell’impresa di famiglia Borio Mangiarotti spa, di cui è direttore tecnico e consigliere delegato, è la prima donna a coprire questo ruolo e lo farà per i prossimi quattro anni.
“Ho scelto di accettare questa sfida, candidandomi alla guida dell’associazione perché in questo momento, così cruciale per le nostre imprese e per il territorio, dobbiamo lavorare insieme per costruire il nostro futuro ed innovare la nostra filiera, orgogliosi di essere costruttori e protagonisti della ripresa economica” ha dichiarato la nuova presidente.
Credits Assimpredil Ance Milano Lodi Monza e Brianza
L’obiettivo sarà rimettere il territorio al centro delle strategie del Sistema Italia, perché al settore edile è affidata la riuscita del Pnrr: si tratta di una sfida che porterà “il Paese verso una vera rinascita in senso sostenibile, con un patto di fiducia tra generazioni, tra società civile e politica, tra economia e amministratori della cosa pubblica”.
L’affiancheranno, oltre a una squadra di Vicepresidenti e un Tesoriere, anche i quattro coordinatori dei Consigli di Zona, che assicureranno all’Associazione il presidio dell’area metropolitana di Milano e delle province di Lodi e Monza Brianza, per facilitare il dialogo tra Istituzioni e stakeholder.
“La rigenerazione urbana guiderà la trasformazione green del Paese – continua De Albertis – perché dalle città può nascere un nuovo modello di sviluppo che consenta di trasformare il territorio invertendo tutti i parametri di consumo delle risorse, parametri che per secoli sono stati alla base dei modelli di crescita. La visione per il futuro deve prevedere la costruzione di alleanze di filiera in grado di affermare un nuovo modello di relazioni tra le componenti produttive, ma anche tra la filiera e la comunità. Oggi gli interventi sul costruito devono generare valore ambientale e sociale per le generazioni future”.
Con una donazione libera (scegli tu la cifra!) contribuisci insieme ad altri donatori a creare borse di studio per sostenere una o più studentesse che inizieranno a frequentare il primo anno di Laurea Magistrale dei corsi di Ingegneria che oggi hanno una bassa frequenza femminile. Dona ora
Cini Boeri si laureava nel 1951. Nel 2015 l’abbiamo incontrata tra le sue opere, alcune più anziane di chi scrive, per raccontare i suoi oltre 60 anni di carriera attraverso una delle sue ultime mostre monografiche: “Progettando la gioia”. Ricordiamo la celebre architetta viaggiare con occhi sognanti e con ironia attraverso i suoi lunghi anni e attraverso la storia dell’architettura e del design del ‘900, mentre rispondeva alle domande degli Alumni:
foto Maria Mulas
AP: Cini, lei si è laureata nel 1951, poi ha aperto molto presto il suo studio, nel ’63. La sua carriera è decollata tra progetti, insegnamento, ricerca, fino a questa esposizione, “Progettando la Gioia”, una sorta di compendio della sua vita professionale.
CB: Sì, non ho dovuto aspettare molto, dopo la laurea, per iniziare a lavorare. Da Gio’ Ponti sono rimasta solo un anno. È stato lui spingermi verso la professione. Mi diceva: “Tu, coi colori che fai, devi fare l’architetto!”. Poi sono andata da sola. Avevo una segretaria e ogni tanto qualche stagista a fare pratica.
AP: Durante un’intervista, ha dichiarato che una buona parte del suo lavoro consiste nel progettare oggetti di uso comune, con lo scopo che non siano posseduti bensì utilizzati. L’utilizzo degli oggetti e il rapporto con lo spazio può essere una fonte di gioia. Cosa significa?
CB: Quando progetto una casa per una coppia di coniugi, ad esempio, propongo sempre di inserire una stanza in più. Loro mi chiedono sempre: “per gli ospiti?”. Ma no! Non per gli ospiti. Perché se una sera uno ha il raffreddore può andare a dormire in un’altra stanza, per esempio. Uno dovrebbe poter scegliere, sapere che può andare a dormire con il proprio compagno, ma che può anche decidere di non farlo, senza che questo pregiudichi la vita di coppia. Credo sarebbe molto educativo insegnare i giovani che quando si uniscono in coppia non è obbligatorio dividere il letto, è una scelta. È molto più bello.
AP: Quindi secondo lei si possono usare gli spazi quotidiani per educare le persone a diversi modelli di vita?
CB: Esattamente! Certo.
foto archivio storico Arflex
AP: In che modo pensa che il suo lavoro possa contribuire a questa educazione della cittadinanza?
CB: Un po’, la società matura per conto suo. Oggi le persone sono più autonome e indipendenti. È un processo in atto. Io, nella mia veste di architetto, posso proporre dei modi alternativi di abitare e vivere gli spazi, agevolando un processo di emancipazione già in atto e promuovendo ovunque possibile la libertà di scelta.
AP: Parlando della sua opera, parole che emergono spesso sono quelle di un approccio democratico all’architettura e al design. Cosa significa? Quali sono i suoi padri intellettuali?
CB: È il Politecnico che ci ha abituati così. Abbiamo avuto un insegnamento molto aperto, non so se oggi sia ancora così!
AP: Ci racconta qualcosa degli anni del Poli?
CB: Ecco… si discuteva abbastanza. Io arrivavo con delle idee già maturate sull’autonomia e la responsabilità reciproca: già allora pensavo che fosse importante mettere il focus su libertà degli individui, e i miei progetti hanno sempre cercato di concretizzare questo principio. Per cui si discuteva! Perfino oggi, è difficile che queste idee vengano accolte come proposte serie. Quella della camera da letto in più, ad esempio, viene presa come una minaccia al matrimonio! Ma non è così. Imparare a pensare per conto proprio favorisce il benessere della coppia, non lo minaccia.
AP: Con chi discuteva? Con gli insegnanti?
CB: non necessariamente. I professori erano di ampie vedute. Mi ricordo, ad esempio, del prof. Renato Camus (immagino oggi non ci sia più!): sempre orientato verso la modernità, verso nuovi modi di vivere. Ma il modello famigliare era ancora molto tradizionale e gerarchico. La libertà non era sempre considerata uno strumento accettabile.
AP: Uno strumento?
CB: La libertà è uno strumento, in senso allargato. Ad esempio, quando un bambino impara a fare qualcosa da solo, acquisisce al tempo stesso la responsabilità di doverlo fare e la libertà di poterlo fare.
AP: Lei ha avuto e ha tuttora molti collaboratori più giovani. Cos’è cambiato negli architetti, nei 60 anni della sua carriera?
CB: C’è più libertà d’azione, più possibilità di scegliere e più consapevolezza. Questo dipende sia dall’evoluzione generale della società, sia dal fatto che oggi la professione è meglio riconosciuta, è diventata un valore culturale oltre che estetico. Ai miei tempi, l’architetto era visto un po’ come il decoratore, non come quello che rende funzionale uno spazio, e quell’approccio ci toglieva il nostro valore principale, la funzionalità. La funzionalità è un invito a vivere lo spazio in un certo modo, invece che in un altro: nel mio caso, un invito a togliere le dipendenze, a promuovere l’autonomia e la riflessione. Progettare per la funzionalità è progettare per la gioia.
foto Cantina Pieve Vecchia
AP: Lei però non ha progettato solo spazi, ma anche oggetti di design. Un tempo architettura e design non erano due discipline separate, mentre oggi vengono insegnate, al Poli, in due diverse facoltà. Qual è il rapporto che le lega?
CB: È un rapporto molto stretto. Il motivo sottostante un progetto, che sia di un mobile o di un locale, è sempre la funzionalità. La fisionomia dello spazio è legata alla sua funzione d’uso. Lo stesso vale per il design. Gli oggetti devono aiutare a vivere lo spazio, non occuparlo.
AP: Sempre a proposito del rapporto tra le varie discipline di matrice politecnica, le riporto una recente dichiarazione di Renzo Piano: “Negli anni del Poli crebbe in me l’idea che quelli dell’Architetto e dell’ingegnere siano lo stesso mestiere”. È un invito a riflettere sulle cose che ci legano in quanto Alumni Polimi, invece che su quelle che ci dividono. Cosa ne pensa?
CB: [ride] Per certi versi è vero! Cioè, non sono la stessa cosa, ma un progetto non si realizza senza la collaborazione dell’uno e dell’altro. Sono due mestieri molto vicini e devono collaborare. Non sono la stessa cosa perché all’ingegnere manca una cosa: il focus sulle necessità della persona. Insomma, se io devo progettare un appartamento per una famiglia, vado a conoscerla, passo del tempo con loro, cerco di entrare nelle loro dinamiche famigliari.
AP: Qual è l’elemento portante del rapporto tra lei e il suo committente?
CB: La comunicazione e la fiducia, che deve essere reciproca. Non sempre quello che io propongo è quello che il committente si aspetta. Non sempre ci si capisce al volo. Ad esempio, quella storia della camera in più, talvolta, mi ha fatto passare per una “killer dei matrimoni” [ride]. Ma non è così! Io, come architetto, devo saper ascoltare e interpretare loro necessità. Il committente deve imparare a fidarsi. Di solito funziona!
AP: I suoi committenti sanno quello che vogliono, quando vengono da lei?
CB: No! Vogliono il meglio… [ride], e, di solito, vogliono quello che hanno visto. Una volta mi proponevano i divani in stile ottocentesco, tutti sagome e volute, oggi mi propongono cose astratte che non servono a niente. D’altra parte credono che l’architetto porti la novità in quanto tale. Invece, io voglio portare benefici alla vita! Quindi, bisogna ascoltarsi e venirsi incontro. Alla fine, sono tutti sempre molto soddisfatti.
AP: Lei ha dichiarato in un’intervista che un progetto nasce, per dirlo con parole politecniche, da un processo di analisi e sintesi. Me lo spiega meglio?
CB: Il momento di analisi è quello dell’ascolto, in cui, come ho spiegato, imparo a conoscere il committente. Il momento di sintesi è quello creativo, che è altrettanto importante. Noi proponiamo il nuovo, che è frutto della creatività, ma non lo proponiamo in modo indiscriminato: deve avere un posto e una funzione chiara nella vita delle persone.
AP: È una “creatività controllata”?
CB: In un certo senso… ad esempio, se devo fare una sedia non butto lì la prima cosa che mi viene in mente, sarebbe una stupidata. Invece, penso a come ci si siede, a come le diverse forme del corpo umano possono avere il sostegno giusto. La forma del corpo determina la linea interna di un sedile, punto di partenza del progetto. La funzionalità dirige la creatività.
AP: Cos’è per lei l’innovazione?
CB: È ciò che avvicina un progetto al committente, alle sue necessità. Che sono personali. Per evitare di riproporre sempre gli stessi schemi, l’architetto deve essere in grado di personalizzare il progetto. Deve conoscere il committente. E per conoscerlo deve avere un modo facile e diretto di comunicare.
AP: Quindi la comunicazione è un fattore chiave per l’innovazione?
CB: Esatto.
AP: Perché ha scelto la strada dell’architetto?
CB: Ah, questa è una domanda difficile! Non le so rispondere. Forse il momento determinante è stato durante la Resistenza, in montagna, quando conobbi De Finetti. Inizialmente mi diceva che ero una ragazzina, e che l’architetto era un mestiere da uomo. Poi, però, mi portava a fare delle passeggiate, mi faceva vedere delle case, mi chiedeva cosa ne pensassi. E alla fine mi disse che forse ero abbastanza seria per diventare architetto. “Ricordati che è una cosa seria”, mi diceva, “non un gioco”.
Casa nel bosco, 1969 (foto Matteo Piazza)
AP: Mi racconta qualcosa degli anni della Resistenza?
CB: Ah, sì. L’ho fatta in pieno, con molto entusiasmo e molta buona volontà. Ero giovane! Siamo partiti dalle cose più banali, come portare la corrispondenza ai ribelli in montagna. Poi le cose si sono fatte serie. Alla fine abbiamo guidato le truppe partigiane.
AP: Non aveva paura?
CB: No, ero molto appassionata. La mia gioventù è stata determinata dall’anti-fascismo, che per fortuna era vivo nella mia famiglia e nei nostri amici. Ero già politicizzata, in un certo senso, con una sensibilità sul contesto sociale e le sue manifestazioni. Era tutto molto chiaro. L’anti-fascismo ci ha portato alla lotta e la lotta ad essere gli autori della nuova società. Parlo al plurale: non ero da sola, ero circondata dai miei coetanei.
AP: Sapevate cosa dovevate fare?
CB: Sapevamo molto bene che il fascismo andava condannato. Aveva troppi lati contrari al nostro modo di pensare: la propaganda personale, l’autorità, il rapporto autoritario con il lavoratore, eccetera. Sulla negazione di quello che viveva intorno a noi, ci siamo formati e abbiamo cominciato a costruire.
AP: Cos’ha voluto dire essere partigiani?
CB: Era una guerra semplice. Si combatteva sulle montagne, si sparava, si scendeva in città a scambiare documenti e si ritornava su. Ma non era una massa di persone, non era un esercito. Era un modo di essere e di pensare, la nostra natura. E quindi per noi era naturale agire così. A sua volta, la Resistenza ha formato il mio carattere e ha rassicurato i principi trasmessi dalla famiglia.
AP: Quei principi che sono alla base del suo lavoro…
CB: Esatto, l’autonomia, la libertà personale, l’approccio democratico, la responsabilità, il rispetto dell’altro nei rapporti interpersonali… tutti questi valori, che hanno determinato la mia carriera, vengono da lì. Io sono felice della mia professione, ma se dovessi sceglierne un’altra farei l’insegnante, anche alle scuole elementari. Questi sono valori che vanno trasmessi.
AP: Un’ultima domanda e poi la lascio ai suoi ospiti: qual è la lezione più importante che le ha lasciato il Poli?
CB: La serietà. L’architettura è costruire. È disciplina. Quando ero in studio con Gio’ Ponti, lui mi sgridava se trascuravo dettagli come riordinare la scrivania. Mi diceva: “L’architetto non fa questi errori. L’architetto tiene tutto organizzato, in modo che sia ben stabile”.
Tra gli Alumni del Politecnico, circa uno su tre (29%) risulta già assunto alla data della laurea: nell’82% dei casi si tratta di impieghi come lavoratore dipendente (il 94% nel settore privato con il 52% di contratti a tempo indeterminato e 1.549 euro di stipendio medio all’ingresso nel mondo del lavoro). Il 96% è già occupato a un anno dal titolo (98% Ingegneria; 93% Architettura; 88% Design). La percentuale di occupazione sale fino al 99% a cinque anni dalla laurea (99% Ingegneria; 97% Architettura; 97% Design), con il 90% di contratti a tempo indeterminato e stipendio medio di 2062 euro.
Lo certifica l’indagine occupazionale resa nota dal Politecnico di Milano, condotta sui laureati magistrali italiani che hanno conseguito il titolo nel 2015: in totale sono 4.567. Hanno risposto alla survey in 3.490. L’indagine occupazionale 2021 è stata coordinata dal Career Service del Politecnico di Milano, che supporta e prepara gli studenti all’ingresso nel mondo del lavoro, coltivando contatti con le più importanti aziende nazionali e internazionali.
Per quanto riguarda i laureati magistrali stranieri, l’82% di loro risulta occupato a un anno dal titolo, percentuale che sale al 93% dopo cinque anni dalla laurea. Buona la percentuale di occupazione anche per i laureati triennali del Politecnico che decidono di non proseguire il proprio percorso di studi: l’87% di loro è occupato a un anno dal titolo, il 97% dopo cinque anni, con uno stipendio di ingresso medio di 1.393 euro che sale a 1.830 euro a cinque anni dalla laurea triennale.
“Siamo molto felici di constatare che, nonostante i lasciti della pandemia, l’occupazione dei nostri laureati non subisce flessioni, ma anzi mostra un trend positivo. Una crescita che continua ininterrotta per il Politecnico di Milano e che trova conferma anche a distanza di cinque anni dal conseguimento del titolo”, commenta Ferruccio Resta, Rettore del Politecnico di Milano. “È, questa, la dimostrazione di una formazione capace di rivalutarsi nel tempo e apprezzata dal tessuto produttivo. Una ricetta necessaria per la ripresa. Un investimento per il futuro”.
La società Fondazione Milano per Expo (FMpE) ha donato al Politecnico di Milano la somma di 120 mila euro, finalizzata a finanziare 3 assegni di ricerca per giovani ricercatrici.
La donazione si inserisce nel progetto di E4WE/Education for Women Empowerment, nello spirito di quanto seminato durante EXPO 2015 e nella continuità di quello che il Women Pavilion offrirà in occasione del prossimo EXPO. FMpE e Politecnico di Milano hanno deciso di aderire al palinsesto del Padiglione, contribuendo a sostenere l’importanza di una società inclusiva, sempre più indispensabile per i vantaggi che comporta in termini di innovazione, sostenibilità e valore economico. L’iniziativa ha anche l’obiettivo di dare visibilità internazionale a questo tema e creare connessioni in particolare con il mondo arabo e con Dubai che ospiterà l’esposizione.
La donazione sosterrà assegni di ricerca in campi dove gioca un ruolo chiave l’intersezione tra tecnologie, design e scienze della salute: si occuperanno dell’impatto dei Big Data sulla ricerca biomedica, dei modelli di misurazione e Intelligenza Artificiale al servizio della salute e del contributo di scienza e tecnologia relativamente alla responsabilità sociale degli ambienti terapeutici. Un altro ambito che interesserà il bando per l’assegnazione di questi fondi è quello della sostenibilità nella filiera agroalimentare.
Sono campi di ricerca di grande attualità e con un importante impatto sociale, temi sui quali il Politecnico sta investendo molto, facendo da apripista in Italia per nuove professioni dell’ingegneria e del design, che diventeranno sempre più rilevanti nei prossimi anni.
Credits: Alexis Brown on Unsplash
Questa iniziativa si inserisce nel piano strategico del Politecnico di Milano, che porta avanti diverse azioni volte al coinvolgimento di giovani ricercatrici, come delineato nel Bilancio di Genere: un documento che scatta una fotografia d’insieme del nostro Ateneo, mostrando un’analisi aggiornata dei principali dati relativi alla componente studentesca, al corpo docente e al personale tecnico-amministrativo.
Relativamente all’equilibrio di genere, il Politecnico è in linea con quanto accade a livello italiano ed europeo nelle università tecnico-scientifiche:un terzo del personale docente e di ricerca all’interno dell’Ateneo (29%) è rappresentato da donne.
La stessa percentuale si riscontra tra le studentesse; alcuni settori scientifici però subiscono un maggiore squilibrio, ed è per questo che l’Ateneo ha pianificato azioni mirate a colmarlo, che vanno nella direzione di un impegno specifico nel reclutamento di studentesse e ricercatrici. Si inserisce in questo quadro l’istituzione di borse di studio e di ricerca dedicate a studentesse e PhD nelle materie STEM (info per donare a questo link).
Nel libro “ALUMNAE, Ingegnere e tecnologie” abbiamo raccolto le storie di 67 ingegnere della nostra community. L’obiettivo? Raccontare un insieme di esempi positivi per le ragazze “STEM” di oggi e di domani. Leggi di più.
L’Alumna Annaluigia Meroni, 96 anni, nasce nel 1925 e si laurea in Ingegneria Civile nel 1953. La sua storia passa per la Seconda guerra mondiale, l’agognato diploma e la laurea al Poli, che frequenta subito dopo la guerra. Poi la professione di ingegnere, tra uffici brevetti, Siemens, Pirelli, Italia e Stati Uniti, occupandosi anche delle prime organizzazioni femminili, di pozzi petroliferi di recupero e di fissione dell’atomo.
Una carriera in un mondo prevalentemente maschile, dove la domanda “chiamarla ingegnere o signora?” è solo – per la nostra Alumna – un “ridicolo dettaglio legato ai tempi”, da scrollarsi di dosso con leggerezza, e dove non mancano donne intraprendenti e professioniste della tecnologia.
Ci siamo fatti raccontare la sua storia, oggi che le cose sono cambiate molto, ma c’è ancora tanta strada da fare per raggiungere una società inclusiva.
“Nel febbraio del 1942,
spinta dall’incalzare delle incursioni e dei bombardamenti, lasciai Milano per rifugiarmi in un paesello alle sorgenti della Livenza. Non sapevo cosa avrei fatto l’indomani: si viveva alla giornata. Nelle scuole, le sole informazioni disponibili riguardavano la politica in voga al momento, propaganda sull’andamento della guerra come ce la volevano raccontare.
Avevo ben chiaro che la pittura e le materie scientifiche erano le mie preferite e avrei voluto completare almeno il liceo scientifico. Perciò mi procurai e portai con me tutti i libri che mi sarebbero occorsi per farlo privatamente.
Ebbi anche la fortuna di conoscere e frequentare una vecchia signora anglo americana, rifugiata insieme a me per sfuggire alle leggi razziali, che mi consentì di perfezionare la mia lingua inglese, al punto da poterla usare quasi come una seconda lingua.
Tuttavia, il tempo passava come un tempo sospeso, non si capiva se tutto quello che stava accadendo potesse avere un fine. Nel 1943 i tedeschi presero possesso di tutta l’Italia settentrionale. Per noi giovani non era vita, ma solo attesa, e di che? Eravamo isolati: i ragazzi per lo più erano a militare oppure in montagna. Ancora nessuna informazione, se non Radio Londra, che abbracciavamo quasi, la sera, nella camera più sotto la montagna e più lontana dalla strada per non essere scoperti dalle ronde tedesche.
È in questo clima che raggiunsi, nel ’44, il sospirato esame di maturità, che superai. Quasi svegliandomi da un sonno, compresi allora che esisteva vita al di là di quell’esame e degli eventi e che avrei dovuto scegliere per il domani. Mio padre, artigiano edile, doveva spesso ricorrere, per i suoi lavori, alla consulenza di ingegneri. Fu per me un’ispirazione e, essendo io sempre stata persona abbastanza concreta, scelsi Ingegneria Civile sottosezione Edile. Il mio papà, che era rimasto a Milano, mi iscrisse al Poli, ma io non potei naturalmente frequentare fino al mio rientro, a guerra terminata.
Alla fine della guerra purtroppo persi il padre e fui posta di fronte all’interrogativo se smettere o continuare con gli studi di ingegneria. Siccome sono dotata di una certa tenacia decisi di cercare lavoro e continuare, ben sapendo che così avrei allungato i tempi. Una mia cugina ufficiale dell’armata americana, grazie al mio inglese, mi offrì un posto di organizzatrice viaggi per gli americani ospitati all’Hotel du Nord.
Purtroppo, l’orario non mi permetteva di arrivare in tempo alla lezione di Analisi Matematica che mi pare iniziasse alle 2 e che non volevo perdermi. Comunque, altri studenti arrivavano in ritardo e si infilavano silenziosamente in classe, così mi accinsi a farlo io. Subii così la prima prova di discriminazione: al mio ingresso, i ragazzi posti nell’anfiteatro rumoreggiavano fortemente, disturbando il professore che, dopo un paio di volte, mi cacciò. Lasciai allora quel lavoro per poter seguire la lezione, ma ne trovai altri come traduttrice, soprattutto per l’Agip mineraria e l’Eni. Fra rinunce e sacrifici, studio e lavoro arrivai alla laurea, nel 1953.
Trovai subito un lavoro presso la cattedra di Costruzioni Automobilistiche del prof. Fessia (l’inventore della macchina 500 Fiat) ma, essendo ancora vivo il mio desiderio di fare l’ingegner civile, chiesi ed ottenni di lavorare gratis et amore Dei presso lo studio dell’ing. Cesa Bianchi (ideatore del primo grattacielo di Milano).
Fui assegnata a collaborare con un ingegnere più anziano al calcolo di una scala di un edificio in costruzione a Milano in via Circo 6. Il lavoro mi risultò abbastanza noioso e non certo rispondente ai miei desiderata, per cui accettai con entusiasmo l’offerta dell’Ufficio Brevetti Ingg. Racheli e Bossi. Le due titolari, Adele Racheli e Rosita Bossi, erano due ingegnere, anche loro Alumnae del Politecnico: Racheli laureata in ingegneria meccanica nel 1920 e Bossi in Elettrotecnica nel 1924 (a queste due se ne aggiungeva una terza, ing. Lazzeri, che nel periodo di guerra per sfuggire alle persecuzioni razziali aveva fatto la cuoca in Svizzera).
Il lavoro di agente brevetti mi piacque subito, si era a contatto con le innovazioni, inoltre mi erano utili le lingue che allora conoscevo: francese e inglese e cominciai a studiare tedesco. Fu qui che venni invitata negli USA dal Department of Labour Woman’s Bureau per un periodo di formazione e addestramento in cui mi occupai di organizzazioni femminili, pozzi petroliferi di recupero e fissione dell’atomo.
Tornata in Italia sentii subito il bisogno di migliorare la mia posizione economica e quindi accettai l’offerta della Siemens di occuparmi della Biblioteca, dei brevetti di un loro dirigente estesi in tutto il mondo e relativi alla fissione del Samario 144, nonché, nel frattempo, di avviare la creazione di un ufficio brevetti che al momento la ditta non aveva. Mi fu anche consentito di mantenere la mia attività di consulente nel campo Brevetti, Modelli e Marchi del Tribunale di Milano che già svolgevo da qualche anno.
Il lavoro era decisamente interessante e dinamico e mi permetteva di viaggiare molto. Il rapporto con i colleghi a livello orizzontale ottimo. In direzione verticale, diciamo, non si era ancora pronti a donne ingegnere. A livello direttivo si erano consultati perché non mi si chiamasse ingegnere ma signorina e ricordo che uno dei tanti direttori che si sono succeduti, avendo io chiesto un aumento di stipendio, mi disse chiaramente che me lo avrebbe dato se fossi stato un maschio.
Lasciai la Siemens nel giugno del ’64 per seguire mio marito in Spagna dove mi arricchii di un’ulteriore lingua. Tornata in Italia nel 1967, accettai l’offerta della Pirelli di occuparmi della sezione Cavi del loro Ufficio Brevetti.
Anche in Pirelli mi si appellava semplicemente come signora, essendosi deciso in una riunione di dirigenti avutasi prima del mio arrivo, quando per la sezione meccanica (mi pare) si era assunta un’altra donna ingegnere di 5 anni più anziana di me. Si appellava però con “Dottoressa” una chimica preposta alla sezione Gomma, evidente incongruenza perché anche le ingegnere sono dottor Ingegner.
A parte il suddetto ridicolo dettaglio legato ai tempi, il lavoro in Pirelli era interessante: a quei tempi si stavano inventando le fibre ottiche. I rapporti con i colleghi-clienti (chiamiamoli così) dell’Ufficio Brevetti erano ottimi, tanto che vi rimasi anche su insistenza della ditta fino a 60 anni, ben oltre la pensione, che allora per le donne era a 55 anni. Lasciai la Pirelli nel 1985 con la speranza di dedicarmi almeno per un po’ ad uno dei miei amori giovanili: la pittura.
Annaluigia Meroni, Alumna Ing. Civile 1953
Nel libro “ALUMNAE, Ingegnere e tecnologie” abbiamo raccolto le storie di 67 ingegnere della nostra community. L’obiettivo? Raccontare un insieme di esempi positivi per le ragazze “STEM” di oggi e di domani. Questo libro è una delle tante iniziative creata da Alumni Politecnico di Milano. Se ti piacciono le nostre attività, puoi donare per sostenerle.
NTT Data ha annunciato la nomina di Walter Ruffinoni come CEO Everis Italia. Ruffinoni, Alumnus politecnico (laureato in ingegneria elettronica nel 1990), rimane anche in carica anche come CEO NTT DATA EMEA e Italia.
Questa nomina ha l’obiettivo di rafforzare la presenza del gruppo sul mercato italiano e consolidare le partnership in Italia. “Sono orgoglioso ed entusiasta di iniziare questa nuova sfida come ceo di everis Italia in un momento cruciale per la società” – commenta Ruffinoni.
Credits: ansa.it
L’ingegnere elettronico, durante la sua carica in NTT Data Italia, è riuscito a raddoppiarne il fatturato e il numero dei dipendenti, continuando a crescere e ad assumere talenti nonostante la pandemia.
Milano omaggia l’inventore dell’Amuchina, l’Alumnus Oronzio De Nora, intitolandogli una via nel quartiere Ortica, dove ha sede l’omonima azienda che ha contribuito al progetto con una donazione.
Oronzio De Nora, Alumnus in Ingegneria elettrotecnica, brevettò il famoso liquido igienizzante nel 1923 in Germania, creando il potente antibatterico che oggi conosciamo come Amuchina. L’ingegnere vendette poi il brevetto e, nel 1924, fondò l’azienda che porta il suo nome.
Ancora oggi le industrie De Nora sono attive anche in campo internazionale come punto di riferimento per le tecnologie sostenibili, il risparmio energetico e il trattamento delle acque.
Credits: De Nora on Linkedin
Via De Nora si inserisce nel piano di riqualificazione del quartiere Ortica che prevede, per questa via, la totale pedonalizzazione, l’installazione di panchine, piante in vaso, tavoli da ping pong e la creazione di murales lungo il perimetro dell’azienda De Nora che ritraggono i volti di persone che si sono distinte per il loro importante contributo scientifico, tra cui anche l’ingegner De Nora.
Credits: De Nora on Linkedin
«Si tratta di un intervento integrato di pedonalizzazione, urbanismo tattico, arte pubblica e toponomastica», ha commentato l’assessore alla partecipazione, cittadinanza attiva e open data Lorenzo Lipparini, «coronato da un patto di collaborazione che tiene insieme realtà di cittadinanza attiva, impresa e amministrazione comunale con il comune obiettivo di ripensare e riqualificare lo spazio pubblico».
Credits header e home: imbruttito.com
Credits header e home: https://bari.repubblica.it/cronaca/2020/02/27/news/amuchina_inventore_altamura_de_nora-249732543/
Il 23 ottobre 2021, al Motor Speedway si svolgerà la finale dell’Indy Autonomous Challenge: la prima gara automobilistica di veicoli a guida autonoma. Tra i team in gara c’è il PoliMove Racing Team, guidato da Sergio Savaresi, Docente di Controllo dei Veicoli del Dipartimento di Elettronica, Informazione e Bioingegneria del Politecnico di Milano e Alumnus in Ingegneria Elettronica.
Da mesi, il team composto da laureandi e dottorandi è al lavoro sul software di controllo e sull’algoritmo che servirà a pilotare un’automobile a 300 km all’ora. Lo scorso 30 giugno, la prima decisiva vittoria ha avvicinato il Politecnico al traguardo finale di ottobre e che è fruttato, per il momento, il primo premio di 100 mila dollari (a questo link il video che racconta le qualificazioni).
“La gara di qualificazione si è svolta in ambiente di simulazione, su cui abbiamo avuto modo di fare parecchi test nei mesi scorsi”, commenta Savaresi. “Dal punto di vista della gara automobilistica, non siamo stati particolarmente divertenti: nelle qualifiche abbiamo fatto il tempo migliore in assoluto e siamo partiti per primi, in pole position. Siamo stati primi durante tutta la gara e siamo arrivati primi. Nessuno ci ha mai superato nonostante numerosi tentativi di sorpasso da parte di altre macchine che il nostro “pilota AI” è sempre riuscito a contrastare. Abbiamo stravinto!”.
Durante questa gara in simulazione hanno partecipato 16 team dalle università più prestigiose del mondo, ma, tra macchine uscite fuori pista, collisioni tra contendenti e urti contro le strutture, hanno tagliato il traguardo solo in 4: Politecnico in testa, al secondo e terzo posto Università di Monaco e Università del Texas, al quarto MIT.
La nostra squadra ha consegnato agli organizzatori il pilota virtuale un mese prima della gara. “Si tratta di un vero e proprio sostituto del pilota umano, un software di intelligenza artificiale. Lo abbiamo sviluppato con diversi strati di intelligenza tattica e strategica: durante la gara era pronto a valutare se le cose si mettevano male, cambiare tattica e scegliere di correre qualche rischio in più. Poi, per fortuna, non è servito”, continua Savaresi, che ha spiegato nel dettaglio la natura di questo pilota virtuale nel numero 9 di MAP (da pagina 28).
La gara del 23 ottobre vedrà in pista complessivamente 10 team universitari. Il primo premio sarà di 1 milione di dollari. Questa volta i piloti virtuali correranno in pista, a bordo di una macchina vera e propria, lo stesso modello per tutti: una Dallara IL-15 (ribattezzata AV-21) modificata con sensori adatti alla guida autonoma.
“C’è un po’ di tensione. In simulazione si possono verificare un sacco di crash, ma non si fa male nessuno e non si rischia di buttare via quasi mezzo milione di dollari a causa di un errore”. La macchina, infatti, costa circa 300 mila euro, oltre alle spese di viaggio e di ricerca necessarie a portare a termine la gara (scopri qui come sostenere economicamente il PoliMove Racing Team con una donazione).
Proprio in questi giorni i primi membri del team stanno partendo per Indianapolis e gli altri li raggiungeranno a settembre. Pronti per la finale, conclude Savaresi: “Come gruppo di lavoro del Politecnico, lavoriamo in quest’ambito ormai da vent’anni, abbiamo quindi alle spalle tantissimo know-how e siamo sicuramente fra i team che potenzialmente sono un po’ più avanti rispetto agli altri. Dal punto di vista delle competenze siamo fortissimi. Ma ieri, durante la gara in simulazione, eravamo molto in ansia: come in ogni gara singola, l’imprevisto è dietro l’angolo, ti tocchi dentro con qualcuno, c’è un malfunzionamento meccanico, e si perde. Di sicuro siamo tra i top team e speriamo di avere un pizzico di fortuna anche a ottobre”.
Supportando PoliMove puoi aiutare il progetto a raggiungere nuovi ambiziosi traguardi. Dona ora
Ottime notizie per TMek, il rivoluzionario test rapido per la diagnosi della malaria sviluppato dal Politecnico di Milano nel laboratorio PoliFab (ne abbiamo parlato nel MAP#7): un recente studio pubblicato dalla rivista “Advanced Science”ha confermato il suo potenziale dopo la sperimentazione avvenuta in Camerun su 75 pazienti con sospetto clinico di malaria.
La diagnosi precoce è di fondamentale importanza per garantire più ampie probabilità di sopravvivenza alle persone affette dalla malaria: per questo l’Organizzazione Mondiale della Sanità continua a sollecitare lo sviluppo di nuovi test diagnostici rapidi impiegabili in zona endemica.
TMek riesce a diagnosticare la malaria in tempi rapidi perché si avvale di un meccanismo fisico lab-on-chip, che utilizza campi magnetici e microchip per rendere possibile la quantificazione dei globuli rossi infetti. Attraverso dei microchip “usa e getta” a basso costo dotati di micro-magneti, il sistema attrae i globuli rossi infetti e li conta in modo da quantificare la parassitemia, ovvero la percentuale dei globuli infetti rispetto ai sani. In questo modo è possibile fornire una soluzione rapida ed economica per la diagnosi della malaria, compatibile con l’utilizzo in aree tropicali in assenza di personale specializzato.
Dopo le prime sperimentazioni nel 2019 che hanno dimostrato come TMek riesca, in soli 10 minuti, a fornire un risultato quantitativo con un limite di sensitività di 10 parassiti per microL di sangue, è arrivato il nuovo studio di validazione che ha confermato il suo potenziale come test rapido quantitativo e selettivo per la diagnosi precoce della malaria.
Credits Seth Doyle on Unsplash
UN PROGETTO DI RICERCA A FINALITÀ SOCIALE
TMek nasce dal team di ricerca interdisciplinare guidato dai professori Giorgio Ferrari (Elettronica), Beniamino Fiore (Bioingegneria) e Roberto Bertacco (Fisica) come progetto finanziato da Polisocial Award, il programma di responsabilità sociale del Politecnico di Milano. Per garantire un utilizzo etico di eventuali proventi derivanti dallo sfruttamento della proprietà intellettuale, l’iniziativa è protetta con brevetti “sociali” e gli inventori hanno rinunciato ai loro diritti proprio in favore del finanziamento di progetti di ricerca con finalità sociale.
Il progetto è stato realizzato anche grazie al sostegno delle Alumnae e degli Alumni che hanno donato e continuano a donare per garantire uno sviluppo etico di TMek e creare uno strumento diagnostico unico nella lotta contro la malaria. Dona anche tu.
Questo sito utilizza i cookies per le statistiche e per agevolare la navigazione nelle pagine del sito e delle applicazioni web.
Maggiori informazioni sono disponibili alla pagina dell’ informativa sulla Privacy policyOk