È stato presentato ieri – in conferenza stampa dai Rettori di Bocconi e Politecnico di Milano, Gianmario Verona e Ferruccio Resta, con il Ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani – il nuovo Master of Science in Trasformative Sustainability, nato dalla collaborazione tra Politecnico di Milano e l’Università Bocconi.
Il master of science congiunto – diretto dalla professoressa Raffaella Cagliano del Politecnico e dal professore Francesco Perrini della Bocconi – si pone come un unicum nel panorama della formazione universitaria in Europa proprio perché vuole formare i futuri top manager della sostenibilità, dei ‘manager-tecnologi’ sempre più richiesti dal mercato del lavoro con una prospettiva fortemente integrata, innovativa e multidisciplinare sulla sostenibilità.
“La trasformazione sostenibile è oggi una sfida imprescindibile per le imprese. La sostenibilità non è solo uno dei pilastri su cui si basano i piani per l’Europa del futuro, ma oggi deve entrare a far parte del dna di ogni modello di business affinché l’impatto delle imprese possa essere sempre più positivo. È fondamentale per noi formare futuri manager che abbiano questa visione.”
spiega il Rettore della Bocconi, Gianmario Verona.
“La tecnologia è, senza ombra di dubbio, il fattore abilitante delle grandi trasformazioni in atto, come nel caso della sostenibilità in tutte le sue accezioni. Impatta in modo decisivo sui processi di business e orienta imprese ed enti pubblici verso piani di sviluppo complessi di cui gli SDGs sono elementi fondativi. Da qui il contributo del Politecnico di Milano e la necessità di combinare le competenze tecniche e formative dei nostri due atenei su tematiche chiave per la crescita economica e sociale.”
aggiunge il Rettore del Politecnico di Milano, Ferruccio Resta.
Il nuovo corso di laurea vedrà la realizzazione di una didattica congiunta, ma secondo le proprie aree di competenza: i docenti Bocconi si occuperanno degli insegnamenti più legati alle discipline delle scienze sociali, del management, dell’economia, della finanza e del diritto necessarie per gestire una transizione sostenibile circolare “giusta”, mentre i docenti del Politecnico formeranno gli studenti sulle tecnologie più avanzate, in particolare nelle aree dell’energia, dell’ambiente, della chimica e della mobilità, oltre a trasferire un approccio ingegneristico orientato a progettare, innovare e gestire sistemi sostenibili. Nel nuovo corso non mancheranno insegnamenti di data analytics, di etica, di diversity e di inclusione.
Il master of science in Trasformative Sustainability, che inizierà nell’anno accademico 2022/2023, è il secondo corso di laurea congiunto tra Politecnico e Bocconi dopo la laurea magistrale in Cyber risk strategy del 2019 (ne abbiamo parlato qui).
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“Non credo che, se avessimo a disposizione un computer un milione di volte più potente, riusciremmo a mettere a punto sistemi di intelligenza artificiale più vicina a quella umana”.
Per mettere a sistema tutti questi elementi e anticipare il cambiamento tecnologico (ma, soprattutto, per stimarne e indirizzarne l’impatto sul mondo in cui viviamo) il Politecnico di Milano ha da poco inaugurato il Technology Foresight Center, uno strumento fatto di competenze specialistiche e reti di esperti accademici e industriali, nazionali e internazionali, che ha il duplice obiettivo di elaborare previsioni di sviluppo tecnologico e fornire indicazioni utili a supporto delle scelte di investimento pubblico e privato.
“Negli ultimi cinquant’anni il numero di transistor disponibili su un chip di pari dimensioni (l’elemento di base delle operazioni digitali) è raddoppiato ogni diciotto mesi, seguendo la così detta legge di Moore, che nel 1965 predisse empiricamente l’aumento della capacità di elaborazione nel tempo”,
commenta Sciuto.
Biotecnologie e life sciences, energia, intelligenza artificiale, mobilità, nuovi materiali: sono alcuni dei campi di ricerca più urgenti in cui la velocità di innovazione delle tecnologie tende a crescere in modo esponenziale. “Di solito si sovrastima l’impatto di una tecnologia nel breve periodo e lo si sottostima nel lungo periodo”, spiega, in una video-lezione agli Alumni, la prof. Cristiana Bolchini, docente della Scuola di Ingegneria Industriale e dell’Informazione del Politecnico di Milano e membro del comitato scientifico del Technology Foresight Center. “Perché non è semplice avere un’idea dell’interdipendenza [della tecnologia] con gli aspetti sociali politici ambientali ed economici”.
Con un focus importante sugli obiettivi di sostenibilità condivisi su scala globale, il Technology Foresight Center si chiede, continua Sciuto sul Corriere, in che misura sia possibile “anticipare il cambiamento tecnologico, stimarne la velocità, la capacità di diffusione e l’impatto”. Rispondere a queste domande diventa ancora più urgente oggi, in vista, conclude la prorettrice “dei grandi investimenti in atto. Il Paese ha di fronte a sé un’occasione imperdibile. A partire dalle infrastrutture digitali, alle tecnologie verdi, all’investimento in ricerca, l’innovazione tecnologica ci offre grandi opportunità. Dobbiamo saperle cogliere a tre condizioni: agire in modo rapido ed efficace, correre sulle lunghe distanze e puntare sul valore del capitale umano, che è il vero fattore abilitante di ogni cambiamento”.
MADE è un hub di sviluppo per progetti di ricerca applicata e trasferimento tecnologico. È anche un “demo center” dove poter vedere e toccare con mano le tecnologie allo stato dell’arte dell’industria manifatturiera. Girando per i suoi 2500 m2 di nastri trasportatori, bracci meccanici e sensori, si ha quasi l’impressione di trovarsi in una fabbrica nel futuro; in realtà, il futuro che immaginiamo è già qui.
Guidato dal Politecnico di Milano, MADE unisce 4 università (oltre al Poli, collaborano le Università di Bergamo, Brescia e Pavia), INAIL e 43 imprese (tutti i partner a questo link) del territorio lombardo. Vi convergono quindi i più aggiornati metodi, strumenti e conoscenze sulle tecnologie digitali, dalla progettazione all’ingegnerizzazione, dalla gestione della produzione al termine del ciclo vita del prodotto. Ciascuno dei partner porta in MADE una dimostrazione della propria tecnologia, mostrando quali potenzialità si aprono quando le tecnologie esponenziali incontrano l’operation technology e non solo.
Credits: Alessandro Spada
Progettato pre-pandemia e inaugurato a fine 2020, oggi MADE torna a occupare spazio nel discorso pubblico. Come mai? Ne abbiamo parlato con Stefano Rebattoni, Alumnus ingegneria gestionale e amministratore delegato di IBM Italia, uno dei partner fondatori del competence center.
“MADE è un luogo in cui mostrare alle PMI, gruppi industriali, start up innovative e incubatori cosa si può ottenere ripensando la fabbrica in termini di collaborazione tra information technology e operation technology. È stato creato sul territorio lombardo, caratterizzato dalla presenza di università di eccellenza e un forte tessuto imprenditoriale, per fare sistema tra questi player di punta e trainare il territorio circostante. Il PNRR oggi ci dà la grande opportunità di portare tutto questo su un fattore di scala differente, non più regionale e locale ma nazionale. Questo vuol dire maggiore occupazione e rapido sviluppo: migliora la competitività dell’intero settore manifatturiero italiano. Il quale, ci tengo a precisarlo, già oggi ha una posizione di assoluta rilevanza: è il secondo in ordine di importanza a livello europeo, con una decisa presenza delle PMI, ossatura del sistema economico del Paese”.
TRA LE MURA DEL MADE, 3 CAMPI DI RICERCA CON IMPATTO GLOBALE
Non solo per l’Italia, ma per tutto il mondo, ripensare il manifatturiero significa per prima cosa doversi occupare con urgenza di cyber security e efficientamento energetico. “Erano temi importanti quando abbiamo pensato MADE, oggi sono diventati un’emergenza”, commenta Rebattoni. Poi si lavora anche su altre cose, come il cloud, prerequisito per un concept di fabbrica più aperta, sicura ed efficiente.
Credits: Digital4
Qualche esempio? “Come IBM, stiamo lavorando con MADE a diversi progetti, ne cito alcuni. Lato cyber security: attraverso l’utilizzo della piattaforma QRadar, è possibile monitorare accessi alle risorse e identificare in anticipo comportamenti sospetti che si devono intercettare prima che si verifichino danni agli impianti o furti di dati. Sul controllo qualità, sviluppiamo un sistema di sensori che raccolgono immagini lungo tutto il ciclo di produzione. Questi dati vengono poi utilizzati dai modelli di intelligenza artificiale per identificare i difetti di fabbricazione e istruire le macchine per eliminarli. Sul fronte energia, lavoriamo con Icopower a un sistema in grado di monitorare il consumo energetico dei grandi macchinari industriali, rilevando comportamenti straordinari rispetto alle medie attese e normalizzando i profili di carico e consumo dell’energia”.
Come gruppi industriali, istituzioni e società in tutto il mondo siano ormai legati a doppio filo gli uni alle altre è qualcosa che possiamo leggere ogni giorno nei titoli di tutti i giornali. Quali criticità si nascondono in un sistema sempre più integrato?
“I rischi sono sempre proporzionali alle opportunità. Si va verso una economia di piattaforme digitali, i dati sono distribuiti, le infrastrutture devono essere in grado di comunicare. L’opportunità è quella della scalabilità e della flessibilità; i rischi sono soprattutto legati al tema della cyber security (per esempio alla governance dei dati), all’aggiornamento delle infrastrutture, che devono essere resilienti e in grado di gestire carichi sempre più imprevedibili. E poi ci sono gli investimenti per le competenze: senza le adeguate professionalità, non saremo in grado di cogliere tutte le opportunità che oggi ci offre l’innovazione tecnologica”.
Due grandi Alumni e professionisti dell’architettura e del design a confronto: è la mostra “Marco Zanuso e Alessandro Mendini. Design e Architettura”, in esposizione all’ADI Design Museum di Milano.
“Una mostra che intende porre le basi per una riflessione attorno al design made in Italy e ai suoi valori” afferma Luciano Galimberti, Presidente ADI Associazione per il Disegno Industriale, e che ruota attorno a un percorso espositivo che stimola la riflessione giocando sulla contrapposizione delle opere dei due architetti, grazie a un percorso di rimandi e influenze.
Credits: Martina Bonetti
ZANUSO E MENDINI: DUE VOLTI DEL MADE IN ITALY, DIVERSI MA FORSE COMPLEMENTARI
Marco Zanuso, Alumnus e professore del Politecnico, è considerato uno dei fondatori del design industriale italiano.
A partire dal secondo dopoguerra, uno dei suoi interessi principali furono l’accessibilità e i costi degli articoli della produzione di massa, che lo spinsero a diventare il primo a interessarsi all’uso di nuovi materiali e tecnologie per gli oggetti comuni e ai problemi di industrializzazione del prodotto.
Alessandro Mendini, invece, si laurea nel 1959 e inizia a praticare durante le stagioni dell’architettura radicale e del postmoderno, occupandosi dei suoi progetti di “redesign”, riesce a dare vita a pezzi classici del design reiventandoli con colori e materiali nuovi.
“Ho fatto molta fatica a capire che cosa fossi. Ho una certa indifferenza tecnica: mi piace pitturare, scrivere, fare grafica ecc… una cosa non prevale sull’altra. Mi spiego meglio: Medardo Rosso era uno scultore con la cera. Sapeva fare solo quello, e lo faceva in modo eccellente. Oppure, dal punto di vista dei contenuti, Morandi si è centrato sulle bottiglie. Io invece sono dispersivo, eclettico. Sono sempre attratto da quello che non mi appartiene e spreco le mie energie cercandolo. Pertanto mi è molto difficile dire che cosa faccio e quali obbiettivi ho raggiunto. È tutto molto frammentato e caleidoscopico. Ma in tutto questo casino che ho nella testa, c’è anche un metodo, un’ipotesi di lavoro. Lavoro come un operaio, dalla mattina alla sera, anzi di più, perché un operaio non lavora la domenica.”
Credits: Montibeller
La mostra diventa quindi un modo di mettere a confronto il metodo progettuale e rigoroso di Zanuso e il procedimento postmoderno di Mendini, che ha saputo fare rielaborazioni poetiche dell’esistente.
A proposito della mostra, il curatore Pierluigi Nicolin sottolinea:
“Oltrepassando lo stesso contesto italiano possiamo vedere come le tematiche moderniste ‘forti’ alla Zanuso e quelle postmoderniste ‘deboli’ alla Mendini si fondano sulla capacità di invalidare le premesse da cui partono e, nel particolare ‘viaggio sentimentale’ che li accomuna, vedere come ciascuno finisca per negare a modo suo l’esistenza di un confine invalicabile alla propria esperienza”.
È iniziato il mondiale di Formula 1 e per tanti Alumni sono giorni molto intensi. Per i tifosi, naturalmente, per gli appassionati, ma ancora di più per quelli che ci lavorano. Abbiamo parlato con alcuni di loro e concordano su questo: uno degli aspetti più interessanti del lavoro in Formula 1 è il continuo rinnovarsi dei regolamenti e delle tecnologie.
“Creano sempre condizioni nuove, da analizzare e a cui adattarsi al meglio”, commenta Lucia Conconi. Secondo Francesca Gnani, per un progettista può essere uno dei massimi raggiungimenti professionali: “perché ti permette di azzardare e testare nel giro di pochissimo tempo idee nuove”. Per Alberto Taraborrelli, “la vita di un ingegnere è plasmata nel profondo dalla necessità di risolvere problemi e quando la maggior parte di essi viene risolta c’è il rischio di annoiarsi!”. “Io non ho la fortuna di vivere di persona l’atmosfera delle gare”, aggiunge Filippo Giussani, “ma essere sul divano di casa con amici o colleghi e sperare che il tuo lavoro abbia dato i suoi frutti ti tiene con il fiato sospeso: dopo un cambiamento radicale di regolamento, eravamo tutti ansiosi di vedere la macchina in gara”.
Sono stati giorni di grande attesa per tutti, in cui ci si aspetta di vedere i risultati di un anno di lavoro. “La preparazione è molto importante”, commenta Conconi, 51 anni, Alumna ingegneria aerospaziale. Ci racconta che ogni team di Formula 1 ha due anime: “l’anima concentrata sull’evento della pista e l’anima concentrata sullo sviluppo (e quindi un po’ nel medio termine). Nel mio team siamo un po’ l’una e un po’ l’altra e dobbiamo alternare il ritmo in modo armonico”.
Negli ultimi 18 anni, Conconi ha lavorato nel motorsport, nei settori di simulazione, prestazioni, dinamica del veicolo e sospensioni. Oggi è Head of Vehicle Performance in Alfa Romeo F1 Team ORLEN: “sono a capo del dipartimento di Prestazioni Veicolo”, spiega.
“Ci occupiamo di simulare e definire le caratteristiche principali della vettura per la fase di progettazione e sviluppo e di analizzare e ottimizzare le prestazioni quando la macchina è in pista”.
La parte più difficile del suo lavoro, confessa, è anche la più importante: “quando i risultati non sono come vorremmo, quando gli eventi e le richieste si susseguono velocemente, è cruciale mantenere il dipartimento motivato, concentrato sulle priorità, aiutare i colleghi ad affrontare i problemi con calma e metodo”. Logica e metodo arrivano dal Poli, insieme alle competenze tecniche: “Sono molto legata agli anni universitari, il Politecnico non è solo un’ottima scuola. Mi ha dato modo di coltivare la mia passione e imparare da professori eccezionali, nella tecnica, nel metodo di lavoro e nei consigli che ho trovato su come superare alcune difficoltà dal punto di vista umano”.
Giussani ha 32 anni, una laurea in ingegneria energetica e un dottorato in scienze ed energie energetiche e nucleari. “Da piccolo volevo fare lo scienziato. Forse questo è anche il motivo per cui ho deciso di fare il dottorato. Però mi sono reso conto che il mondo accademico non fa per me e ho dovuto rivedere i miei piani. Fortunatamente, il mio percorso accademico mi ha consentito di ampliare i miei orizzonti e interessi”.
Oggi ricopre il ruolo di Junior CFD software developer in Aston Martin Aramco Cognizant F1 Team: “sviluppo e mantengo il software con cui si fanno le simulazioni di aerodinamica della monoposto. Fortuna ha voluto che facessi qualcosa di simile durante il dottorato, applicato ai motori a combustione interna ed in particolare agli iniettori.” Ci spiega che il lavoro è diverso ogni giorno: “Un lavoro tecnico presenta sempre le sue difficoltà intrinseche, ma il dottorato mi ha dato il giusto mindset per affrontareproblemi mai visti prima”.
Tanto studio, quindi, tenacia e passione sono gli ingredienti per accedere a questo ambiente, insieme a curiosità e una buona comunicazione con il proprio team. “Ma a uno studente consiglierei di fare più esperienze di vita possibili. Lo studio è essenziale ma esistono altre capacità che si sviluppano solo uscendo dalla propria comfort zone”.
Anche Francesca Gnani in Formula 1 c’è arrivata da poco: “Ho iniziato da un mesetto come Programme Manager in Haas F1 Team per seguire lo sviluppo della macchina che andrà in gara l’anno prossimo. Sono entrata in un momento di fermento per la costruzione della macchina VF22 e per lo sviluppo tecnico dopo i test di Barcellona e Bahrain. Finora non c’è stato tempo né energia da dedicare alla macchina nuova ma cominceremo a breve”.
Il suo lavoro consiste nel gestire i piani di sviluppo dell’intero progetto, dall’emissione dei disegni dall’ufficio tecnico all’arrivo dei pezzi nei tempi stabiliti. 33 anni, Alumna in ingegneria aeronautica, approda in F1 dopo un dottorato di ricerca, un MBA e un’esperienza lavorativa in ambito gestionale.
“Il mio percorso ha preso talmente tante direzioni che convergere in F1 è stata più che altro una questione di fortuna”, racconta Francesca che, da bambina, sognava di fare la veterinaria. “Poi al Liceo la mia passione per la matematica mi ha portato a fare una scelta più “razionale”: avevo deciso che volevo diventare pilota di aereo e volevo iscrivermi all’Accademia Aeronautica. Non so ancora dire se per fortuna o per sfortuna, ma mi mancava un centimetro di altezza per entrare: come ripiego mi sono iscritta ad Ingegneria Aerospaziale. Ricordo il momento in cui dissi ai miei compagni di classe che mi ero iscritta al test di selezione del Poli. Una mia compagna commentò letteralmente: “sì… sogna…”. Sono parole che mi continuano a rimbombare in testa ogni volta che devo affrontare una nuova sfida, che puntualmente supero a testa alta”.
Gnani ci racconta un contesto professionale complesso, fatto di tecnica come di fattore umano, in cui occorre avere una visione a 360°: essere in grado di comprendere la natura e l’entità dei problemi e saper gestire le persone.
“Bisogna essere in grado di fare previsioni solide ma sufficientemente flessibili. Ci vogliono sicuramente un po’ di esperienza (che mi devo costruire) e un po’ di capacità innata”.
Francesca ci lascia con un ricordo del Poli: “La consegna a mano dell’ultimo elaborato di gruppo appena 1 minuto prima della scadenza in segreteria la Poli Bovisa. Il tutto dopo una notte di revisione/rilettura, corsa a stampare e rilegare le copie, e guida sportiva tra i viali di Milano verso il Poli con la macchina imbottigliata nel traffico e la fronte che gocciolava. Infine ultimo scatto di corsa uscendo dalla macchina ancora in movimento (guidava la mia compagna di elaborato) e salendo le scale antincendio di corsa per fare il tragitto più breve. Probabilmente, nella mia memoria questo ricordo è stato rielaborato un po’ in stile Hollywoodiano, ma la mia percezione fu proprio quella”.
Taraborrelli ha 30 anni e ha sempre sognato di lavorare in Formula 1. Si è laureato in ingegneria meccanica a indirizzo meccatronica e robotica e del Poli il ricordo più bello è quello del Dynamis PRC, team di Formula Student del Politecnico di Milano.
“Sono entrato nel team alla fine del 1° anno come motorista. Eravamo in 12. Quando sono andato via, dopo la laurea, eravamo in 80. Nell’ultimo anno sono stato direttore tecnico del team che ha costruito la DP8, la macchina portata in gara nei successivi due anni. È grazie alla Formula Student che mi sono appassionato all’elettronica, che ha indirizzato tutte le mie scelte successive. È un’esperienza che consiglio a tutti gli studenti”.
Taraborrelli oggi è Trackside Control Systems Engineer in Alpine F1 Team: si occupa del software a bordo della vettura che gestisce cambio, frizione, freni, differenziale, DRS e volante. Vive in Inghilterra, Brackley, ma nei periodi più intensi viaggia in continuazione per seguire la scuderia. “Questi giorni a ridosso dell’inizio del mondiale sono tra i più duri e difficili dell’anno”, racconta, “specialmente perché le macchine sono così diverse e quindi così sconosciute, il lavoro per comprendere i tratti caratteristici e le risposte alle modifiche è davvero tanto intenso”.
Alberto Taraborrelli
Il cambio regolamentare, spiega, è fondamentale per poter dare l’opportunità di mischiare le carte, con la prospettiva che outsiders della griglia possano trovare una quadra che i top team non hanno necessariamente trovato, ma è anche vero che può causare problemi imprevisti: “non è semplice gestire la pressione nei momenti concitati, quando c’è poco tempo per risolvere un problema che alle volte non hai la piena certezza di sapere da cosa sia causato. Il weekend di gara si vive con tensione, ma anche sempre con positività. In ogni occasione è fondamentale prendere il meglio dal peggio e cercare di voltare a tuo favore le situazioni sfavorevoli. Mai scoraggiarsi!”
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