La squadra maschile di inseguimento su pista formata dai ciclisti Filippo Ganna, Simone Consonni, Francesco Lamon e Jonathan Milan ha vinto la medaglia d’oro e stabilito un nuovo record del mondo (3:42.032) in una gara all’ultimo secondo. l’Italia ha vinto con una rimonta mozzafiato di oltre mezzo secondo di svantaggio, come racconta Il Post, “tirata” da Ganna e strappando l’oro ai campioni in carica della squadra danese.
Record del mondo e 30° medaglia conquistata per l’Italia durante queste Olimpiadi: un’“impresa epica per un titolo olimpico nell’inseguimento che mancava da più di 60 anni”, riporta la Gazzetta, che continua sottolineando i progressi “impetuosi” fatti da questo gruppo negli ultimi anni.
Francesco Lamon nella Galleria del Vento del Politecnico di Milano
UN SUCCESSO ITALIANO E POLITECNICO
L’impresa del C.T. Marco Villa e della squadra italiana passa anche per il Politecnico di Milano, in particolare passa dalla Galleria del Vento, il grande laboratorio di ricerca di cui vi abbiamo raccontato su MAP 6 a pagina 40. “Per preparare al meglio le Olimpiadi di Tokyo, i quartetti dell’inseguimento su pista maschile e femminile sono venuti in Galleria del Vento per ottimizzare le prestazioni dal punto di vista aerodinamico, verificando i materiali e la posizione in sella. Le prove sono state fatte in stretta collaborazione con i commissari tecnici FCI e l’istituto di scienza dello sport del CONI”, commenta il prof. Marco Belloli, docente del Dipartimento di Meccanica che nel video qui sotto racconta il “behind the scene” di uno dei laboratori di ricerca più straordinari al mondo, la Galleria del Vento del Politecnico di Milano, di cui è direttore scientifico.
Le prestazioni aerodinamiche sono determinanti negli sport che sono caratterizzati da alte velocità perché permettono di guadagnare secondi preziosi. Nel corso degli anni, oltre all’Italia Olimpica dell’inseguimento su pista, alla nostra Galleria del Vento hanno provato campioni come Elia Viviani, Oro Olimpico a Rio, Alex Zanardi con la sua handbike, la campionessa slovena di sci Tina Maze, il campione olimpico di slittino Armin Zoeggeler e Luna Rossa.
Come racconta focus.it in questo video, all’interno del LaST i ricercatori studiano come ridurre il rischio di lesioni per gli occupanti di un mezzo di trasporto, dalle automobili ai treni e persino agli elicotteri.
Le attività del laboratorio si occupano di sicurezza passiva e attiva. Il Poli è uno dei pionieri del campo fin dagli anni ‘60 e la storia di LaST inizia proprio in quegli anni, come il primo laboratorio di crash test a livello accademico in Italia.
I ricercatori e gli studenti che gravitano intorno a LaST si occupano di valutare il comportamento delle strutture durante un impatto, dal singolo componente a veicoli o velivoli in scala reale, di modellazione di eventi catastrofici e del comportamento del corpo umano. Per esempio, si fanno prove di assorbimento di energia su oggetti accelerati e poi distrutti dinamicamente per valutarne il comportamento durante l’urto; prove in decelerazione per le componenti che non sono coinvolte direttamente nell’impatto ma che ne ricevono gli effetti, come i sedili delle auto; o anche prove di bird impact, rischio sempre più grave vista la crescita del traffico aereo.
Questo tipo di attività di ricerca al Politecnico di Milano si avvale anche della collaborazione di moltissime imprese nel settore dei trasporti, per progetti condivisi che vanno dalla progettazione alla certificazione di prodotti che poi entrano in circolazione sulle nostre strade e nei nostri cieli.
Alumnus in disegno industriale a indirizzo multimediale, Mario Taddei è uno dei primi designer al mondo ad aver preso la strada della realtà virtuale. “Nel 1998 feci la tesi su uno dei primi caschi virtuali: volevo ricostruire il Castello Sforzesco così com’era al tempo di Leonardo da Vinci, ma era ancora fantascienza, la tecnologia non era pronta. I caschi facevano venire il mal di testa e la risoluzione delle immagini era ancora deludente rispetto alle aspettative delle persone”.
Vent’anni dopo, la tecnologia ha recuperato terreno e Taddei è di nuovo uno dei primi designer al mondo a realizzare una postazione per la realtà virtuale in un museo: si trova in piazza della Scala a Milano, al museo di Leonardo 3, di cui Taddei è stato curatore e co-founder.
“Adesso i caschi sono leggeri e user-friendly. Possiamo vedere le cose in risoluzione molto alta, in fotorealismo e possiamo quindi davvero realizzare i musei virtuali in esperienza immersiva. Nelle mostre che realizza, per la prima volta, è possibile per esempio visitare la scena dell’Ultima Cena ricostruita così come doveva essere al tempo di Leonardo da Vinci: il visitatore mette il casco e improvvisamente si ritrova nel 1500, nel refettorio di Santa Maria delle Grazie, può muoversi al suo interno e osservarne le parti che oggi non esistono più, come il soffitto e le pareti laterali che Leonardo aveva dipinto”.
“La Città Proibita, lo dice il nome stesso, è un luogo visitabile solo dall’esterno: gli interni sono chiusi ai turisti. La realtà virtuale permetterà di entrarci, ammirare l’architettura cinese antisismica dell’anno 1000 e i suoi meravigliosi incastri; non solo, con il manipolatore VR, si potranno toccare e maneggiare manufatti che oggi sono assolutamente inaccessibili. Per la prima volta, il visitatore li può prendere in mano, ruotare, portarseli davanti agli occhi, persino romperli, se vuole. L’unica cosa che batte la realtà virtuale è andarci di persona, e neanche sempre: in VR puoi interagire con l’artefatto in modi che dal vivo non sarebbero possibili”.
NUOVE PROFESSIONI PER MONDI VIRTUALI
Quello dei musei virtuali, e della realtà virtuale in generale, è un mondo in espansione e apre la strada a molte professioni completamente nuove: designer, programmatori, architetti, scenografi specializzati in VR, esperti di modellazione.
Il lavoro che sta dietro a questa tecnologia è estremamente complesso e i dispositivi non sono semplici da usare, per un utente poco esperto: ci vogliono tecnici specializzati che personalizzino ogni utilizzo. “Per ora si vede solo in qualche museo. Ma non è lontano il giorno in cui chiunque possieda un visore potrà comprare su uno store online una visita virtuale alla Città Proibita, al Louvre, agli Uffizi, alla Stazione Spaziale Internazionale, senza coda e con la possibilità di fare esperienze inimmaginabili dal vivo. Siamo molto vicini, questione di al massimo un paio d’anni”.
L’arte virtuale è il campo di studi d’elezione di Taddei, che ha pubblicato in proposito il saggio “Leonardo da Vinci è morto!”, appena uscito su Amazon. Parla di arte digitale e NFT, un quadro divulgativo su questa tecnologia dalle potenzialità disruptive nel mondo dell’arte digitale.
Book – LEONARDO DA VINCI È MORTO – Come fare soldi con gli NFT e arte digitale COVER e retroBook – LEONARDO DA VINCI È MORTO – Come fare soldi con gli NFT e arte digitale Credits: Mario Taddei
“Le stesse problematiche che affrontavano sia Michelangelo che Leonardo sul concetto (assurdo e a volte paradossale) di copyright sono ancora più attuali nel mondo digitale. Il libro vuole far riflettere sul fatto che gli artisti del passato sono morti e sono a quelli contemporanei che un investitore dovrebbe guardare; e, proprio come i nostri antichi maestri utilizzavano il massimo della tecnologia a loro disposizione, anche gli artisti di oggi fanno lo stesso”.
IL CUCCHIAIO NON ESISTE… MA A NOI SERVE LO STESSO!
Taddei sarà uno dei primi a esplorare il nuovo mestiere di curatore d’arte virtuale: “I miei studi politecnici mi tornano utili ancora una volta, in particolare quelli di usability, ergonomia e propriocezione. Non posso mandare un utente qualsiasi in un ambiente a cui non è abituato. Facendo l’esempio del museo virtuale, come ti muovi tra le varie stanze? Cammini o ti teletrasporti schiacciando un pulsante? Di per sé, l’ambiente virtuale non ha bisogno di regole fisse: non servono pavimenti, luce naturale, la fisica può essere ingannata. Ma il nostro corpo, invece, ne ha bisogno, altrimenti sta male, prova nausea, vertigini, persino panico. Tutto è possibile, ma non tutto è tollerato dal sistema nervoso. Per rendere la realtà virtuale usufruibile da tutti, bisogna applicare le regole del mondo fisico a cui siamo abituati. Vale anche per la possibilità di fare viaggi, esperienze, lezioni virtuali a distanza indistinguibili dall’esperienza reale”.
Taddei è anche un artista digitale: “L’opera a cui sono più affezionato ha un carattere digitale tutto suo. Non è come le altre… vive da 16 anni!”. Sponge, creata nel 2004, è una forma dinamica digitale le cui strutture geometriche si modificano su tre piani di simmetria.
“La sua forma originale risiede in una quarta dimensione (temporale) e si manifesta proprio come farebbe un oggetto tetradimensionale nel nostro spazio 3D, assumendo cioè diverse forme nel momento in cui attraversa i suoi piani di simmetria”.
Vive, insomma, nelle intenzioni dell’artista, all’interno di un software. “Ci sono affezionato perché si potrebbe considerare la più antica forma d’arte digitale vivente ad oggi, vive in un pc da 16 anni. Anche se ogni tanto salta la corrente, lei ritorna in vita da dove la avevo lasciata. Nel 2006 è stata pubblicata su diverse riviste d’arte e nel 2013 è stata esposta in diverse gallerie d’Italia sia in forma digitale sia reale, attraverso la stampa 3D. Nel 2021 è diventata un NFT ed è entrata nel museo Virtuale Neoart3”.
Le sue opere sono esposte in tutto il mondo: per esempio il museo d’arte contemporanea Yellow Box Art a Quingdao, in Cina, gli ha dedicato un’intera sezione: “Non ci sono mai stato fisicamente e questa è anche una delle tante rivoluzioni che il digitale ci insegna. Ho trasferito le mie opere digitali, immagini, modelli 3d e video via internet. Il museo le ha stampate e sistemate in un allestimento che ho curato stando comodamente seduto nel mio laboratorio in Neoart3, dall’altra parte del globo”.
“Oggi lavoro come architetto curatore di mostre e musei virtuali e collaboro con uno dei grandi galleristi di Milano, Deodato, con il quale stiamo preparando in anteprima mondiale una mostra virtuale che presenteremo ad ottobre e che collegherà arte e tecnica, passato e presente con la tecnologia odierna della realtà virtuale”.
Ricerca e tecnologia a supporto della competitività delle imprese, questo il focus dell’accordo siglato da Politecnico e Regione Lombardia, che punta sullo sviluppo di ricerca, innovazione e trasferimento tecnologico nell’ambito del programma di interventi per la ripresa economica. L’accordo svilupperà tre macro-obiettivi con investimenti sulla ricerca di frontiera e sullo sviluppo di infrastrutture all’avanguardia. Vediamoli.
UNA RETE DI COMUNICAZIONE VELOCE E CRIPTATA A MILANO
Il progetto POLIQI – POLItecnico Quantum Infrastructure, a partire dalle fibre ottiche di telecomunicazioni standard già installate nel territorio, intende realizzare una rete di comunicazione quantistica ancora più veloce e in grado di trasmettere dati con livelli di sicurezza inviolabili, con possibili applicazioni in ambito finanziario, amministrativo, sanitario e di intelligence. La ricerca servirà anche a sperimentare nuove soluzioni di cifratura grazie a chiavi quantistiche intrinsecamente sicure.
L’accordo prevede inoltre un focus sulla “manifattura avanzata” su due fronti, life sciences e green deal.
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BIOSTAMPA 3D PER LA MEDICINA
Il Politecnico si doterà di una delle prime installazioni su scala mondiale di un sistema di biostampa 3D multifotone per tessuti vascolarizzati, primo passo verso la stampa di tessuti organici per la ricerca in medicina e farmacologia. Negli ultimi anni l’Ateneo sta portando avanti diversi progetti a supporto delle Scienze della Vita (ne abbiamo parlato in diverse occasioni su MAP), impegno che si è tradotto anche nella creazione di un nuovo corso di Laurea Magistrale (Medtech, in collaborazione con Humanitas) volto a formare la nuova figura professionale del medico-ingegnere (info qui, a pag. 22).
Credits: Regione Lombardia
NANOMATERIALI E IDROGENO PER LA TRANSIZIONE ENERGETICA
La collaborazione punta inoltre a potenziare le infrastrutture di ricerca per lo sviluppo di materiali innovativi e sostenibili al servizio del comparto manifatturiero anche in ottica di soluzioni innovative per l’energy storage e la transizione energetica: al centro degli studi ci saranno la prototipazione e il testing di innovativi dispositivi elettrochimici per la conversione e l’accumulo di energia, in particolare batterie e celle a combustibile ad idrogeno. Per la progettazione dei nanomateriali che saranno utilizzati, il Politecnico si doterà di uno dei laboratori ai raggi X tra i più attrezzati di Europa.
UN LINK TRA RICERCA E MONDO PRODUTTIVO
L’intesa prevede uno stanziamento complessivo 4.163.400 euro, di cui 1.687.500 euro saranno finanziati da Regione Lombardia, il resto dal Politecnico di Milano. “Vogliamo sostenere i nostri atenei e promuovere le loro esigenze al fine di garantire una sempre maggiore competitività del territorio, anche attraverso la sperimentazione di nuove tecnologie”, commenta l’assessore all’Istruzione, Ricerca, Università, Innovazione e Semplificazione Fabrizio Sala. “Questi investimenti – ha aggiunto Sala – sono infatti mirati allo sviluppo di soluzioni che abbiano una ricaduta concreta e che leghino sempre di più il mondo universitario con quello produttivo”.
Secondo il rettore del Politecnico di Milano Ferruccio Resta, “La ricerca avanzata come motore dello sviluppo del territorio lombardo: grazie all’accordo con Regione Lombardia, frutto di un’interazione costante tra istituzioni, dotiamo Milano e il suo indotto di infrastrutture competitive. Un vantaggio non solo per l’università, grande laboratorio di idee e di sperimentazione, ma per il tessuto socio-economico”.
Il Politecnico di Milano, con la collaborazione della Fondazione Politecnico di Milano e dell’IRCCS Ospedale San Raffaele, ha dato vita ad ARTERY (Autonomous Robotics for Transcatheter dEliveRy sYstems), un progetto H2020 finanziato dalla Commissione europea che si occupa di ricerca nel campo delle malattie cardiache strutturali.
L’obiettivo di ARTERY è creare una piattaforma robotica che sfrutti l’intelligenza artificiale e la realtà aumentata per implementare il trattamento non invasivo delle malattie delle valvole del cuore.
COME FUNZIONA ARTERY?
Il progetto ARTERY mira a sviluppare nuovi sistemi di guida e monitoraggio e sistemi capaci di formare e supportare gli operatori, rendendo gli interventi più sicuri ed efficaci per il paziente ed eliminando l’uso dei raggi X.
I medici in training riusciranno, grazie all’utilizzo della realtà virtuale, a sperimentare gli interventi cardiovascolari in simulazione, riducendo così notevolmente lo stress e migliorando l’approccio agli interventi. In questo modo il medico non impara direttamente sul paziente ma sul simulatore, in sicurezza e azzerando i rischi.
Credits: tecnicaospedaliera.it
ARTERY prevede la creazione di una piattaforma robotica che semplificherà le procedure percutanee (ovvero le procedure in cui le strutture malate sono riparate o sostituite impiantando uno o più dispositivi nel cuore tramite un catetere inserito da un piccolo accesso periferico) e che eliminerà l’uso dei raggi-X intra-operatori; il sistema sarà inoltre semi-autonomo e le decisioni, che saranno guidate dall’intelligenza artificiale, verranno sempre condivise e concordate con l’operatore umano.
“Il progetto Artery introdurrà due grandi innovazioni che avranno un importante impatto sulle operazioni cardiache: – afferma Emiliano Votta, Alumnus e professore associato del Politecnico di Milano – il telecontrollo dei robot attraverso l’intelligenza artificiale e la realtà aumentata, e quindi la possibilità di gestire operazioni complesse in modo intuitivo e potenzialmente da remoto, e l’uso di cateteri sensorizzati, che permetteranno più controllo e precisione nei movimenti del catetere dentro il corpo del paziente. Queste innovazioni renderanno gli interventi percutanei sul cuore più semplici da imparare e da eseguire, e più sicuri per pazienti e operatori.”
Per raggiungere questo ambizioso obiettivo, il Politecnico di Milano unisce le proprie competenze con quelle dell’IRCCS Ospedale San Raffaele, che fornisce la guida clinica nello sviluppo, della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, che si occupa della sensorizzazione del sistema, dell’università Cattolica di Leuven, che si occupa dell’attuazione robotica dei cateteri e di tre aziende che contribuiranno alla traslabilità della ricerca: FBGS, esperta di sensori a fibre ottica, Artiness, esperta di realtà aumentata applicata al mondo medicale, e Swissvortex, esperta di tecnologie transcatetere.
L’analisi delle università, suddivisa tra atenei statali, non statali e politecnici e a seconda delle dimensioni, prende in esame diversi parametri, tra i quali anche le strutture dei campus, i servizi erogati, il numero di borse di studio in favore degli studenti, il livello di internazionalizzazione, la comunicazione, i servizi digitali e l’occupabilità a un anno dal titolo.
Censis nel suo report dichiara che le iscrizioni all’università in Italia sono aumentate del 4,4% nel 2020, smentendo le previsioni che ipotizzavano un calo delle immatricolazioni dovuto alla pandemia.
Anche al Politecnico di Milano si conferma questo andamento positivo: gli immatricolati nell’anno accademico 2021/2022 sono stati 15.413 (5.442 donne; 9.971 uomini), contro i 12.811 dell’anno precedente (4.497 donne; 8.314 uomini). Questo dimostra la tenuta del Politecnico di Milano che, di fronte all’emergenza pandemica, ha consolidato e potenziato prassi già in atto per garantire, nonostante il distanziamento sociale, l’accesso alle attività formative online e offline durante gli ultimi 18 mesi.
Regina De Albertis, Alumna in Ingegneria Edile, è stata eletta presidente di Assimpredil Ance, l’Associazione delle Imprese Edili e Complementari di Milano, Lodi, Monza e Brianza.
De Albertis, che lavora nell’impresa di famiglia Borio Mangiarotti spa, di cui è direttore tecnico e consigliere delegato, è la prima donna a coprire questo ruolo e lo farà per i prossimi quattro anni.
“Ho scelto di accettare questa sfida, candidandomi alla guida dell’associazione perché in questo momento, così cruciale per le nostre imprese e per il territorio, dobbiamo lavorare insieme per costruire il nostro futuro ed innovare la nostra filiera, orgogliosi di essere costruttori e protagonisti della ripresa economica” ha dichiarato la nuova presidente.
Credits Assimpredil Ance Milano Lodi Monza e Brianza
L’obiettivo sarà rimettere il territorio al centro delle strategie del Sistema Italia, perché al settore edile è affidata la riuscita del Pnrr: si tratta di una sfida che porterà “il Paese verso una vera rinascita in senso sostenibile, con un patto di fiducia tra generazioni, tra società civile e politica, tra economia e amministratori della cosa pubblica”.
L’affiancheranno, oltre a una squadra di Vicepresidenti e un Tesoriere, anche i quattro coordinatori dei Consigli di Zona, che assicureranno all’Associazione il presidio dell’area metropolitana di Milano e delle province di Lodi e Monza Brianza, per facilitare il dialogo tra Istituzioni e stakeholder.
“La rigenerazione urbana guiderà la trasformazione green del Paese – continua De Albertis – perché dalle città può nascere un nuovo modello di sviluppo che consenta di trasformare il territorio invertendo tutti i parametri di consumo delle risorse, parametri che per secoli sono stati alla base dei modelli di crescita. La visione per il futuro deve prevedere la costruzione di alleanze di filiera in grado di affermare un nuovo modello di relazioni tra le componenti produttive, ma anche tra la filiera e la comunità. Oggi gli interventi sul costruito devono generare valore ambientale e sociale per le generazioni future”.
Con una donazione libera (scegli tu la cifra!) contribuisci insieme ad altri donatori a creare borse di studio per sostenere una o più studentesse che inizieranno a frequentare il primo anno di Laurea Magistrale dei corsi di Ingegneria che oggi hanno una bassa frequenza femminile. Dona ora
Cini Boeri si laureava nel 1951. Nel 2015 l’abbiamo incontrata tra le sue opere, alcune più anziane di chi scrive, per raccontare i suoi oltre 60 anni di carriera attraverso una delle sue ultime mostre monografiche: “Progettando la gioia”. Ricordiamo la celebre architetta viaggiare con occhi sognanti e con ironia attraverso i suoi lunghi anni e attraverso la storia dell’architettura e del design del ‘900, mentre rispondeva alle domande degli Alumni:
foto Maria Mulas
AP: Cini, lei si è laureata nel 1951, poi ha aperto molto presto il suo studio, nel ’63. La sua carriera è decollata tra progetti, insegnamento, ricerca, fino a questa esposizione, “Progettando la Gioia”, una sorta di compendio della sua vita professionale.
CB: Sì, non ho dovuto aspettare molto, dopo la laurea, per iniziare a lavorare. Da Gio’ Ponti sono rimasta solo un anno. È stato lui spingermi verso la professione. Mi diceva: “Tu, coi colori che fai, devi fare l’architetto!”. Poi sono andata da sola. Avevo una segretaria e ogni tanto qualche stagista a fare pratica.
AP: Durante un’intervista, ha dichiarato che una buona parte del suo lavoro consiste nel progettare oggetti di uso comune, con lo scopo che non siano posseduti bensì utilizzati. L’utilizzo degli oggetti e il rapporto con lo spazio può essere una fonte di gioia. Cosa significa?
CB: Quando progetto una casa per una coppia di coniugi, ad esempio, propongo sempre di inserire una stanza in più. Loro mi chiedono sempre: “per gli ospiti?”. Ma no! Non per gli ospiti. Perché se una sera uno ha il raffreddore può andare a dormire in un’altra stanza, per esempio. Uno dovrebbe poter scegliere, sapere che può andare a dormire con il proprio compagno, ma che può anche decidere di non farlo, senza che questo pregiudichi la vita di coppia. Credo sarebbe molto educativo insegnare i giovani che quando si uniscono in coppia non è obbligatorio dividere il letto, è una scelta. È molto più bello.
AP: Quindi secondo lei si possono usare gli spazi quotidiani per educare le persone a diversi modelli di vita?
CB: Esattamente! Certo.
foto archivio storico Arflex
AP: In che modo pensa che il suo lavoro possa contribuire a questa educazione della cittadinanza?
CB: Un po’, la società matura per conto suo. Oggi le persone sono più autonome e indipendenti. È un processo in atto. Io, nella mia veste di architetto, posso proporre dei modi alternativi di abitare e vivere gli spazi, agevolando un processo di emancipazione già in atto e promuovendo ovunque possibile la libertà di scelta.
AP: Parlando della sua opera, parole che emergono spesso sono quelle di un approccio democratico all’architettura e al design. Cosa significa? Quali sono i suoi padri intellettuali?
CB: È il Politecnico che ci ha abituati così. Abbiamo avuto un insegnamento molto aperto, non so se oggi sia ancora così!
AP: Ci racconta qualcosa degli anni del Poli?
CB: Ecco… si discuteva abbastanza. Io arrivavo con delle idee già maturate sull’autonomia e la responsabilità reciproca: già allora pensavo che fosse importante mettere il focus su libertà degli individui, e i miei progetti hanno sempre cercato di concretizzare questo principio. Per cui si discuteva! Perfino oggi, è difficile che queste idee vengano accolte come proposte serie. Quella della camera da letto in più, ad esempio, viene presa come una minaccia al matrimonio! Ma non è così. Imparare a pensare per conto proprio favorisce il benessere della coppia, non lo minaccia.
AP: Con chi discuteva? Con gli insegnanti?
CB: non necessariamente. I professori erano di ampie vedute. Mi ricordo, ad esempio, del prof. Renato Camus (immagino oggi non ci sia più!): sempre orientato verso la modernità, verso nuovi modi di vivere. Ma il modello famigliare era ancora molto tradizionale e gerarchico. La libertà non era sempre considerata uno strumento accettabile.
AP: Uno strumento?
CB: La libertà è uno strumento, in senso allargato. Ad esempio, quando un bambino impara a fare qualcosa da solo, acquisisce al tempo stesso la responsabilità di doverlo fare e la libertà di poterlo fare.
AP: Lei ha avuto e ha tuttora molti collaboratori più giovani. Cos’è cambiato negli architetti, nei 60 anni della sua carriera?
CB: C’è più libertà d’azione, più possibilità di scegliere e più consapevolezza. Questo dipende sia dall’evoluzione generale della società, sia dal fatto che oggi la professione è meglio riconosciuta, è diventata un valore culturale oltre che estetico. Ai miei tempi, l’architetto era visto un po’ come il decoratore, non come quello che rende funzionale uno spazio, e quell’approccio ci toglieva il nostro valore principale, la funzionalità. La funzionalità è un invito a vivere lo spazio in un certo modo, invece che in un altro: nel mio caso, un invito a togliere le dipendenze, a promuovere l’autonomia e la riflessione. Progettare per la funzionalità è progettare per la gioia.
foto Cantina Pieve Vecchia
AP: Lei però non ha progettato solo spazi, ma anche oggetti di design. Un tempo architettura e design non erano due discipline separate, mentre oggi vengono insegnate, al Poli, in due diverse facoltà. Qual è il rapporto che le lega?
CB: È un rapporto molto stretto. Il motivo sottostante un progetto, che sia di un mobile o di un locale, è sempre la funzionalità. La fisionomia dello spazio è legata alla sua funzione d’uso. Lo stesso vale per il design. Gli oggetti devono aiutare a vivere lo spazio, non occuparlo.
AP: Sempre a proposito del rapporto tra le varie discipline di matrice politecnica, le riporto una recente dichiarazione di Renzo Piano: “Negli anni del Poli crebbe in me l’idea che quelli dell’Architetto e dell’ingegnere siano lo stesso mestiere”. È un invito a riflettere sulle cose che ci legano in quanto Alumni Polimi, invece che su quelle che ci dividono. Cosa ne pensa?
CB: [ride] Per certi versi è vero! Cioè, non sono la stessa cosa, ma un progetto non si realizza senza la collaborazione dell’uno e dell’altro. Sono due mestieri molto vicini e devono collaborare. Non sono la stessa cosa perché all’ingegnere manca una cosa: il focus sulle necessità della persona. Insomma, se io devo progettare un appartamento per una famiglia, vado a conoscerla, passo del tempo con loro, cerco di entrare nelle loro dinamiche famigliari.
AP: Qual è l’elemento portante del rapporto tra lei e il suo committente?
CB: La comunicazione e la fiducia, che deve essere reciproca. Non sempre quello che io propongo è quello che il committente si aspetta. Non sempre ci si capisce al volo. Ad esempio, quella storia della camera in più, talvolta, mi ha fatto passare per una “killer dei matrimoni” [ride]. Ma non è così! Io, come architetto, devo saper ascoltare e interpretare loro necessità. Il committente deve imparare a fidarsi. Di solito funziona!
AP: I suoi committenti sanno quello che vogliono, quando vengono da lei?
CB: No! Vogliono il meglio… [ride], e, di solito, vogliono quello che hanno visto. Una volta mi proponevano i divani in stile ottocentesco, tutti sagome e volute, oggi mi propongono cose astratte che non servono a niente. D’altra parte credono che l’architetto porti la novità in quanto tale. Invece, io voglio portare benefici alla vita! Quindi, bisogna ascoltarsi e venirsi incontro. Alla fine, sono tutti sempre molto soddisfatti.
AP: Lei ha dichiarato in un’intervista che un progetto nasce, per dirlo con parole politecniche, da un processo di analisi e sintesi. Me lo spiega meglio?
CB: Il momento di analisi è quello dell’ascolto, in cui, come ho spiegato, imparo a conoscere il committente. Il momento di sintesi è quello creativo, che è altrettanto importante. Noi proponiamo il nuovo, che è frutto della creatività, ma non lo proponiamo in modo indiscriminato: deve avere un posto e una funzione chiara nella vita delle persone.
AP: È una “creatività controllata”?
CB: In un certo senso… ad esempio, se devo fare una sedia non butto lì la prima cosa che mi viene in mente, sarebbe una stupidata. Invece, penso a come ci si siede, a come le diverse forme del corpo umano possono avere il sostegno giusto. La forma del corpo determina la linea interna di un sedile, punto di partenza del progetto. La funzionalità dirige la creatività.
AP: Cos’è per lei l’innovazione?
CB: È ciò che avvicina un progetto al committente, alle sue necessità. Che sono personali. Per evitare di riproporre sempre gli stessi schemi, l’architetto deve essere in grado di personalizzare il progetto. Deve conoscere il committente. E per conoscerlo deve avere un modo facile e diretto di comunicare.
AP: Quindi la comunicazione è un fattore chiave per l’innovazione?
CB: Esatto.
AP: Perché ha scelto la strada dell’architetto?
CB: Ah, questa è una domanda difficile! Non le so rispondere. Forse il momento determinante è stato durante la Resistenza, in montagna, quando conobbi De Finetti. Inizialmente mi diceva che ero una ragazzina, e che l’architetto era un mestiere da uomo. Poi, però, mi portava a fare delle passeggiate, mi faceva vedere delle case, mi chiedeva cosa ne pensassi. E alla fine mi disse che forse ero abbastanza seria per diventare architetto. “Ricordati che è una cosa seria”, mi diceva, “non un gioco”.
Casa nel bosco, 1969 (foto Matteo Piazza)
AP: Mi racconta qualcosa degli anni della Resistenza?
CB: Ah, sì. L’ho fatta in pieno, con molto entusiasmo e molta buona volontà. Ero giovane! Siamo partiti dalle cose più banali, come portare la corrispondenza ai ribelli in montagna. Poi le cose si sono fatte serie. Alla fine abbiamo guidato le truppe partigiane.
AP: Non aveva paura?
CB: No, ero molto appassionata. La mia gioventù è stata determinata dall’anti-fascismo, che per fortuna era vivo nella mia famiglia e nei nostri amici. Ero già politicizzata, in un certo senso, con una sensibilità sul contesto sociale e le sue manifestazioni. Era tutto molto chiaro. L’anti-fascismo ci ha portato alla lotta e la lotta ad essere gli autori della nuova società. Parlo al plurale: non ero da sola, ero circondata dai miei coetanei.
AP: Sapevate cosa dovevate fare?
CB: Sapevamo molto bene che il fascismo andava condannato. Aveva troppi lati contrari al nostro modo di pensare: la propaganda personale, l’autorità, il rapporto autoritario con il lavoratore, eccetera. Sulla negazione di quello che viveva intorno a noi, ci siamo formati e abbiamo cominciato a costruire.
AP: Cos’ha voluto dire essere partigiani?
CB: Era una guerra semplice. Si combatteva sulle montagne, si sparava, si scendeva in città a scambiare documenti e si ritornava su. Ma non era una massa di persone, non era un esercito. Era un modo di essere e di pensare, la nostra natura. E quindi per noi era naturale agire così. A sua volta, la Resistenza ha formato il mio carattere e ha rassicurato i principi trasmessi dalla famiglia.
AP: Quei principi che sono alla base del suo lavoro…
CB: Esatto, l’autonomia, la libertà personale, l’approccio democratico, la responsabilità, il rispetto dell’altro nei rapporti interpersonali… tutti questi valori, che hanno determinato la mia carriera, vengono da lì. Io sono felice della mia professione, ma se dovessi sceglierne un’altra farei l’insegnante, anche alle scuole elementari. Questi sono valori che vanno trasmessi.
AP: Un’ultima domanda e poi la lascio ai suoi ospiti: qual è la lezione più importante che le ha lasciato il Poli?
CB: La serietà. L’architettura è costruire. È disciplina. Quando ero in studio con Gio’ Ponti, lui mi sgridava se trascuravo dettagli come riordinare la scrivania. Mi diceva: “L’architetto non fa questi errori. L’architetto tiene tutto organizzato, in modo che sia ben stabile”.
Tra gli Alumni del Politecnico, circa uno su tre (29%) risulta già assunto alla data della laurea: nell’82% dei casi si tratta di impieghi come lavoratore dipendente (il 94% nel settore privato con il 52% di contratti a tempo indeterminato e 1.549 euro di stipendio medio all’ingresso nel mondo del lavoro). Il 96% è già occupato a un anno dal titolo (98% Ingegneria; 93% Architettura; 88% Design). La percentuale di occupazione sale fino al 99% a cinque anni dalla laurea (99% Ingegneria; 97% Architettura; 97% Design), con il 90% di contratti a tempo indeterminato e stipendio medio di 2062 euro.
Lo certifica l’indagine occupazionale resa nota dal Politecnico di Milano, condotta sui laureati magistrali italiani che hanno conseguito il titolo nel 2015: in totale sono 4.567. Hanno risposto alla survey in 3.490. L’indagine occupazionale 2021 è stata coordinata dal Career Service del Politecnico di Milano, che supporta e prepara gli studenti all’ingresso nel mondo del lavoro, coltivando contatti con le più importanti aziende nazionali e internazionali.
Per quanto riguarda i laureati magistrali stranieri, l’82% di loro risulta occupato a un anno dal titolo, percentuale che sale al 93% dopo cinque anni dalla laurea. Buona la percentuale di occupazione anche per i laureati triennali del Politecnico che decidono di non proseguire il proprio percorso di studi: l’87% di loro è occupato a un anno dal titolo, il 97% dopo cinque anni, con uno stipendio di ingresso medio di 1.393 euro che sale a 1.830 euro a cinque anni dalla laurea triennale.
“Siamo molto felici di constatare che, nonostante i lasciti della pandemia, l’occupazione dei nostri laureati non subisce flessioni, ma anzi mostra un trend positivo. Una crescita che continua ininterrotta per il Politecnico di Milano e che trova conferma anche a distanza di cinque anni dal conseguimento del titolo”, commenta Ferruccio Resta, Rettore del Politecnico di Milano. “È, questa, la dimostrazione di una formazione capace di rivalutarsi nel tempo e apprezzata dal tessuto produttivo. Una ricetta necessaria per la ripresa. Un investimento per il futuro”.
La società Fondazione Milano per Expo (FMpE) ha donato al Politecnico di Milano la somma di 120 mila euro, finalizzata a finanziare 3 assegni di ricerca per giovani ricercatrici.
La donazione si inserisce nel progetto di E4WE/Education for Women Empowerment, nello spirito di quanto seminato durante EXPO 2015 e nella continuità di quello che il Women Pavilion offrirà in occasione del prossimo EXPO. FMpE e Politecnico di Milano hanno deciso di aderire al palinsesto del Padiglione, contribuendo a sostenere l’importanza di una società inclusiva, sempre più indispensabile per i vantaggi che comporta in termini di innovazione, sostenibilità e valore economico. L’iniziativa ha anche l’obiettivo di dare visibilità internazionale a questo tema e creare connessioni in particolare con il mondo arabo e con Dubai che ospiterà l’esposizione.
La donazione sosterrà assegni di ricerca in campi dove gioca un ruolo chiave l’intersezione tra tecnologie, design e scienze della salute: si occuperanno dell’impatto dei Big Data sulla ricerca biomedica, dei modelli di misurazione e Intelligenza Artificiale al servizio della salute e del contributo di scienza e tecnologia relativamente alla responsabilità sociale degli ambienti terapeutici. Un altro ambito che interesserà il bando per l’assegnazione di questi fondi è quello della sostenibilità nella filiera agroalimentare.
Sono campi di ricerca di grande attualità e con un importante impatto sociale, temi sui quali il Politecnico sta investendo molto, facendo da apripista in Italia per nuove professioni dell’ingegneria e del design, che diventeranno sempre più rilevanti nei prossimi anni.
Credits: Alexis Brown on Unsplash
Questa iniziativa si inserisce nel piano strategico del Politecnico di Milano, che porta avanti diverse azioni volte al coinvolgimento di giovani ricercatrici, come delineato nel Bilancio di Genere: un documento che scatta una fotografia d’insieme del nostro Ateneo, mostrando un’analisi aggiornata dei principali dati relativi alla componente studentesca, al corpo docente e al personale tecnico-amministrativo.
Relativamente all’equilibrio di genere, il Politecnico è in linea con quanto accade a livello italiano ed europeo nelle università tecnico-scientifiche:un terzo del personale docente e di ricerca all’interno dell’Ateneo (29%) è rappresentato da donne.
La stessa percentuale si riscontra tra le studentesse; alcuni settori scientifici però subiscono un maggiore squilibrio, ed è per questo che l’Ateneo ha pianificato azioni mirate a colmarlo, che vanno nella direzione di un impegno specifico nel reclutamento di studentesse e ricercatrici. Si inserisce in questo quadro l’istituzione di borse di studio e di ricerca dedicate a studentesse e PhD nelle materie STEM (info per donare a questo link).
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L’Alumna Annaluigia Meroni, 96 anni, nasce nel 1925 e si laurea in Ingegneria Civile nel 1953. La sua storia passa per la Seconda guerra mondiale, l’agognato diploma e la laurea al Poli, che frequenta subito dopo la guerra. Poi la professione di ingegnere, tra uffici brevetti, Siemens, Pirelli, Italia e Stati Uniti, occupandosi anche delle prime organizzazioni femminili, di pozzi petroliferi di recupero e di fissione dell’atomo.
Una carriera in un mondo prevalentemente maschile, dove la domanda “chiamarla ingegnere o signora?” è solo – per la nostra Alumna – un “ridicolo dettaglio legato ai tempi”, da scrollarsi di dosso con leggerezza, e dove non mancano donne intraprendenti e professioniste della tecnologia.
Ci siamo fatti raccontare la sua storia, oggi che le cose sono cambiate molto, ma c’è ancora tanta strada da fare per raggiungere una società inclusiva.
“Nel febbraio del 1942,
spinta dall’incalzare delle incursioni e dei bombardamenti, lasciai Milano per rifugiarmi in un paesello alle sorgenti della Livenza. Non sapevo cosa avrei fatto l’indomani: si viveva alla giornata. Nelle scuole, le sole informazioni disponibili riguardavano la politica in voga al momento, propaganda sull’andamento della guerra come ce la volevano raccontare.
Avevo ben chiaro che la pittura e le materie scientifiche erano le mie preferite e avrei voluto completare almeno il liceo scientifico. Perciò mi procurai e portai con me tutti i libri che mi sarebbero occorsi per farlo privatamente.
Ebbi anche la fortuna di conoscere e frequentare una vecchia signora anglo americana, rifugiata insieme a me per sfuggire alle leggi razziali, che mi consentì di perfezionare la mia lingua inglese, al punto da poterla usare quasi come una seconda lingua.
Tuttavia, il tempo passava come un tempo sospeso, non si capiva se tutto quello che stava accadendo potesse avere un fine. Nel 1943 i tedeschi presero possesso di tutta l’Italia settentrionale. Per noi giovani non era vita, ma solo attesa, e di che? Eravamo isolati: i ragazzi per lo più erano a militare oppure in montagna. Ancora nessuna informazione, se non Radio Londra, che abbracciavamo quasi, la sera, nella camera più sotto la montagna e più lontana dalla strada per non essere scoperti dalle ronde tedesche.
È in questo clima che raggiunsi, nel ’44, il sospirato esame di maturità, che superai. Quasi svegliandomi da un sonno, compresi allora che esisteva vita al di là di quell’esame e degli eventi e che avrei dovuto scegliere per il domani. Mio padre, artigiano edile, doveva spesso ricorrere, per i suoi lavori, alla consulenza di ingegneri. Fu per me un’ispirazione e, essendo io sempre stata persona abbastanza concreta, scelsi Ingegneria Civile sottosezione Edile. Il mio papà, che era rimasto a Milano, mi iscrisse al Poli, ma io non potei naturalmente frequentare fino al mio rientro, a guerra terminata.
Alla fine della guerra purtroppo persi il padre e fui posta di fronte all’interrogativo se smettere o continuare con gli studi di ingegneria. Siccome sono dotata di una certa tenacia decisi di cercare lavoro e continuare, ben sapendo che così avrei allungato i tempi. Una mia cugina ufficiale dell’armata americana, grazie al mio inglese, mi offrì un posto di organizzatrice viaggi per gli americani ospitati all’Hotel du Nord.
Purtroppo, l’orario non mi permetteva di arrivare in tempo alla lezione di Analisi Matematica che mi pare iniziasse alle 2 e che non volevo perdermi. Comunque, altri studenti arrivavano in ritardo e si infilavano silenziosamente in classe, così mi accinsi a farlo io. Subii così la prima prova di discriminazione: al mio ingresso, i ragazzi posti nell’anfiteatro rumoreggiavano fortemente, disturbando il professore che, dopo un paio di volte, mi cacciò. Lasciai allora quel lavoro per poter seguire la lezione, ma ne trovai altri come traduttrice, soprattutto per l’Agip mineraria e l’Eni. Fra rinunce e sacrifici, studio e lavoro arrivai alla laurea, nel 1953.
Trovai subito un lavoro presso la cattedra di Costruzioni Automobilistiche del prof. Fessia (l’inventore della macchina 500 Fiat) ma, essendo ancora vivo il mio desiderio di fare l’ingegner civile, chiesi ed ottenni di lavorare gratis et amore Dei presso lo studio dell’ing. Cesa Bianchi (ideatore del primo grattacielo di Milano).
Fui assegnata a collaborare con un ingegnere più anziano al calcolo di una scala di un edificio in costruzione a Milano in via Circo 6. Il lavoro mi risultò abbastanza noioso e non certo rispondente ai miei desiderata, per cui accettai con entusiasmo l’offerta dell’Ufficio Brevetti Ingg. Racheli e Bossi. Le due titolari, Adele Racheli e Rosita Bossi, erano due ingegnere, anche loro Alumnae del Politecnico: Racheli laureata in ingegneria meccanica nel 1920 e Bossi in Elettrotecnica nel 1924 (a queste due se ne aggiungeva una terza, ing. Lazzeri, che nel periodo di guerra per sfuggire alle persecuzioni razziali aveva fatto la cuoca in Svizzera).
Il lavoro di agente brevetti mi piacque subito, si era a contatto con le innovazioni, inoltre mi erano utili le lingue che allora conoscevo: francese e inglese e cominciai a studiare tedesco. Fu qui che venni invitata negli USA dal Department of Labour Woman’s Bureau per un periodo di formazione e addestramento in cui mi occupai di organizzazioni femminili, pozzi petroliferi di recupero e fissione dell’atomo.
Tornata in Italia sentii subito il bisogno di migliorare la mia posizione economica e quindi accettai l’offerta della Siemens di occuparmi della Biblioteca, dei brevetti di un loro dirigente estesi in tutto il mondo e relativi alla fissione del Samario 144, nonché, nel frattempo, di avviare la creazione di un ufficio brevetti che al momento la ditta non aveva. Mi fu anche consentito di mantenere la mia attività di consulente nel campo Brevetti, Modelli e Marchi del Tribunale di Milano che già svolgevo da qualche anno.
Il lavoro era decisamente interessante e dinamico e mi permetteva di viaggiare molto. Il rapporto con i colleghi a livello orizzontale ottimo. In direzione verticale, diciamo, non si era ancora pronti a donne ingegnere. A livello direttivo si erano consultati perché non mi si chiamasse ingegnere ma signorina e ricordo che uno dei tanti direttori che si sono succeduti, avendo io chiesto un aumento di stipendio, mi disse chiaramente che me lo avrebbe dato se fossi stato un maschio.
Lasciai la Siemens nel giugno del ’64 per seguire mio marito in Spagna dove mi arricchii di un’ulteriore lingua. Tornata in Italia nel 1967, accettai l’offerta della Pirelli di occuparmi della sezione Cavi del loro Ufficio Brevetti.
Anche in Pirelli mi si appellava semplicemente come signora, essendosi deciso in una riunione di dirigenti avutasi prima del mio arrivo, quando per la sezione meccanica (mi pare) si era assunta un’altra donna ingegnere di 5 anni più anziana di me. Si appellava però con “Dottoressa” una chimica preposta alla sezione Gomma, evidente incongruenza perché anche le ingegnere sono dottor Ingegner.
A parte il suddetto ridicolo dettaglio legato ai tempi, il lavoro in Pirelli era interessante: a quei tempi si stavano inventando le fibre ottiche. I rapporti con i colleghi-clienti (chiamiamoli così) dell’Ufficio Brevetti erano ottimi, tanto che vi rimasi anche su insistenza della ditta fino a 60 anni, ben oltre la pensione, che allora per le donne era a 55 anni. Lasciai la Pirelli nel 1985 con la speranza di dedicarmi almeno per un po’ ad uno dei miei amori giovanili: la pittura.
Annaluigia Meroni, Alumna Ing. Civile 1953
Nel libro “ALUMNAE, Ingegnere e tecnologie” abbiamo raccolto le storie di 67 ingegnere della nostra community. L’obiettivo? Raccontare un insieme di esempi positivi per le ragazze “STEM” di oggi e di domani. Questo libro è una delle tante iniziative creata da Alumni Politecnico di Milano. Se ti piacciono le nostre attività, puoi donare per sostenerle.
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Credits photos: Annaluigia Meroni
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