Sono 10 i team di Formula 1 equipaggiati con sistemi frenanti e frizioni Brembo: “Nel mondo racing è ancora la sostanza a fare da padrona”, commenta Algeri. “Una storia iniziata quasi 50 anni fa, nel 1975, dai primi freni in ghisa”, storia che oggi è più che una sfida: è una rivoluzione totale, come l’ingegnere definisce il nuovo cambio di regolamento. Che non è il certamente il primo. Rivoluzioni che hanno ripercussioni a cascata sulla vita di tutti, perché il motorsport è il più grande campo di sperimentazione dell’automotive, un laboratorio collettivo e un luogo dove serve, oltre alla competenza, anche un esercizio di fantasia, di visione:
“Siamo leggermente più avanti di quanto possiate pensare. Cerchiamo di immaginare il futuro e come sarà. Adesso è l’elettrico, il recupero di energia è al centro dell’attenzione dei nostri tecnici e progettisti”.
Brembo, azienda leader nel mondo del MotorsportPinza freno Brembo per DucatiCredits: Gazzetta Motori
L’immaginazione accomuna tutti gli Alumni che lavorano in Formula 1: come Lucia Conconi, Alumna Ingegneria Aerospaziale e Head of Vehicle Performance in Alfa Romeo F1 Team ORLEN, che alla redazione Alumni ha raccontato la doppia anima, quella in laboratorio e quella in pista, di ogni team F1; o Alberto Taraborrelli, Trackside Control Systems Engineer in Alpine F1 Team, che ci ha raccontato i giorni a ridosso dell’inizio del mondiale: “sono tra i più duri e difficili dell’anno, specialmente perché le macchine sono così diverse e quindi così sconosciute”. Taraborrelli ha sempre sognato di lavorare in Formula 1. Si è laureato in Ingegneria Meccanica a indirizzo meccatronica e robotica e, del Poli, il ricordo più bello è quello del Dynamis PRC, team di Formula Student del Politecnico di Milano.
Nature Photonics ha pubblicato uno studio frutto di una collaborazione tra Politecnico di Milano, CNR e Università di Vienna, dedicandogli anche la copertina del numero di aprile della rivista. Non capita tutti i giorni: e in effetti è stata fatta una cosa mai fatta prima. I giornali ne stanno parlando come del primo “neurone artificiale quantistico” (per esempio ne parlano Ansa e RaiNews). Promette di diventare l’anello mancante per collegare quantum computing e intelligenza artificiale. Perché è così importante? A cosa può servire?
L’abbiamo chiesto a Andrea Crespi, ricercatore del Politecnico di Milano e Alumnus PhD in ingegneria Fisica, parte del team che l’ha messo a punto.
LO STATO DELL’ARTE FINO A OGGI
Alcune tra le reti neurali “classiche” più efficienti, su cui si basano i moderni algoritmi di intelligenza artificiale, sono composte da connessioni tra “neuroni artificiali” chiamati memristor (memory-resistor). Si tratta di componenti elettronici che cambiano la loro resistenza elettrica sulla base di una memoria della corrente che li ha attraversati in precedenza. Le reti neurali artificiali possono essere “educate” all’apprendimento grazie a questa proprietà: è così che imparano a svolgere compiti complessi, quali comprendere un discorso, riconoscere un volto, interpretare immagini (ad esempio a scopi diagnostici) o guidare un’automobile (anche da corsa: lo fa la squadra Polimove, che programma l’auto a guida autonoma più veloce al mondo). È la tecnologia alla base dell’intelligenza artificiale.
POI ARRIVA IL QUANTUM COMPUTING
Fin qui, abbiamo parlato di dispositivi elettronici. Nel frattempo, però, il mondo scientifico ha sviluppato anche una nuova generazione di informatica, il quantum computing. La differenza fondamentale è che, invece di utilizzare impulsi elettronici, la computazione quantistica sfrutta singole particelle per codificare l’informazione. Ad esempio, impulsi ottici costituiti da singoli fotoni, che hanno un comportamento diverso da quello della corrente elettrica. Ne risulta un potere di calcolo potenzialmente assai superiore a quello dei maggiori supercomputer “classici” (cioè elettronici).
Siccome il vantaggio del quantum computing aumenta proporzionalmente al numero delle operazioni da effettuare, è particolarmente efficiente nel caso di alcuni problemi che richiederebbero, a un dispositivo elettronico, un altissimo numero di operazioni (e quindi ti tempo ed energia) per essere risolti. Esempi di applicazione si trovano per esempio in crittografia, negli algoritmi di ricerca e nelle simulazioni di sistemi fisici.
L’ANELLO MANCANTE
I computer quantistici non sono una novità, tuttavia ancora oggi una vera e propria una rete neurale quantistica non è ancora stata realizzata. Mancava, infatti, un fondamentale anello mancante: il quantum memristor, il neurone artificiale quantistico. “L’idea esiste da alcuni anni, ma solo recentemente un gruppo di fisici dell’Università di Vienna ha dimostrato che si poteva fare”, commenta Crespi. Il suo gruppo di ricerca, guidato dal prof. Roberto Osellame, ha progettato e ingegnerizzato il primo vero e proprio prototipo di quantum memristor, un dispositivo ottico con le stesse caratteristiche funzionali del memristor, capace di operare su stati quantistici della luce:
“L’informazione non è più codificata in un segnale elettronico, come nel memristor classico. Quello che varia è invece la trasmissione ottica, cioè la quantità di luce che può passare attraverso il device, in funzione qui quella che ci è passata prima”.
Un oggetto del genere era stato fino ad oggi soltanto teorizzato. Quello realizzato dal Politecnico è quindi il primo prototipo di memristor quantistico: forse, il primo “neurone” di una rete neurale artificiale quantistica.
10 anni sui social sono tanti, e quello che abbiamo notato durante questo tempo insieme a voi Alumni è che niente (niente!) vi scatena in positivo e in negativo – ma soprattutto in positivo! – come un bel viaggio nei ricordi politecnici.
Così abbiamo deciso di appuntarci luoghi e situazioni che solleticano la vostra nostalgia, e il risultato è stato un elenco lunghissimo. Dopo un’accurata selezione, siamo arrivati a stilare un decalogo delle “10 cose che ti mancano del Poli”. Sicuramente ce ne sono di più, sicuramente alcune ce le siamo dimenticate o non hanno raggiunto la top 10: in questo caso, scrivetecelo nei commenti! Chissà, magari riusciremo a scrivere la puntata 2…
Siete pronti? Iniziamo!
1. La piscina di via Ponzio
Chi aveva lezione o esami al Trifoglio d’estate sapeva che il suo spirito sarebbe stato messo alla prova non solo dallo studio, ma anche dall’eco dei tuffi provenienti dalle finestre aperte. Una cosa è certa: ne siete usciti temprati sia fisicamente che moralmente.
Blu, rosso e giallo sono i colori che vengono in mente quando si parla di Bovisa, ma – per i più giovani – anche i tantissimi murales che l’hanno trasformata in un vero e proprio museo a cielo aperto.
3. Le nottate di studio al patio di architettura
Eterno melting pot di facoltà da mattina a sera, dove affrontare sessioni di studio matto e disperatissimo e dove confrontarsi.
I progetti vincitori dell’edizione 2020 di Polisocial sono partiti la scorsa primavera, quando le energie dell’Ateneo erano in particolar modo tese a sostenere il contesto sociale in un momento ancora molto delicato dal punto di vista dell’emergenza pandemica. Il Politecnico ha voluto valorizzare gli sforzi dei gruppi di ricerca, dedicando 500 mila euro (donazioni 5 per mille del 2018) al tema «Vulnerabilità e Innovazione», che pone attenzione ai contesti di fragilità sanitaria e alle conseguenze sociali che si portano dietro.
Risparmiare acqua e portare tecniche produttive dove non ci sono
Il progetto di Hands, finanziato con le donazioni del 5 per mille, trasaferisce le competenze politecniche in Mozambico.
Dipartimenti: DASTU, DCMC, DABC, DENG, DICA Tag: salute, spazio urbano, slum upgrading Contesto: Maputo, Mozambico Partner: AICS Mozambico, AVSI, Architetti Senza Frontiere Italia e Spagna, Universidade Eduardo Mondlane.
Credits: Polisocial
La recente pandemia ha evidenziato la vulnerabilità della popolazione che vive nel quartiere di Chamanculo a Maputo, vulnerabilità che tuttavia era preesistente, a causa della mancanza di servizi sanitari, dell’inadeguatezza dell’infrastruttura urbana come strade e spazi pubblici), del sovraffollamento e dell’inadeguatezza nella gestione dei rifiuti.
I ricercatori del Politecnico, con il progetto HANDS, hanno attivato un “Laboratorio Sociale” dedicato alla produzione di Polichina, il liquido igienizzante Made in Politecnico. Oltre all’immediata utilità pratica, questa iniziativa ha anche lo scopo di trasferire conoscenze e competenze agli attori locali, per una migliore gestione dei rifiuti e per un modello di produzione energetica adatto sia alla scala urbana che a quella domestica.
«Immaginiamo un sistema automatizzato poco più grande di una macchinetta da caffè», spiega l’Alumnus e ricercatore Mattia Sponchioni, «a questo colleghiamo quattro serbatoi diversi contenenti gli elementi per produrre la Polichina: acqua, etanolo, acqua ossigenata e glicerolo. Si imposta una precisa quantità e il sistema la produce”. Il prototipo sarà testato in alcuni punti nevralgici di Chamanculo come scuole, piazze, mercati: stazioni di rifornimento quindi da integrare con un sistema di gestione intelligente dei rifiuti generatisi in seguito all’emergenza sanitaria, come mascherine e dispenser di liquido igienizzante.
Nel “Laboratorio Sociale” si sperimenteranno inoltre metodi di produzione di energia elettrica per l’alimentazione dei distributori di Polichina e per l’approvvigionamento locale delle materie prime da fonti rinnovabili in situ. In questa particolare situazione, l’uso di Polichina ha un impatto positivo anche in termini di risparmio di acqua. «Riduciamo il consumo dalla scala dei litri a quella dei millilitri», commenta Sponchioni, «nel lavaggio delle mani si consumano litri di acqua potabile, con la Polichina basta una nebulizzazione di pochi millilitri, andando a risparmiare oltre il 95% di acqua che, soprattutto nei luoghi più degradati e dove c’è il pericolo di altre patologie come la tubercolosi, scarseggia».
Si può collegare tanti pazienti allo stesso respiratore?
Con i comuni ventilatori, è un azzardo. Il Poli ha progettato MakingMEV, un ventilatore multiplo, per la ventilazione assistita di 10 pazienti contemporaneamente.
Dipartimenti: DEIB, DMEC, DIG Tag: ventilazione respiratoria, supporto emergenziale, innovazione clinica Partner: Alberto Zanella, anestesista e rianimatore presso Fondazione IRCCS Ca’ Granda – Ospedale Maggiore Policlinico (Milano) e ricercatore presso il Dipartimento di Fisiopatologia Medico-Chirurgica e dei Trapianti, Università degli Studi di Milano
Photo by Adhy Savala on Unsplash
Il sistema MEV (Multiple Emergency Ventilator) è una rivisitazione del supporto emergenziale alla ventilazione respiratoria: un ventilatore in grado di supportare la respirazione di fino a 10 pazienti contemporaneamente, intrinsecamente sicuro e personalizzato per ciascun paziente.
Il suo cuore è una miscela di ossigeno a pressione inspiratoria massima intrinsecamente sicura (Ppeak), per prevenire il danno da ventilazione meccanica. La ventilazione è fornita un massimo di 10 pazienti, assistiti in modo personalizzato riguardo al volume controllato e alle durate inspiratorie ed espiratorie. Il sistema meccanico è composto da una campana rovesciata con tenuta ad acqua, che fissa il Ppeak in base al principio di Archimede. La campana, in acciaio inox, del diametro di 50 cm e con una altezza di 60/70 cm, è inserita all’interno di un cilindro, che grazie all’intercapedine d’acqua mantiene l’ossigeno alla pressione desiderata. Il gas è distribuito ai pazienti intubati mediante semplici tubi di acciaio inox da 2” facilmente montabili, autoportanti e modulari per poter essere adattati a diversi ambienti come triage, ospedali da campo, ospedali normali. L’intero sistema di distribuzione è compatibile con alte concentrazioni di ossigeno.
L’unico “pezzo speciale” nel progetto del MEV è la campana. Per la linea comune è composto da elementi di utilizzo industriale, mentre gli stacchi inspiratori ad ogni paziente e la linea espiratoria sono mutuati dai comuni ventilatori. Tutte le parti meccaniche possono essere conservate in magazzino per un tempo indefinito e sanificate per essere usate subito nel momento del bisogno, al contrario dei ventilatori tradizionali che, se conservati troppo a lungo, prima dell’uso hanno bisogno di una manutenzione che può durare fino a un mese: specialmente in momenti di emergenza su larga scala, come quella occorsa nel corso della pandemia di Coronavirus. MEV potrebbe quindi evitare il congestionamento delle aziende di manutenzione e provvedere all’intubazione di emergenza di un alto numero di pazienti contemporaneamente.
“L’idea è nata durante l’onda pandemica italiana di inizio 2020”, spiega l’Alumnus, e ricercatore del Politecnico di Milano, Beniamino Fiore. Tuttavia, in un panorama di più ampio respiro, si prevede un beneficio per situazioni emergenziali in generale, e per i sistemi sanitari meno organizzati di Paesi in via di sviluppo”, e aggiunge “MakingMEV è stata la nostra risposta all’emergenza, il nostro modo di dire: facciamo qualcosa di concreto!”.
Dal Poli nuove tecnologie per la sicurezza del supporto respiratorio
Il progetto SAFER, finanziato con le vostre donazioni del 5 per mille, sviluppa un respiratore portatile e poco costoso per contesti a basso e medio reddito.
Dipartimenti: DEIB, DMEC, DCMC Tag: tecnologie respiratorie, emergenze, aree a scarsità di risorse Contesto: Vietnam, Africa Occidentale, Italia Partner: MTTS Asia (impresa sociale); ONG Day One Health; Società Italiana di Neonatologia; CUAMM ONG; ASST Bergamo – Dipartimento di Pneumologia; altri professionisti medici
credits: Polisocial
Nei paesi a basso e medio reddito, la mancanza di ossigeno e ventilatori per l’assistenza respiratoria causava migliaia di morti all’anno anche in tempi pre-pandemia, con patologie come polmonite infantile, distress respiratorio neonatale, emorragia postpartum e lesioni traumatiche – che sarebbero prevenibili con una disponibilità diffusa ed equa di risorse di supporto respiratorio. Il progetto SAFER, iniziato la scorsa primavera, mira a sviluppare un dispositivo respiratorio personale, semplice, robusto, portatile e poco costoso (una semplice interfaccia utente che include un monitor della saturazione di ossigeno) per la somministrazione di supporto respiratorio al di fuori delle unità di terapia intensiva, soprattutto in situazioni a risorse limitate. Il gruppo di ricerca ha progettato il dispositivo integrando i sottosistemi e ottimizzando l’efficienza della compressione dell’aria, rendendo il dispositivo robusto ed in grado di operare anche in condizioni non ideali.
Al vaglio, nuove tecnologie di produzione e materiali innovativi, come pezzi di ricambio dei materiali di consumo stampati in 3D, che facilitano la loro fornitura durante le emergenze e nei paesi a basso e medio reddito, oltre a sistemi di controllo intelligente che adattino la produzione di ossigeno alle necessità del paziente, sincronizzando l’erogazione di ossigeno alla respirazione del paziente. Tale soluzione potrebbe essere infatti utilizzata nella terapia domiciliare anche in contesti più vicini al nostro, per esempio nel caso di pazienti con malattie respiratorie croniche o lievi, risparmiando le risorse di terapia intensiva per i pazienti gravi, alleviando la pressione sui centri di terapia intensiva. In contesti con poche risorse, l’adozione della tecnologia proposta e delle competenze acquisite con il programma di capacity building ridurrà la mortalità associata a malattie respiratorie acute, anche in tempi ordinari, riducendo le morti prevenibili.
Un’idea semplice per combattere la mortalità post parto delle madri
Balloon Against Maternal BleedIng, nome in codice “BAMBI”: finanziato con le vostre donazioni del 5 per mille.
Dipartimenti: DCMC, DMEC, DESIGN Tag: emorragia post-partum, accesso alle cure, tecnica CBT Contesto: Africa Centrale, Sud America, Sudest Asiatico Partner: Dr. Alberto Zanini; CUAMM – Medici con l’Africa; Soleterre Onlus
credits: Polisocial
L’emorragia post-partum (EEP) è un’emergenza ostetrica globale: è la principale causa di mortalità materna al mondo. Dei circa 140.000 decessi per EPP annuali, il 99% avviene nei paesi in via di sviluppo, con costi sociali devastanti per comunità già fragili a causa di condizioni economiche precarie. Nei casi più gravi di EEP si può giungere a perdite di mezzo litro di sangue al minuto arrivando, nel giro di pochi minuti, alla morte della paziente. In paesi in cui i parti avvengono per lo più in ambito domestico, senza la presenza di un medico, ed è spesso difficile (se non impossibile) raggiungere in tempo un ospedale in caso di EPP. Mentre lo standard di riferimento per la gestione della EPP nei paesi industrializzati è il dispositivo Bakri®, a causa del suo elevatissimo costo non si presta ad applicazioni su larga scala nei paesi in via di sviluppo. Obiettivo principale del progetto BAMBI è realizzare un nuovo dispositivo in grado di eseguire una corretta ed efficace gestione della EPP con un costo inferiore ai 5 dollari per unità.
Il dispositivo deve essere facile e intuitivo per essere usato, nei casi più estremi, anche senza il supporto di personale medico o in ospedali da campo. Dopo la realizzazione del primo prototipo, grazie ai finanziamenti ricevuti tramite donazione del 5 per mille, nel 2021 i ricercatori si sono concentrati sulla risoluzione di alcuni problemi tecnici legati alla disponibilità dei materiali, alle modalità di assemblaggio dei vari componenti e all’impossibilità di eseguire l’operazione in ambiente sterile. È in corso di avvio l’iter di validazione e di sperimentazione sul campo.
Città e Case della Salute per Comunità resilienti
Mettiamo a terra il progetto per una sanità territoriale. Un progetto di ricerca finanziato con le donazioni del 5 per mille.
Dipartimenti: DASTU, DABC, DIG, DESIGN, DMEC Tag: assistenza socio-sanitaria, cultura della salute, innovazione urbana Contesto: Piacenza, Italia Partner: Azienda USL di Piacenza; Comune di Piacenza; Comitato Consultivo Misto delle Associazioni; Regione Emilia-Romagna; Associazione Diabetici Piacenza; Comitato Sportivo Italiano (CSI) – Comitato Territoriale di Piacenza
Credits: Polisocial
L’emergenza legata alla diffusione dei contagi da Covid-19 ha evidenziato le vulnerabilità del nostro sistema sanitario nazionale, con le sue strutture entrate rapidamente in sofferenza per la debole risposta dei servizi territoriali. Proprio al potenziamento della rete sul territorio, attraverso il ruolo centrale delle Case della Salute della Comunità (CdS), anche definiti Centri Socio Sanitari Territoriali, è rivolto il progetto di ricerca Coltivare_Salute.com. Un progetto multidisciplinare che affianca alle competenze mediche dell’Azienda USL di Piacenza e a quelle di altri partner istituzionali e del volontariato, quelle dell’architettura, dell’ingegneria gestionale e del design della comunicazione.
«Già prima della pandemia», spiega la ricercatrice Maddalena Buffoli, «avevamo condotto lavori di ricerca e visitato alcune Case della Salute di eccellenza, anche in contesto europeo, che rappresentavano un punto di riferimento per l’assistenza sul territorio. Tali strutture hanno l’obiettivo di essere un riferimento per il cittadino per tutte quelle patologie o quegli eventi meno gravi che non richiedevano un’emergenza da gestire in ospedale: poliambulatori, centri prelievi, servizi di prevenzione, raggruppamenti di medici di base, diagnostica di base, pronto soccorso per codici minori, ambienti adatti alle procedure per le cronicità».
La salute è intesa come benessere psicofisico delle persone e pertanto le Case della Salute affiancano al ruolo sanitario anche quello sociosanitario e sociale, puntando alla presa in carico completa della persona con le sue problematiche in un’idea integrata di assistenza di prossimità. L’obiettivo della ricerca è definire le Linee Guida progettuali, organizzative, comunicative e di localizzazione delle Case della Salute post-Covid, in particolare in ambito urbano: non più solo centri di erogazione di servizi sanitari ma occasioni di rigenerazione urbana, sociale, architettonica e ambientale dove “coltivare salute” nei quartieri. Per valorizzarne la funzione territoriale, la ricerca ha attivato un tavolo di coprogettazione con l’Azienda USL della città di Piacenza, sede di uno dei poli territoriali dell’Ateneo, che prevede la realizzazione di una nuova struttura, la quale costituirà una condizione di sperimentazione operativa e metodologica di un progetto applicabile a tutte le Case della Salute per la Comunità sul territorio nazionale.
Il Politecnico di Milano ha ottenuto dalla Commissione europea due importanti finanziamenti per due progetti di ricerca: uno per la lotta al tumore al seno e l’altro per quella al cambiamento climatico.
Si tratta di due ERC Advanced Grant 2021, finanziamenti assegnati dallo European Research Council (ERC) a ricercatori affermati nel loro settore, per portare avanti progetti innovativi e ad alto rischio. La selezione per questo tipo di finanziamenti è molto competitiva: quest’anno, su 1735 progetti presentati, solo il 14,6% ha ottenuto i fondi. Con questi due progetti, il Politecnico di Milano ha ottenuto in totale 86 Individual Grant Europei (tra ERC e Marie Curie).
SUPERCOMPUTER CHE CONSUMANO 5000 VOLTE MENO ENERGIA
Daniele Ielmini, docente presso il Dipartimento di Elettronica, Informazione e Bioingegneria, condurrà ANIMATE (ANalogue In-Memory computing with Advanced device Technology), un progetto che mira a realizzare un nuovo concetto di calcolo per ridurre il consumo energetico nel machine learning. Quando usiamo il computer non ci pensiamo, ma il costo energetico delle azioni che compiamo su internet, a partire da quelle quotidiane, è molto alto. I data center, che oggi soddisfano gran parte del fabbisogno mondiale di intelligenza artificiale, consumano oggi circa l’1% della domanda energetica globale, con una crescita prevista fino al 7% nel 2030.
Operazioni apparentemente semplici, come la ricerca di un prodotto o un servizio di largo consumo (ad esempio quando prenotiamo le vacanze o scegliamo un film in streaming) si basano su algoritmi ad alta intensità di dati e hanno un impatto importante sulla produzione di gas serra: è stato stimato che il training di una rete neurale convenzionale per l’intelligenza artificiale produce la stessa anidride carbonica di 5 auto nel loro ciclo di utilizzo completo.
La ricerca preliminare di ANIMATE del professor Ielmini ha dimostrato che il fabbisogno energetico di calcolo può essere ridotto mediante il closed-loop in-memory computing CL-IMC (calcolo in memoria ad anello chiuso) in grado di risolvere problemi di algebra lineare in un solo passaggio computazionale. In CL-IMC il tempo per risolvere un determinato problema non aumenta con la dimensione del problema, a differenza di altri concetti di calcolo, come i computer digitali e quantistici. Grazie alla riduzione del tempo di calcolo, CL-IMC richiede 5.000 volte meno energia rispetto ai computer digitali a pari precisione in termini di numero di bit. Il progetto di Ielmini svilupperà la tecnologia del dispositivo e dei circuiti, le architetture di sistema e l’insieme di applicazioni per validare completamente il concetto di CL-IMC.
CONTRO IL TUMORE AL SENO, UN PROTOCOLLO PER NEUTRALIZZARNE LA BARRIERA NATURALE
Manuela Raimondi, docente del Dipartimento di Chimica, Materiali e Ingegneria Chimica “Giulio Natta”, combina meccanobiologia, bioingegneria, oncologia, genetica, microtecnologia, biofisica e farmacologia al fine di sviluppare nuovo metodo per la cura del tumore al seno.
In questo tipo di malattia, infatti, l’aggressività è correlata all’irrigidimento fibrotico del tessuto tumorale. La fibrosi impedisce progressivamente ai farmaci di raggiungere le cellule tumorali, a causa della formazione di una matrice con proprietà meccaniche che stabilizzano la rete vascolare del tumore. Raimondi sta sviluppando una piattaforma in grado di ricapitolare la fibrosi tumorale sfruttando la vascolarizzazione di un organismo vivente.
Il progetto si chiama BEACONSANDEGG (Mechanobiology of cancer progression): modellizzerà dei microtumori a vari livelli di fibrosi aggirando il fatto alcune caratteristiche del tumore non sono riproducibili in vitro. Verranno utilizzate delle cellule di cancro al seno umane fatte aderire a microsupporti polimerici 3D. I microtumori verranno impiantati in vivo nella membrana respiratoria di uova aviarie embrionate, al fine di suscitare una reazione fibrotica da corpo estraneo nei microtumori. Verrà variata la geometria dei microsupporti 3D per condizionare l’infiltrazione dei microtumori da parte dei vasi e delle cellule dell’embrione. Questo modello di studio verrà validato con farmaci antitumorali il cui risultato clinico è noto dipendere dal livello di fibrosi tumorale.
Il lavoro fornirà inoltre una piattaforma standardizzabile ed etica per promuovere la traslazione clinica di nuovi prodotti terapeutici in oncologia. Questo è un tema chiave per Raimondi: alcuni degli strumenti di ricerca e modellizzazione che ha sviluppato negli ultimi dieci anni hanno proprio questo obiettivo: ridurre drasticamente o sostituire le fasi di sperimentazione pre-clinica in vivo, per esempio, con l’uso di supporti 3D per colture cellulari e camere microfluidiche per la cultura di tessuti e organoidi (ne abbiamo parlato nel numero 6 di MAP).
Quest’“opera architettonico-ingegneristica delicatissima” ha anche un forte valore simbolico ed è frutto di un accordo stipulato lo scorso ottobre fra le comunità cristiane storicamente guardiane dei luoghi santi. I lavori di restauro hanno una durata prevista di circa 2 anni e coinvolgono un pool di università internazionali, in cuil’Italia ha un ruolo chiave di coordinamento. Sul campo, insieme ai ricercatori del Politecnico di Milano, anche l’Università La Sapienza di Roma, la IG di Torino e la Manens di Padova. Il coordinamento del progetto di restauro è in mano al Centro Conservazione e Restauro La Venaria Reale di Torino.
Il nostro Ateneo ha creato le linee guida per la modellazione e la condivisione dati del progetto di conservazione. Durante la fase di rilievo fotogrammetrico, inoltre, i nostri ricercatori hanno acquisito oltre 50.000 immagini ad alta risoluzione con un sistema rilevamento Heritage-BIM progettato ad hoc. Lo spiega il prof. Luigi Fregonese, docente presso la Scuola di Architettura Urbanistica Ingegneria delle Costruzioni del Politecnico di Milano, Polo Territoriale di Mantova:
“È costituito da uno speciale carrello sul quale è stato ingegnerizzato un articolato sistema di illuminazione e acquisizione, ad intensità e colorazione controllata. Il tutto ha visto l’integrazione di un rilievo topografico per l’elaborazione e la verifica del risultato finale, un’immagine digitale, un’ortofoto, ad altissima risoluzione, metricamente affidabile e precisa, dell’intero pavimento della Basilica del Santo Sepolcro”.
Al Politecnico di Milano ci sono diversi gruppi che lavorano alla conservazione di beni culturali e alla valorizzazione di questo patrimonio comune. È storica la collaborazione dell’ateneo con la Veneranda Fabbrica del Duomo, che coinvolge ricercatori da tutti i dipartimenti e che ha un duplice obiettivo: da un lato, razionalizzare e perfezionare la conservazione e il restauro della nostra cattedrale; dall’altro, sfruttare un prezioso cantiere-laboratorio in cui i nostri studenti e ricercatori possono fare ricerca sul campo e confrontarsi con problemi reali usando tecnologie d’avanguardia.
Un altro esempio è il nuovo laboratorio LaBora, dove, grazie a tecnologie come Il Tavolo Ologrammi e il Teatro Virtuale, è possibilevedere in modo del tutto inedito il complesso di Santa Maria delle Grazie: “174 scansioni, una nuvola di punti da 30 giga”, spiega la prof Cecilia Maria Bolognesi, docente di Rappresentazione e Modellazione del Dipartimento di Architettura, Ingegneria delle Costruzioni ed Ambiente costruito: “Dal Tavolo è possibile visitare virtualmente tutto il complesso, dentro e fuori dalla chiesa, entrare nei chiostri, nella sacrestia del Bramante, osservare lo stato di degrado come la bellezza di queste volte”, con un livello di dettaglio impossibile anche di persona, con definizioni fino a 5 mm.
Alla fine del liceo scientifico, a Cesena, Marco Casadei giocava a calcetto e a scacchi. Al momento di scegliere l’università, ha deciso di studiare ingegneria Aerospaziale al Poli. Si è laureato lo scorso settembre e oggi muove i primi passi nel mondo del lavoro. “Un ambito che mi è sempre interessato è quello della reliability & safety, della valutazione del rischio. Mi interessa anche il mondo operation, quindi di project management oppure planning di produzione, supply chain”.
Un altro dei suoi piani per il futuro include la possibilità di creare un’associazione di ingegneri e laureati in materie tecniche non vedenti in Italia. Infatti, Marco è ipovedente: soffre di glaucoma congenito bilaterale, una malattia che colpisce il nervo ottico. Nel corso degli anni si è sottoposto a una trentina di interventi per provare ad arginare questa malattia, anche durante il percorso universitario.
“Due o tre volte ho dovuto interrompere per qualche mese gli studi per sottopormi ad interventi necessari. A cavallo del secondo anno ho avuto un crollo della vista: è passata da circa 1/20, soglia dei cosiddetti “ventesimisti”, cioè gli ipovedenti gravi, al visus attuale, difficilmente misurabile con precisione. Ho dovuto rimparare a studiare praticamente da zero”
ci racconta.
Il glaucoma è una delle prime cause di cecità in Italia. Di solito insorge in tarda età; quando invece è congenito, se preso in tempo e tenuto sotto controllo, può permettere di arrivare anche fino a sessant’anni con un residuo di vista. È il caso di Marco. Ma cosa significa “un residuo di vista”?
UN CENTESIMO DI VISUS
Sentiamo spesso parlare di diottrie, ma, nel caso degli ipovedenti, il problema riguarda l’acutezza visiva (detta “visus”). La visione ideale teorica è misurata in 10/10 di acutezza visiva. Si definisce ipovedente una persona la cui acutezza visiva è misurabile in meno di 1/10: “La diottria è una questione geometrica del punto di messa a fuoco dell’occhio”, spiega Marco, “per il quale basta una lente per correggere. L’ipovisione è invece una perdita di acutezza visiva, visus appunto. È definita come la capacità di vedere distinti 2 punti più o meno vicini ma non sovrapposti, ed è questa che si misura in decimi, 10/10 la vista ottimale. Ovviamente in questo caso non è sufficiente un occhiale. Le due cose poi possono coesistere: io ad esempio oggi ho un residuo di vista, misurabile tra il cinquantesimo e il centesimo di visus. Inoltre mi mancano qualcosa come 7,5 diottrie (mi pare!), ed è il motivo per cui giro con due fondi di bottiglia come occhiali!”
Il visus varia molto a seconda dello sfondo, delle condizioni della luce, del contrasto tra gli oggetti e da tante altre variabili che lo condizionano. “Nel concreto, non riconosco i volti, vedo le sagome solo quando sono molto vicine a me, non vedo né cartelli né semafori (quest’ultimi di notte in realtà li vedo ancora, per il discorso di sfondo e contrasto). È difficile rendere davvero l’idea di cosa significhi, anche perché il cervello, se si trova in contesti familiari, completa le immagini con gli elementi che mancano: se mi incontraste su un percorso che faccio tutti i giorni, se non fosse per il bastone bianco con cui vado in giro, potreste non accorgervi della mia ipovisione; ma, se sul marciapiede è stato montato un palo nuovo, è quasi certo che lo piglio in pieno! Una volta, salendo di corsa su un treno suburbano, sono finito per metà dentro a uno di quei tombini vicino alla linea gialla delle banchine: gli operai che ci stavano lavorando avevano pensato bene di spostarsi per far salire meglio la gente sul treno in arrivo, senza proteggerlo in qualche modo, pensando che tanto dai, per 30 secondi, mica passerà un cieco proprio ora…”.
Oltre alla ridotta acutezza, il glaucoma causa anche una drastica riduzione del campo visivo. “Il mio ha un’ampiezza di circa il 3-4% di un campo visivo perfettamente funzionante. Per intenderci, è più o meno come spiare il mondo dal buco di una serratura. Ma, per fortuna, a differenza del restare chiusi dietro a una porta, tutti gli altri sensi lavorano normalmente e l’essere umano ha molte capacità d’adattamento, soprattutto nell’infanzia. Ci sono mille piccoli stratagemmi, strategie alternative, soluzioni possibili, facili o persino banali per sopperire a molte delle limitazioni dovute al nostro piccolo buco di serratura. Altre difficoltà derivano dal fatto che lo stesso campo visivo non è omogeneo, si comporta come un vetro sporco. A volte pensi di avere un quadro della situazione e improvvisamente ti accorgi di cose che ti sorprendono”.
L’ESAME PIÙ DURO PER UN NON VEDENTE: MECCANICA STRUTTURALE
Studiare non è sempre facile, soprattutto nel caso di materie tecniche e scientifiche. Marco è il primo ipovedente laureato in ingegneria Aerospaziale in Italia. “Al momento di scegliere l’università ho dovuto combattere, perché mi veniva detto che per me ingegneria era assolutamente impossibile. Quando io insistevo, dicevano: “Ok, allora ingegneria informatica”, perché era l’unica considerata possibile per un non vedente.
E invece no, volevo fare quello che realmente mi piaceva. Il Politecnico mi ha aiutato molto. A lezione mi avvalevo di uno strumento detto video-ingranditore: è come una telecamera che riprende la lavagna e la restituisce ingrandita sul portatile.
A casa invece ho un video ingranditore da tavolo, che ingrandisce libri e quaderni. Compagni di corso e risorse di supporto logistico fornite dal Poli mi hanno aiutato a portare a termine il percorso. In certi casi è stato più duro che in altri. Al Poli ci sono esami in cui serve avere visione di insieme. Per esempio quello di meccanica strutturale: non avere il colpo d’occhio sui progetti e sugli schemi mi costringe a guardare ogni singolo angolo del foglio e mandarlo a memoria. In questo mi ha molto aiutato il fatto di giocare a scacchi fin da piccolo”. Marco ha fondato nel 2014 l’associazione studentesca Scacchi Polimi, che da allora ha organizzato tornei, corsi, conferenze e partecipa a competizioni a squadre.
I titolari della squadra Scacchi PolimiIBCA Olympiad 2021Courtesy of Marco Casadei
NON PUOI IMITARE CIÒ CHE NON VEDI
A parte gli studi, ci sono diversi modi in cui l’ipovisione ha influenzato la vita universitaria di Marco. “Il Politecnico è molto inclusivo, ho avuto tutto il supporto di cui potevo disporre. Per esempio, mi è stato offerto un servizio di accompagnamento: uno studente mi veniva a prendere alla fermata del passante in Bovisa e mi accompagnava alle aule. Mi è servito durante il primo semestre, poi, una volta imparati i percorsi, sono diventato autonomo”, racconta.
“Uno di questi studenti, Filippo, è tuttora uno dei miei migliori amici milanesi. Nei primi mesi mi ha aiutato tantissimo anche ad ambientarmi in città, presentandomi a tutti i suoi amici del Poli e non, aiutandomi soprattutto a superare alcune difficoltà sociali. Un gruppo numeroso e del tutto nuovo, come uno scaglione universitario con 150-200 persone, è un contesto complesso per tutti, ma immaginatelo per un non vedente: un giorno parli col tuo vicino, giusto per iniziare a conoscere i tuoi compagni. I giorni dopo però, se non è lui a venirti a cercare, tu certo non lo ritrovi facilmente. Poi ci sono i limiti oggettivi: banalmente non potevo fermarmi in biblioteca a studiare, perché mi servono un ambiente e degli strumenti particolari. Inoltre ho tempi più lenti degli altri e questo rende difficile studiare in gruppo”.
Avere a che fare con una disabilità ha sempre effetti diretti (per esempio, la ridotta autonomia) e alcuni anche indiretti, spiega Marco, che riguardano più la sfera sociale. “Si fa più fatica a parlarne, manca proprio il linguaggio. Per un non vedente, per esempio, può essere difficile instaurare delle relazioni o capire le dinamiche in un gruppo, perché il linguaggio del corpo è fondamentale e noi non lo vediamo. Un non vedente può anche avere difficoltà nel crearsene un proprio, perché non ha un modello di riferimento da imitare. Il risultato è che, agli occhi di un vedente, puoi sembrare fuori dal mondo… e rischia di scattare il classico “poverino, lasciamolo fare”. Sia chiaro, queste problematiche non sono né inevitabili né la norma. Bisogna però esserne consapevoli che possono esistere. Poi, come qualunque altra categoria, siamo prima di tutto persone, e in quanto tali, con mille attitudini eterogenee.
A mio avviso la risposta è sempre una: cultura e inclusione. A tutti i livelli e in tutte le sue declinazioni.
E ciò però passa anche da noi, dalla nostra reale volontà di essere inclusi. Un altro grande problema, infatti, è la tendenza di alcuni non vedenti a una sorta di auto-ghettizzazione. È qualcosa contro cui lotto molto, per esempio nel contesto degli scacchi. Ma, a parte questo, l’Italia è uno dei paesi migliori al mondo dove vivere da non vedente. L’importante non sedersi sugli allori”.
MAPPE MENTALI, ECO-LOCALIZZAZIONE E ALTRE ABILITÀ SPORTIVE
Accanto allo studio, l’attività sportiva: Marco è un esperto giocatore di scacchi e, per alcuni anni, ha giocato prima a calcetto e poi nella squadra di baseball per non vedenti (BXC) Lampi Milano (bendato, ovviamente, per non barare). Quando ce l’ha raccontato, noi della redazione non abbiamo capito subito come un non vedente possa partecipare a uno sport come il baseball.
“L’inclusione, intesa anche come normalizzazione della disabilità, passa anche dall’abbandonare la retorica del super eroe che, con poteri o motivazione fuori dal comune, nonostante la disabilità (o forse proprio grazie ad essa…) riesce a fare cose incredibili”
ci spiega Marco con molta pazienza. “Il non vedente, mediamente, ha un udito e una correlazione audio-spaziale del tutto normali. È solo più abituato e allenato a decodificare alcuni tipi specifici di feedback sonori (il classico esempio sono le sintesi vocali tenute a velocità assurde che solo noi capiamo, perché le usiamo in continuazione).”
Il baseball per non vedenti funziona così: la palla è forata e contiene dei campanelli, può essere localizzata tramite il suono che produce.
In fase di attacco, non c’è la figura del lanciatore. Il battitore, non vedente, non potrebbe prendere la pallina al volo. Tiene la pallina con una mano e la batte con l’altra. Poi inizia a correre seguendo il feedback sonoro della prima base: un clacson. La seconda e la terza base sono segnalate da un assistente, vedente, che batte tra loro due palette. A mano a mano che ti avvicini, la frequenza aumenta “e a quel punto i più bravi (io no!) si lanciano verso la base”. Tra terza base e casa base non c’è nessun feedback. “L’assistente ti posiziona dritto verso casa base. L’abilità è quella di correre dritto. È una questione di abitudine e una volta acquisita la giusta sensibilità puoi basarti sul feedback dei piedi, sentendo il cambio di superficie tra le parti di campo in terra e quelle in erba”.
In fase di difesa, la cosa fondamentale è prendere la palla prima che si fermi: “se smette di fare rumore non la trovi più! Oppure devi avere chiara la mappa del campo e ricordarti come era localizzata quando ha smesso di muoversi. I difensori sono in 5 e si coordinano con la voce nella ricerca sul campo. Il ricevitore è l’unico vedente della squadra. Appena un difensore tocca la palla, il ricevitore segnala la sua posizione con la voce e l’abilità del difensore è quella di lanciargli la palla nel modo più preciso possibile. Le azioni sono molto veloci e, se sbagli il lancio, fai perdere tanti secondi al ricevitore che deve recuperare la palla magari a 20 o 30 metri di distanza. Molte partite si decidono sulla precisione dei lanci”.
“Trovare una pallina sonora nella propria zona di competenza del campo è un’abilità tecnica difficile e complessa, che però, se allenata, passa dal non essere per nulla possibile al più o meno riuscirci a seconda del proprio talento e che diventa qualcosa di eccezionale solo per il Cristiano Ronaldo o Rafa Nadal di turno. Certo, per chi vede per la prima volta una partita di BXC, sembra tutto incredibile e più di una volta si sentono frasi del tipo “ok, ma quando entrano anche i ciechi a giocare?!”, ma, se poi uno si guardasse tutte le partite del campionato, si stupirebbe dei mille livelli diversi e ammirerebbe come mago del BXC solo il fuoriclasse che in difesa cura da solo tutto il campo o che in attacco spara regolarmente degli homerun (cioè la pallina fa più di 80 metri dal punto di battuta in una manciata di secondi), mentre capirebbe che tutto sommato chiunque saprebbe fare un gioco di base.
Per fare un altro esempio, è lo stesso meccanismo per cui un non scacchista di solito si meraviglia quando vede che riesco a giocare un’intera partita a mente senza scacchiera, sembra assurdo, no? Eppure se sei “del mestiere” sai che non è nulla di così speciale, è un’abilità utilissima che alcuni scacchisti hanno sviluppato più di altri ma che tutti possiedono. Poi c’è il campione che ne gioca una cinquantina, di partite, a mente, in contemporanea… Ed ecco sì, lui ha di certo un super potere!”
Sono tra i migliori ricercatori della loro generazione e arriveranno al Politecnico di Milano grazie a un fondo della Commissione europea per la ricerca di eccellenza, co-finanziati dall’Ateneo.
Subrata Ghosh ha 34 anni e viene dall’India. La sua passione è lo sviluppo di nanomateriali (“I love to cook the nanomaterialsin smart and innovative-manner and also share my knowledge of cooking with others”, ci scrive) per la transizione energetica. Nei prossimi anni lavorerà al NanoLab del Politecnico sviluppando materiali di nuova generazione per elettrodi, progettati in particolare per l’utilizzo nei supercondensatori: l’idea è quella di perfezionare la capacità di stoccaggio di energia rinnovabile.
Subrata Ghosh
Ghosh ha ricevuto dalla Commissione europea una Marie Skłodowska-Curie Actions (MSCA) fellowship, cioè un grant (un finanziamento) alla ricerca dedicato ai giovani ricercatori migliori al mondo. “Ho deciso di sviluppare il mio progetto al Politecnico di Milano”, commenta, “perché mi interessa l’impronta di questo Ateneo verso un proficuo rapporto con il mondo imprenditoriale e produttivo, che passa attraverso la ricerca sperimentale e il trasferimento tecnologico”.
Per un ateneo è importante attrarre giovani ricercatori, che immettono nuova linfa nel sistema della ricerca e fanno crescere filoni scientifici innovativi, come quello esplorato da Ghosh. Il Politecnico investe in attività mirate proprio a incentivare l’arrivo di giovani innovatori, tra le quali una masterclass dedicata a formare ricercatori di tutto il mondo sulla scrittura di progetti da sottoporre alla Commissione. Scopri di più sulla Masterclass MSCA.
Tra i 6 ricercatori che inizieranno un progetto MSCA al Poli c’è anche Giulio Gori, anche lui 34 anni, di Quarrata (PT). Dopo la laurea in Ingegneria Aeronautica e il PhD (entrambi al Politecnico), si è spostato per diversi anni in Francia. Si occupa di aerodinamica di velivoli ad altissima velocità, per esempio capsule in rientro atmosferico da orbite extraterrestri, e durante gli anni in Francia ha iniziato a lavorare anche allo sviluppo di tecniche di quantificazione delle incertezze, calibrazione di modelli e ottimizzazione robusta.
Giulio Gori
Il progetto di ricerca presentato alla Commissione europea metterà insieme questi ingredienti, ci spiega Gori: “è pensato avendo in mente applicazioni di Urban Air Mobility, ma è solo una delle possibilità. Punto per prima cosa a sviluppare una tecnologia abilitante, in questo caso un metodo di indagine scientifica, con lo scopo di migliorare la nostra comprensione della realtà e dei fenomeni fisici che vi avvengono. L’applicazione del progetto riguarda per esempio le macchine volanti multirotore per il trasporto urbano aereo, di cui tanto si parla oggigiorno. Se sarò in grado di dimostrare in maniera convincente le potenzialità dell’approccio proposto, uno degli obiettivi più importanti sarà cercare di costruire un gruppo di ricerca solido e dedicato allo sviluppo ulteriore di queste tematiche”.
Vitthal SaptalYifan Zhang
Il Poli attende anche Vitthal Saptal, che ha lavorato in India, Corea del Sud, Cina e Polonia, sviluppando un metodo per la conversione della CO2 in altre sostanze chimiche riutilizzabili (“in qualcosa di utile”, commenta). Yifan Zhang, esperto di allotropi di carbonio sp-hybrid, studierà una procedura innovativa che integri la preparazione, la funzionalizzazione e la solidificazione delle catene di carbonio, utilizzabili nelle celle a combustibile. Racconta di aver scelto il Politecnico di Milano perché “è una combinazione tra le conoscenze più moderne e la tradizione della bellissima città in cui si trova. Inoltre, il mio supervisor sarà il prof. Casari (ne abbiamo parlato qui, n.d.r.), uno dei ricercatori più famosi al mondo nel campo delle catene di carbonio”.
Ethan BurnettFrancesco Nappo
Ethan Burnett si occuperà di controllo orbitale e guida autonoma per CubeSat nello spazio profondo e Francesco Nappo, esperto di questioni epistemologiche ed etiche legate allo sviluppo e uso di modelli scientifici, di IAM (integrated assessment models): “Alcune delle assunzioni di base utilizzate nei modelli globali di economia del clima sono assunzioni normative: appartengono, cioè, alla sfera dei valori che noi come individui e come comunità vogliamo e dobbiamo perseguire. Il mio progetto intende offrire una prospettiva su quali siano queste assunzioni e quali attori (scienziati, cittadini, politici, etc.) debbano essere chiamati in causa per specificare il loro contenuto e comunicarlo nella maniera più efficace in un contesto democratico, al fine di preservare l’integrità e l’oggettività della ricerca scientifica sul clima”.
Çağlar si occuperà di sviluppare un sistema di monitoraggio della stabilità per i ponti che si trovano in aree soggette ad intensa attività sismica. Ci spiega che “la gestione dell’invecchiamento e del deterioramento delle infrastrutture è ancora basata su pratiche vecchie di decenni”. Il suo progetto intende aggiornare queste tecniche allo stato dell’arte della tecnologia, e passa per lo sviluppo di un nuovo strumento in grado di migliorare la capacità di prendere decisioni tempestive e metterle in atto velocemente. Stergiou ci scrive: “I’m always cheerful for designing and synthesising new molecules and materials” (sintetizzare nuovi materiali e molecule lo rende felice). È esperto di energia solare e svilupperà un sistema per migliorare le performance delle celle solari. Sebastiani rientrerà in Italia dalla Svezia, grazie al finanziamento del Politecnico, per studiare un metodo su misura per la fluorurazione nanoparticelle lipidiche a scopo terapeutico. Nicolini, Alumnus PhD in ingegneria dei materiali, si occuperà CMOF (Conductive metal-organic frameworks) con applicazioni in tecnologie di elettrocatalisi, batterie e supercondensatori.
È stata inaugurata nel Campus Bovisa-La Masa del Politecnico di Milano la “Collina degli studenti”: 1900 mq di superficie indoor e 2200 mq di terrazze e verde dedicati a spazi per studenti, laboratori e docenti.
La “Collina degli studenti” è un progetto parte di “Vivipolimi“, il programma nato per valorizzare, qualificare e ripensare in termini contemporanei gli spazi dell’ateneo e che coinvolge docenti, ricercatori e assegnisti impegnati nell’elaborare progettualità strategiche.
Credits: Marco Introini
Il primo piano dell’edificio è interamente destinato agli studenti: comprende una sala studio con 70 postazioni cablate, un bar e 3 sale meeting room prenotabili.
Al piano superiore si trova lo spazio “Faculty”, dedicato a tutta la community, che ospita aree per relazioni informali, il tempo libero e il lavoro di gruppo, oltre a una sala meeting cablata e dispositivi tecnologici touch per la sperimentazione di nuove modalità di lavoro condiviso.
Corona l’edificio una terrazza a cielo aperto che rappresenta un importante spazio polifunzionale adatto per l’organizzazione di eventi.
Alla base, occultato dall’orografia del terreno, trova spazio il Laboratorio di prova trazione funi del Dipartimento di Meccanica.
Credits home/header: Marco Introini
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