Buone notizie per bambini e genitori: il poli sta studiando gli asili nido

Si stanno per concludere i cinque progetti di ricerca a tema «Equità e Ripresa» selezionati dal Polisocial Award 2021 e finanziati grazie alle donazioni del 5 per mille IRPEF al Politecnico. L’emergenza sanitaria derivata dalla pandemia ha contribuito ad acuire squilibri e marginalità e a rendere concreto il rischio di un aumento delle disparità; per questo, i progetti finanziati hanno agito in una prospettiva di ripresa economica, sociale e culturale, promuovendo lo sviluppo di metodi, strategie, strumenti e tecnologie tesi a ridurre le disuguaglianze e a favorire l’accesso a risorse e opportunità da parte di persone, categorie sociali o comunità particolarmente vulnerabili. 

TRADOTTO DAL LINGUAGGIO BUROCRATICO, C’È UN GAP NEI SERVIZI ALL’INFANZIA 

Il punto di partenza del progetto Equi06 è il decreto legislativo 65/2017, che ha proposto la creazione di un “sistema integrato 0-6”, che integri i due segmenti nido d’infanzia-scuola dell’infanzia (quelle che una volta si chiamavano “scuole materne”), storicamente sviluppati in modo separato con un approccio educativo, gestori e enti istituzionali diversi. “Anche il livello di sviluppo dei due segmenti è disomogeneo”, sottolinea Stefania Sabatinelli, responsabile scientifica del progetto. “In Italia le scuole dell’infanzia sono frequentate dalla quasi totalità dei bambini tra i tre e i cinque anni, al contrario dei nidi 0-2”. 

Il sistema integrato 0-6 è ancora un work in progress: a livello pedagogico sono uscite alcune linee guida ministeriali, e il PNRR prevede dei finanziamenti per la realizzazione di poli 0-6, ovvero strutture dedicate all’educazione da zero a sei anni. Perché è necessario integrare questi due segmenti educativi? “La letteratura comparata ci dice che nei Paesi nei quali i servizi sono organizzati in un unico ciclo (quelli del nord Europa) i livelli qualitativi dell’offerta sono più elevati e più omogenei”, spiega Sabatinelli. “Il ciclo unico potrebbe inoltre favorire un accesso più precoce da parte dei bambini: al momento i costi di iscrizione ai nidi sono spesso molto elevati, a differenza di quelli delle scuole dell’infanzia, e questo è un ostacolo per molte famiglie”. L’accesso precoce a servizi di elevata qualità è importante perché nei primi anni di vita si impara ad imparare e a stare con gli altri: è in questa fase che è possibile contrastare più efficacemente le disparità che portano i bambini ad avere punti di partenza diseguali già all’inizio della scuola dell’obbligo. 

L’IMPATTO DI UN SISTEMA INTEGRATO 

Il progetto Equi06 ha tre obiettivi di ricerca principali: mappare i servizi 0-6 esistenti a Milano, approfondire le condizioni di un contesto territoriale specifico, sperimentare la trasformazione di uno spazio esistente per favorire l’integrazione 0-6. 

“Mappare i servizi 0-6 esistenti a Milano è stata un’azione di ricerca utile di per sé, che ci ha permesso di localizzarli su una mappa: questa operazione non era mai stata fatta”, sottolinea Sabatinelli. “Ora conosciamo anche le relazioni tra i nidi e le scuole dell’infanzia, i servizi pubblici e quelli privati, quelli comunali e quelli statali, quelli continuativi e quelli integrativi”. 

Con queste informazioni, i ricercatori hanno identificato un’area su cui concentrare il proprio studio: “Abbiamo scelto il quartiere Comasina perché qui abbiamo riscontrato un’alta domanda potenziale di servizi 0-6 e la presenza di indicatori di fragilità sociale”, spiega Sabatinelli. Restringendo ulteriormente il campo di ricerca, il team ha selezionato un riquadro di 1,5 km per 1,5 km nel quartiere, all’interno del quale si trovano servizi pubblici, privati, comunali, statali e anche una sede pluriservizio comunale nido-infanzia, dove i due cicli educativi funzionano separatamente ma vengono offerti nello stesso edificio. 

L’ultimo obiettivo, coordinato dal dipartimento di DESIGN e tutt’ora in corso, è quello di lavorare sulla sede pluriservizio Merloni con la coordinatrice dei servizi della zona, alcune educatrici e alcuni genitori, ragionando su come migliorare gli spazi interni ed esterni alla struttura e i percorsi per raggiungerla, per capire come l’ambiente educativo può essere trasformato e migliorato con interventi minimi. 

L’aspetto pedagogico non è trascurato: seppur non rientri nelle competenze politecniche dei dipartimenti coinvolti, viene integrato dai partner esterni – il Comune di Milano, l’Istituto Nazionale di Documentazione, Innovazione e Ricerca Educativa (INDIRE), Save the Children, il Gruppo Nazionale Nidi e Infanzia, Legacoop Lombardia. 

L’obiettivo finale è definire un documento di orientamento riguardo agli apprendimenti realizzati: “La nostra ambizione è trarre insegnamenti generali, linee guida che possano essere utili al di là del contesto specifico. Sarà interessante replicare il progetto in altri contesti, e forse anche su altre scale”, conclude Sabatinelli. 

Presentati i risultati del progetto 5A – Autonomie per l’autismo

Si è svolto venerdì 31 marzo l’evento di presentazione finale del Progetto 5A – Autonomie per l’Autismo, Attraverso realtà virtuale, realtà Aumentata e Agenti conversazionali.

Al termine di due anni di intenso e appassionante lavoro, è stato possibile conoscere e sperimentare le soluzioni innovative sviluppate nell’ambito di questo progetto di ricerca, nato per rafforzare l’autonomia delle persone con DSA (Disturbi dello Spettro Autistico) e favorirne l’inserimento sociale e migliorarne la qualità di vita. 

Il progetto 5A prevede infatti l’utilizzo di applicazioni interattive fruibili anywhere-anytime attraverso smartphone, tablet e visori indossabili che integrano Realtà Virtuale Immersiva, Realtà aumentata e Agenti conversazionali e, creando un continuum tra training nel mondo virtuale ed esperienze nel mondo reale, aiutano le persone con DSA a comprendere le caratteristiche ambientali e socio-organizzative degli ambienti di vita quotidiana e a eseguire correttamente le relative attività. Con benefici non solo di potenziamento funzionale, ma anche di rafforzamento emotivo-psicologico e di benessere generale.

Credits: www.5a.polimi.it

Gli sforzi della ricerca si sono concentrati sulla mobilità negli spazi cittadini: la metropolitana, il treno, il supermercato, il museo, la biblioteca, l’ospedale, etc. Ad esempio, le applicazioni 5A di Realtà Virtuale permettono alla persona di esercitarsi nell’uso dei mezzi pubblici, “immergendosi”, attraverso un visore indossabile, in un ambiente digitale che simula spazi e attività tipiche dell’uso di treno e metropolitana. Le applicazioni 5A di Realtà Aumentata supportano gli utenti mentre usano i mezzi pubblici nel mondo reale, generando, su tablet o smartphone, informazioni visive che appaiono come sovrapposte alla visione dell’ambiente circostante e aiutano le persone a capire come muoversi e che cosa fare. Entrambi i tipi di applicazioni integrano un Agente Conversazionale che agisce da compagno virtuale e dialoga proattivamente con l’utente per guidarlo sia durante la simulazione dell’utilizzo dei mezzi pubblici sia durante l’esperienza nel mondo reale

Le applicazioni 5A sono state co-progettate da un team multidisciplinare composto da ingegneri e interaction designer del Politecnico di Milano e specialisti di autismo di due prestigiosi istituti di assistenza e cura, partner clinici del progetto: Fondazione Sacra Famiglia IRCCS E. Medea – Associazione La Nostra Famiglia.

Il progetto 5A é stato realizzato con il contributo di Fondazione TIM (Bando “Liberi di comunicare. Tecnologie intelligenti e innovazione per l’autismo”) e del progetto PNRR MUSA (Multilayered Urban Sustainability Action/Spoke6 – Innovation for Sustainable and Inclusive Societies).

Working in a joint research lab: Smart Eyewear Lab 

Working as a PhD  

The Industrial PhD in SEL is a three-year, high-level research course launched by the University and funded with the contribution of EssilorLuxottica that participates in defining the research theme. The PhD is a recent graduate who acts as a driver of change and brings to the organization, after three years of training on a shared research topic, a young point of view and new methods. He or she will work in the research line group and generate results and publications. The doctoral student will then be able to pursue both academic and professional careers.

Ask here for more information: smarteyewearlab@polimi.it

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Working as Researcher after your PhD 

You can pursue postdoctoral studies at SEL. As researcher, you help SEL professors, researchers and pm in the progress of research lines. To be a senior researcher, you must be supervised by one of our affiliated professors or Project Managers. 

Ask here for more information: smarteyewearlab@polimi.it

Are you a Polimi Student? 

As a Politecnico di Milano student in the lab you will be involved in teaching and project work activities related to your curriculum, but concretely connected to lab activities. As a student, you can bring your contribution to Smart Eyewear Lab supervised by one of its affiliated professors. 

Ask here for more information: smarteyewearlab@polimi.it

Il problema dello scambio tra rete elettrica e pannelli fotovoltaici

Si stanno per concludere i cinque progetti di ricerca a tema «Equità e Ripresa» selezionati dal Polisocial Award 2021 e finanziati grazie alle donazioni del 5 per mille al Politecnico. L’emergenza sanitaria derivata dalla pandemia ha contribuito ad acuire squilibri e marginalità e a rendere concreto il rischio di un aumento delle disparità; per questo, i progetti finanziati hanno agito in una prospettiva di ripresa economica, sociale e culturale, promuovendo lo sviluppo di metodi, strategie, strumenti e tecnologie tesi a ridurre le disuguaglianze e a favorire l’accesso a risorse e opportunità da parte di persone, categorie sociali o comunità particolarmente vulnerabili. 

Il progetto RESTARTHealth (da Renewable Energy Systems To Activate Recovery Through the Health sector) mira a ottimizzare l’efficienza energetica del secondo ospedale più grande dell’Uganda, il St. Mary’s Lacor Hospital, che sorge nel distretto di Gulu. “Da tempo collaboriamo con l’ospedale Lacor, che da pochi anni ha come responsabile tecnico Jacopo Barbieri, alumnus del Politecnico di Milano”, ci spiega Riccardo Mereu, project manager di RESTARTHealth e ricercatore del dipartimento di Energia. Con oltre 600 lavoratori, molti dei quali vivono nel complesso ospedaliero, quando si parla di efficienza energetica al Lacor non si fa riferimento solo a macchinari medici: “Il complesso ospedaliero comprende guesthouse, mense e gli alloggi dei dipendenti”, spiega Mereu. È una piccola città da duemila persone (anche le famiglie degli impiegati vivono “on campus”, oltre, ovviamente, ai pazienti): bisogna quindi pensare anche all’energia che viene utilizzata per cucinare (quasi sempre, al momento, lo si fa a legna), per lavarsi con l’acqua calda, per illuminare le case e per il trasporto.  

UN SISTEMA ELETTRICO IBRIDO MIGLIORABILE 

Attualmente il complesso è già dotato di un buon numero di pannelli fotovoltaici, che producono centinaia di kilowattora di energia. “I pannelli fotovoltaici sono indubbiamente la fonte energetica più adatta al luogo”, afferma Mereu. “Le risorse della zona non permettono certo di pensare a idroelettrico o eolico, mentre abbiamo valutato la possibilità di produrre biogas a partire dai rifiuti dell’ospedale. Dobbiamo capire se gli scarti sono sufficienti per produrne abbastanza”.  

Uno dei principali limiti è il fatto che l’energia prodotta dai pannelli fotovoltaici non può essere immessa nella rete elettrica nazionale: “Manca uno scambio bidirezionale, e questo fa sì che molta energia venga persa, che l’efficienza ne risenta”, spiega Mereu. “Il sistema è già e dev’essere per forza ibrido: attualmente sono attivi i pannelli fotovoltaici, la rete elettrica e alcuni gruppi elettrogeni diesel per quando salta totalmente la corrente. L’idea, in futuro, è che queste tre fonti vengano sfruttate in modo ottimizzato rispetto ad ora, con minori perdite di energia e migliore gestione dei picchi di potenza, che potrebbero stressare la rete interna dell’ospedale”. Quello dello scambio tra reti elettriche da rinnovabili e reti tradizionali è un tema molto attuale anche nel nostro continente, alla ricerca di una formula che ne permetta l’integrazione completa sia dal punto di vista infrastrutturale sia da quello amministrativo.  

LA CREAZIONE DI LINEE GUIDA 

L’obiettivo a lungo termine, oltre all’efficientamento energetico dell’ospedale, è quello di creare delle linee guida che possano essere utili in altri contesti. L’ospedale St. Mary’s Lacor è un caso particolare, perché non è statale ma privato, ed è gestito da una fondazione italiana: tuttavia i ricercatori hanno guardato anche ad altri casi studio, come alcuni ospedali governativi e di enti privati come Emergency, per avere un quadro ancor più completo della situazione. 

Oltre alla sede principale dell’ospedale, i test sono stati condotti anche in altri tre ambulatori dislocati in zone rurali a 50-60 km di distanza. “Il progetto termina a fine maggio 2023: al momento stiamo analizzando i dati raccolti, dai quali ricaveremo le informazioni necessarie a redigere delle linee guida energetiche specifiche e generali. Valuteremo l’impatto che alcuni miglioramenti energetici avrebbero nel complesso ospedaliero, come ad esempio la possibilità di uno scambio bidirezionale tra rete elettrica nazionale e pannelli fotovoltaici, la presenza di cucine elettrificate, l’introduzione di ulteriori pannelli solari per il riscaldamento dell’acqua e la possibilità di elettrificare il trasporto interno di rifiuti medicali. Per il momento, ci fermiamo allo studio di fattibilità: la messa in pratica dipenderà dall’ottenimento da parte dell’ospedale di finanziamenti privati e donazioni, o dalla vincita di bandi pubblici o privati”, conclude Mereu. 

Guido Crepax: come architettare storie

Guardia notturna, Portiere, Agenzia di Viaggi, Telefono. Sono alcune delle indicazioni scritte a mano, con l’impronta tonda dei caratteri di un fumetto, che si trovano non in un baloon ma nelle linee geometriche della planimetria di un edificio di via Laghetto a Milano. Su un foglio della stessa serie si legge: “Corso di composizione architettonica 2, 1956-1957, Guido Crepas, Tema di Laurea”.

I personaggi e le indicazioni inserite nella planimetria ci mostrano che il ventiquattrenne Guido Crepax pensa già a chi abiterà esattamente fra quelle linee precise, è un’anticipazione dell’indole d’autore, di chi è interessato ad architettare soprattutto le storie. «Circa cinque anni fa abbiamo trovato queste planimetrie nel soppalco di casa di nostra madre», racconta Caterina, figlia del grande disegnatore e Alumnus del Poli, «ed è sempre un’emozione quando scoviamo qualcosa che ci racconta un nuovo aspetto di nostro padre».

Giacomo – che con Caterina e l’altro fratello Antonio – cura e valorizza l’archivio Crepax, accenna una breve biografia post-laurea: «Conclusi gli studi al Politecnico, oltre a lavorare già come disegnatore in campo pubblicitario e discografico, nostro padre inizia a lavorare per degli architetti realizzando per loro delle prospettive; ciò che fanno ora i computer. Possiamo dire che era la mano-render». Negli ultimi anni la mano e la figura di Crepax sono tornate al Politecnico per una serie di mostre, l’ultima proprio di quest’anno si intitola “Guido Crepax, Architetto del Fumetto” ed è una ricognizione nei lavori di tutta una carriera, alla ricerca della mano d’architetto in controluce con quella del disegnatore. «Celebrarlo nel luogo della formazione – spiega Giacomo – ha un grande valore perché è qui che ha cominciato a sperimentare ed è qui che ha appreso molte nozioni di carattere storico legate all’architettura e al design che sono letteralmente entrate nel suo lavoro. Ci sembra necessario dunque raccontare il periodo della sua formazione. E poi anche io e mia sorella siamo Alumni, entrambi laureati in architettura».

Entrando così nel suo ruolo professionale, commenta un’altra tavola paterna, che mostra la prospettiva dell’edificio: «La base di partenza era una specie di centro commerciale che si sviluppava poi come torre abitativa. Lo schema è interessante, presenta elementi curvi laterali, molto morbidi, che sembrano citare le architetture di Sant’Elia. Lo descriverei come un progetto che coglie pienamente l’idea futurista degli anni ’50, fatto di trasparenze che mettono in risalto anche la parte strutturale dell’edificio: i vuoti, tipici dell’architettura razionalista di quel periodo, e le parti moderne identificate tramite le vetrate e la struttura solida dei pilastri in cemento armato». Anche su questa tavola è possibile cogliere elementi dei fumetti che verranno: un auto americana, gli abiti delle persone, l’intestazione Hotel Sforza, lo scorcio del Duomo che compare sullo sfondo, stretto tra altri due palazzi. 

La laurea conseguita al Politecnico di Milano

Il percorso di studi emerge a tratti: Valentina che passeggia in zona Missori, alle sue spalle Torre Velasca, realizzata dal suo relatore di tesi, l’Alumnus Ernesto Nathan Rogers. La vignetta di un uomo al tecnigrafo ci riporta un altro scampolo di biografia, «Era suo nonno, ingegnere. Infatti nostro padre prima di iscriversi ad architettura aveva atto un anno di ingegneria ma ne era scontentissimo», svela Caterina. «Per tutta la vita però ha disegnato proprio sulla scrivania di suo nonno, che oggi si trova nello studio di architettura in cui lavoro», dice Giacomo. In questo flusso di memorie e rimandi Caterina dice: «Nella biblioteca di casa abbiamo sempre trovato libri di architettura, che poi abbiamo sfruttato a nostra volta. Per lui erano fonte di ispirazione soprattutto i libri di design, perché gli interessava disegnare gli interni e le persone nei loro ambienti, per raccontare le storie anche attraverso gli oggetti di design, le tappezzerie, le lampade. Molti erano pezzi di design provenienti dalla nostra casa, che ci ritrovavamo nei fumetti». La lampada Arco, i divani le Corbusier, il televisore Brionvega, il letto di Magistretti, riferimenti che si mischiano a ispirazioni più personali, come racconta Caterina: «La poltrona con il poggiapiedi sui cui nostra madre leggeva, di fronte al tavolo su cui nostro padre disegnava e così si innescava questo scambio fra realtà e carta». Mostrando una tavola con la città di Praga, Giacomo spiega: «Siccome non usciva quasi mai dal suo studio, chiedeva le foto dei nostri viaggi all’estero, che poi diventavano i luoghi delle avventure di Valentina».  

La scrivania originale di Guido Crepax

Altre due tavole ci restituiscono le sue coordinate: i ritratti di Gropius e Frank Lloyd Wright, il suo volto accanto ala Casa sulla cascata. Gli strumenti del suo mestiere, erano gli stessi del mestiere di architetto: le chine, i lucidi e le lamette con cui li grattava, il compasso, le rapidograph. «I bordi stessi delle vignette li stendeva con il rettilineo a punta piatte – analizza Giacomo – le sue tavole sono quasi delle sezioni, delle planimetrie dove nelle singole vignette le cose avvengono. Ad esempio c’è una tavola al cui centro vi è un letto, con sopra Valentina e il suo compagno, e da sotto spuntano altre visioni laterali del letto. Oppure, la scelta di inserire il disegno di una scala a chiocciola incastrandola in una vignetta stretta e lunga ci raccontano la cura architettonica che aveva nella composizione di una immagine». Su un foglio c’è una vera e propria proiezione ortogonale di Valentina che in questo modo diventa un dispositivo per passare, nel ribaltamento, alla vignetta e all’episodio successivo.  

Il suo occhio era sul dettaglio, lo spiega bene Caterina: «Le sue storie accadono poco all’esterno e molto negli interni, ma quando siamo fuori ci mostra i luoghi sempre per frammenti. Del Duomo di Milano non c’è una panoramica ma l’inquadratura di una guglia. Gli piacevano moltissimo le porte con le maniglie, perché sempre celavano il mistero. Aveva inventato il popolo dei sotterranei, che abitavano il sottosuolo ed emergevano attraverso squarci nelle tappezzerie, nelle crepe del muro, dai mobili, figure nascoste nei motivi floreali di una carta da parati». Che architetto sarebbe stato? «Probabilmente avrebbe fatto un’architettura molto rigorosa ma al contempo di grande fantasia, perché era precisissimo nella documentazione ma all’interno del suo lavoro lanciava cose più legate al futuro che al presente. Ecco, forse sarebbe stato vicino ai lavori di Oscar Niemeyer, come Brasilia», risponde Giacomo. Caterina aggiunge: «è sempre stato iscritto alla cassa architetti e aveva firmato il progetto di una casa di sua madre, in un paesino della Versilia. Solo che nel progetto si era sbagliato e aveva inserito la facciata principale sul retro e viceversa, le aveva invertite».  

Qual è l’insegnamento che vi ha lasciato?

«Percepire l’insieme, farsi avvolgere dalla realtà che è composta da tante cose: architettura, politica, design, proprio come le sue storie. Per far emergere questo, quando allestiamo le mostre cerchiamo sempre di far entrare fisicamente il visitatore all’interno del suo mondo, quasi come se entrasse nelle tavole perché lui non aveva confini. Forse è questo l’insegnamento più grande: la nostra vita è captare tutto».  

Al Poli c’è un progetto che si occupa di fare la spesa per chi non ce la fa

Si stanno per concludere i cinque progetti di ricerca a tema «Equità e Ripresa» selezionati dal Polisocial Award 2021 e finanziati grazie alle donazioni del 5 per mille IRPEF al Politecnico. L’emergenza sanitaria derivata dalla pandemia ha contribuito ad acuire squilibri e marginalità e a rendere concreto il rischio di un aumento delle disparità; per questo, i progetti finanziati hanno agito in una prospettiva di ripresa economica, sociale e culturale, promuovendo lo sviluppo di metodi, strategie, strumenti e tecnologie tesi a ridurre le disuguaglianze e a favorire l’accesso a risorse e opportunità da parte di persone, categorie sociali o comunità particolarmente vulnerabili. 

Il progetto SOSpesa, coordinato dal prof. Davide Fassi del Dipartimento di Design, prende spunto da una iniziativa di quartiere nata dal basso, all’interno di un gruppo Facebook – NoLo Social District: durante il primo lockdown 2020 è stato un punto d’incontro tra chi voleva donare cibo, chi ne aveva bisogno, e chi poteva rendersi disponibile per consegnare la spesa porta a porta. Con la fine del lockdown, Off Campus NoLo del Poli ha deciso di adottare questa iniziativa, iniziando a sperimentare varie metodologie per offrire, negli spazi Off Campus del Mercato Mercato Comunale di Viale Monza 54, un servizio che prima era lasciato all’iniziativa individuale. I ricercatori Valentina Ferreri e Stefano Quaglia, rispettivamente dei dipartimenti DESIGN e DIG, ci spiegano i dettagli di questo progetto, a partire dalla volontà di aiutare le famiglie in difficoltà. 

PANE, CARNE, FRUTTA E VERDURA  

“Volevamo offrire un servizio diverso rispetto alle classiche spese sospese delle GDO, evitando la calca da ‘chi prima arriva meglio alloggia’”, ci spiega Ferreri. Il cibo offerto è fresco e di qualità, e il sistema di distribuzione è gestito in modo ordinato: le famiglie beneficiarie (al momento circa 200) vengono contattate per organizzare la consegna della spesa, che avviene un paio di volte al mese. Ogni beneficiario ha diritto a ritirare due tipi di spesa, in modo alternato: una volta un pacco di cibo in eccedenza, recuperato grazie alla collaborazione con RECUP e con vari negozi di quartiere che donano il loro invenduto, una volta una borsa di 30 euro di prodotti comprati da Off Campus.  

LA FORZA DEL PASSAPAROLA 

Come vengono individuate le famiglie beneficiarie? “Inizialmente bisognava iscriversi su una piattaforma online, poi nel 2021, con l’arrivo del nostro progetto Polisocial, è stato definito un paniere di famiglie beneficiarie e una metodologia di distribuzione a rotazione”, spiega Ferreri. “Non chiediamo l’ISEE, ci fidiamo della buona fede delle persone: non abbiamo né mezzi né competenze per controllare. Funziona: molte persone ci vengono segnalate da Rete Qubì di Loreto, altre vengono presentate da famiglie che beneficiano già del servizio; alcune si sono anche auto-eliminate dalla lista, perché non hanno più bisogno di aiuto”.  

TRASFORMARE L’INVENDUTO 

Un altro aspetto del progetto SOSpesa è quello che riguarda la “trasformazione” (sì, si dice così) della merce invenduta: “Molti negozianti volevano supportare la nostra iniziativa con l’invenduto, ma avevano una quantità di eccedenze non sufficiente. Così abbiamo deciso di donare una minima parte delle cassette che recuperiamo grazie al lavoro dell’associazione Recup al ristorante Cunza e alla gastronomia Fola, che rielaborano e cucinano i prodotti per farne piatti e conserve da vendere. Per ogni piatto venduto, il progetto riceve un euro”, spiega Ferreri. 

Tra le maggiori criticità riscontrate, soprattutto con uno sguardo al futuro, vi è la necessità di raccogliere fondi continui per il progetto: “Abbiamo sempre bisogno di soldi per acquistare cibo di qualità”, spiega Ferreri. “Al momento chi lo desidera può donare in tre modi: con Satispay, tramite bonifico bancario o in contanti presso i punti di raccolta. In futuro, però, se il modello dovesse espandersi in altri quartieri, la raccolta fondi sarà un aspetto di cui tenere conto”. Secondo Quaglia, il valore aggiunto di SOSpesa è dato dal fatto che, coinvolgendo realtà di quartiere, è possibile curare meglio l’aspetto sociale e creare una rete di persone disposta a collaborare. 

IL RUOLO DEGLI STUDENTI 

Il progetto ha visto il coinvolgimento di molti studenti come volontari: “Alcune associazione studentesche, come Social Innovation Teams (SIT), si sono occupate di gestire il rapporto con i beneficiari, contattandoli quando è il momento di ritirare la spesa”, racconta Ferreri. Un’altra collaborazione attiva è quella con Associazione studenti musulmani, che si occupa di dare una mano ai volontari che consegnano la spesa nella sede di Off Campus NoLo, interloquendo con i beneficiari che non capiscono l’italiano. 

UN FRIGORIFERO CONDIVISO 

I ricercatori sono ormai pronti a tirare le fila del progetto, in fase di chiusura: una delle idee per il futuro, oltre a quella di portare il modello in altri quartieri (a partire magari da altri Off Campus), è quello di sviluppare un progetto di frigorifero di quartiere. “Sarebbe interessante condividere una cella frigorifera con altri enti e servizi che si occupano di recupero e redistribuzione alimentare. Rete Qubì ha partecipato a un bando comunale con questa idea, ora non ci resta che aspettare i risultati”, conclude Ferreri. 

Piazzale Loreto, una piazza aperta al futuro

Milano, 2026. All’uscita della fermata della metropolitana Loreto un uomo viene quasi preso in consegna della piazza che – scavata e fattasi ipogeo, in pietra naturale – scende al livello del mezzanino per portarlo su, a cielo aperto, dove alzando lo sguardo scopre anche il verde delle terrazze in cima a tre edifici, geometrie prismatiche dotate di pannelli solari e al cui interno si celano negozi mentre all’esterno si muove un reticolo di pedoni e ciclisti, fra trecento alberi, luoghi di passaggio e di ritrovo. Una rigenerazione urbana che si estende su oltre novemila metri quadrati, di cui quasi quattromila di verde pubblico e più di un chilometro di piste ciclabili nell’intero progetto. Torniamo a Milano, 2023. La visione appena immaginata è – in breve – il progetto della nuova Piazzale Loreto, vincitore del bando internazionale Reinventing Cities. Si intitola LOC – Loreto Open Community, il suo avvio di cantiere è previsto entro l’autunno 2023 verso il traguardo di Milano-Cortina 2026, e ha alla base l’idea di una piazza che vuole farsi aperta a persone e idee. Ne abbiamo parlato con l’Alumnus Carlo Masseroli, Development&Strategy Director di Nhood, società internazionale di soluzioni immobiliari specializzata nel commercial real estate e nella rigenerazione urbana – capofila di una cordata multidisciplinare che include alcune fra le migliori eccellenze nel campo della progettazione, del design e del paesaggio. 

Alumnus Carlo Masseroli
IL PROGETTO SI INTITOLA LOC – LORETO OPEN COMMUNITY: IN CHE MODO IL PROGETTO SI APRE ALLA COMUNITÀ?

Il progetto si divide in quattro fasi, che nel tempo e in vari modi prevedono l’incontro con la cittadinanza. Per noi è stato fondamentale partire innanzitutto dall’ascolto del territorio, il che non significa la neutralizzazione dei potenziali comitati di quartiere o lo stare attenti al non toccare tasti che avrebbero potuto generare contrarietà. Era necessario presentare il progetto e capire con gli abitanti stessi se fosse coerente. Nella prima fase di ascolto dunque è emerso subito che in questa piazza è ancora forte l’eredità del boom dell’automobile, quando una diversa concezione di città la trasformò non in un luogo di incontro ma di divisione. Tant’è vero che Piazzale Loreto separa parti di città profondamente distanti tra loro. Non c’è un altro luogo della città in cui, ponendosi al centro e guardandosi intorno, si dipanino tante Milano differenti: c’è il mondo di NoLo, percorso da una nuova vitalità generatasi proprio grazie alla cittadinanza, ma che rispetto ad esempio a Corso Buenos Aires nasce con minori servizi. Dalla parte opposta c’è appunto il mondo di Corso Buenos Aires, la parte più ricca e destinata allo shopping. Proseguendo in asse da qui, ci sono i mondi di viale Monza e la multiculturale via Padova. E poi c’è Città Studi, il quartiere universitario. Si tratta insomma di uno snodo stradale che dal punto di vista sociale ha creato una barriera alla condivisione della città. Noi vogliamo abbatterla. Da qui prende forma l’idea di realizzare un intervento che non sia di tipo monumentale e architettonico – cosa che all’origine era – ma che conferisca a questa piazza il ruolo di ricongiunzione di tanti pezzi di città diversi. Un’agorà, un punto di incontro.  

L’ATTUALE PUNTO DI INCONTRO È LOC 2026, UNO SPAZIO FISICO CHE SI TROVA IN VIA PORPORA, APERTO AI CITTADINI CHE VOGLIONO SCOPRIRE IL PROGETTO E LE SUE EVOLUZIONI.

Sì, e coincide con la fase in cui ci troviamo ora. LOC 2026 inizierà ad ospitare iniziative ed eventi che andranno ad anticipare ciò che vorremmo accadrà nella piazza. Organizzeremo anche un ciclo di incontri dedicato agli studenti del Politecnico di Milano, per raccontare le varie fasi realizzate e comprendere anche il loro punto di vista sul progetto. Allo stesso modo incontreremo altre scuole e soggetti del territorio per spiegare i tanti aspetti del progetto, dalla mobilità all’ambiente. Riguardo a quest’ultimo, durante il mio mandato da assessore allo sviluppo del territorio (dal 2006 al 2011, ndr) ci eravamo figurati il tema dei raggi verdi della città, ovvero un parco orbitale costituito da piste ciclabili e natura che cingesse la città, percorrendola dal centro alle periferie. Piazzale Loreto rappresenterà uno di questi raggi verdi. Tornando alla genesi del nucleo di questa idea, vorrei aggiungere che il primo punto fermo di questa piazza è stata la costruzione del team di lavoro. Quando è partito il bando di Reinventing Cities ero in Arcadis, società di consulenza in progettazione e ingegneria, e volevo costruire un team in grado di vincere una grade sfida: quella di un soggetto privato che per la prima volta trasforma una piazza pubblica, emblema proprio della rigenerazione che associa l’interesse pubblico e la sostenibilità economica del privato. Così abbiamo coinvolto Nhood, società specializzata in trasformazione di spazi in luoghi di vita, il team di architetti Metrogramma e MIC-HUB per quanto riguarda la mobilità infrastrutturale pubblica e privata.  

COME CI SI SENTE NEL RIPENSARE E RICOSTRUIRE UNA PIAZZA ATTRAVERSO CUI È LETTERALMENTE PASSATA LA STORIA?

Da un lato c’è una paura enorme perché l’aspettativa è alta. E potremmo prevedere degli incontri dedicati proprio al raccontare e conservare la storia di questa piazza. Nessuno della mia generazione poi ha calpestato il centro di questa piazza e sarà una grande novità: nella piazza futura, da qualunque parte vi si potrà arrivare a piedi. Dal punto di vista della mobilità l’impatto è molto basso perché ordiniamo, ma non limitiamo. Ridurremo il traffico del 5% ma crediamo che il periodo di cantiere – che sarà la terza fase – genererà naturalmente una nuova modalità di utilizzo di questa parte di città. L’ambizione, infine, e arriviamo alla quarta fase, è che questa piazza, come le grandi piazze di altri capitali, diventi un luogo che faccia parte dei tour turistici della città.  

E SE LEI DOVESSE RIFARE UN TOUR NEL PASSATO, NEI SUOI ANNI DA STUDENTE AL POLITECNICO DI MILANO, QUAL È L’INSEGNAMENTO PIÙ IMPORTANTE CHE REPUTA DI AVER QUI RICEVUTO E CHE ANCORA OGGI È PREZIOSO NEL SUO LAVORO?

Dopo la laurea in ingegneria gestionale ho aperto una società che si occupava di sistemi informativi per il controllo della gestione. Successivamente sono stato assessore all’urbanistica di Milano per cinque anni, rivestendo un ruolo pubblico focalizzato sulla rigenerazione urbana. Quindi, come direttore generale di MilanoSesto ho rivestito il ruolo di privato e oggi parte del mio lavoro è proprio far sì che gli interessi pubblici si accordino e dialoghino con gli interessi privati e la sostenibilità economica. Questo preambolo per sottolineare come io abbia iniziato a lavorare utilizzando le competenze gestionali apprese all’università ma poi ho fatto altro. Più che le competenze verticali, ciò che è rimasto è l’aver imparato un metodo, la capacità di affrontare qualsiasi tema complesso, di rendere processo qualsiasi tipo di problema. In un mondo che vertiginosamente cambia, ho la cassetta degli attrezzi che mi porto dal Poli. L’altro insegnamento ricevuto, consiste nella tendenza a dare sempre una quantificazione. Ad avere un approccio pragmatico. Soprattutto nel mondo della rigenerazione urbana, dove si associano competenze di ogni tipo e molto articolate e bisogna avere capacità di sintesi: dunque quantificare il processo, dare un senso di concretezza alle cose che stai gestendo. In poche parole: rendere numero le cose.  

TORNIAMO NEL FUTURO: COME IMMAGINA UNA SUA PASSEGGIATA IN PIAZZALE LORETO IN UN GIORNO DEL 2026?

Il centro di piazzale Loreto credo sia il luogo più irraggiungibile per i milanesi, quasi un’utopia. Ecco, calpestare quel punto e renderlo fruibile da tutti credo possa essere un buon obiettivo simbolico. Lì, all’ombra di un giorno di sole, vorrei poter brindare alla nuova piazza. 

Non ci vedi? Ti accompagna Budd-e, il robot-guida per persone non vedenti

Si stanno per concludere i cinque progetti di ricerca a tema «Equità e Ripresa» selezionati dal Polisocial Award 2021 e finanziati grazie alle donazioni del 5 per mille al Politecnico. L’emergenza sanitaria derivata dalla pandemia ha contribuito ad acuire squilibri e marginalità e a rendere concreto il rischio di un aumento delle disparità; per questo, i progetti finanziati hanno agito in una prospettiva di ripresa economica, sociale e culturale, promuovendo lo sviluppo di metodi, strategie, strumenti e tecnologie tesi a ridurre le disuguaglianze e a favorire l’accesso a risorse e opportunità da parte di persone, categorie sociali o comunità particolarmente vulnerabili. 

Il progetto BUDD-e (Blind-assistive aUtonomous Droid Device) si inserisce in questo quadro: il team, composto da ricercatori e ricercatrici provenienti da diversi dipartimenti del Poli (DEIB, DIG, DESIGN e DABC), ha lavorato per sviluppare un robot in grado di garantire più autonomia alle persone non vedenti e ipovedenti, guidandole in attività quotidiane come una corsa al parco o un giro al centro commerciale. “L’idea iniziale era fornire alle persone cieche e ipovedenti uno strumento che le rendesse autonome nella corsa, ma poi il progetto si è esteso ad altri ambiti quando ci siamo resi conto, insieme ai nostri partner, che esistono diverse difficoltà di accessibilità negli spazi pubblici”, ci spiega il prof. Marcello Farina (Dipartimento di Elettronica, Informazione e Bioingegneria), responsabile scientifico del progetto. 

Credits: marcato
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IN CORSO LE SPERIMENTAZIONI 

Prima di iniziare, i ricercatori e le ricercatrici hanno sottoposto a diversi utenti ciechi e ipovedenti una serie di questionari, per capire quali fossero le loro abitudini e le loro esigenze: è emerso che la maggior parte di loro (il 75%) si muoveva solo se accompagnato da amici, parenti o volontari, e che l’1% non usciva addirittura di casa per paura di farsi del male. 

Budd-e vuole sostituirsi all’accompagnatore per poter dare più libertà alle persone non vedenti e ipovedenti: “L’idea è renderlo un servizio pubblico, un aiuto di cui usufruire quando si va al supermercato, al parco o alla stazione”, spiega Farina. “I due luoghi dove faremo le prime sperimentazioni sono l’Ospedale Niguarda e il Centro Sportivo Giurati del Politecnico: al Niguarda probabilmente il test sarà a giugno, mentre al Centro Sportivo non l’abbiamo ancora fissato, ma entro settembre si concluderà il tutto con un evento finale”. 

ROBOT E RADAR PER LA VITA QUOTIDIANA 

Budd-e ha le stesse dimensioni e la stessa mobilità di una sedia a rotelle, ed è una versione 2.0 di Yape, un robot già in commercio utilizzato per la distribuzione ultimo miglio (ovvero l’ultimo step della catena di approvvigionamento, che avviene con la consegna del prodotto al cliente). 

Team Kick-off
Team Kick-off

Scopri di più su Yape a questo link 

Rispetto a Yape, la modifica più visibile di Budd-e è l’aggiunta del “cordino” che serve a guidare l’utente: “Il cordino è attivo, dà una tensione di 0,6 chilogrammi forza all’utente, che così sa dove andare: Budd-e non tira il braccio, e si muove solo quando si muove l’utente, adattandosi alla sua velocità e mantenendo sempre la stessa distanza”, spiega Farina. Alimentato con batterie elettriche, per funzionare Budd-e deve prima mappare il luogo dove si muoverà: nei luoghi chiusi (come ospedali o centri commerciali) è necessaria la tecnologia LIDAR (una tecnica di telerilevamento aereo, Light Detection and Ranging), mentre per parchi e spazi aperti è sufficiente la mappatura GPS. 

“Budd-e è un work in progress”, specifica Farina: “Anche la versione che testeremo a giugno non sarà definitiva, ma continueremo a migliorarla: Le modifiche più importanti che vogliamo apportare sono l’ottimizzazione del sistema di trazione del cordino e l’integrazione di un segnalatore acustico”. 

DONA ANCHE TU IL TUO 5 PER MILLE AL POLITECNICO DI MILANO E SOSTIENI LA RICERCA: SCOPRI COME A QUESTO LINK https://www.dona.polimi.it/il-5-x-mille/ 

Avviata la missione JUICE verso Giove

Il 14 aprile, alle 14:14 ora italiana, è stata lanciata dalla base di Kourou, in Guyana francese, JUICE (Jupiter Icy Moons Explorer), la sonda dell’Agenzia Spaziale Europea che nel 2031 raggiungerà il sistema di Giove per effettuare osservazioni dettagliate del pianeta gassoso e di tre delle sue lune: Callisto, Europa e Ganimede.

Anche il Politecnico di Milano è coinvolto nella missione: i ricercatori del MetroSpace Lab del Dipartimento di Meccanica, situato presso il Polo di Lecco, hanno contribuito alla progettazione di uno dei principali strumenti a bordo della sonda, MAJIS (Moons and Jupiter Imaging Spectrometer), uno spettrometro ad immagini che opera su due differenti canali spettrali, vicino infrarosso e infrarosso. Lo strumento è stato costruito da un consorzio francese e italiano, (Principal Investigator francese, Francois Poulet dello IAS di Parigi, con Co-Principal Investigator italiano, Giuseppe Piccioni dell’INAF di Roma) con una partecipazione belga; la testa ottica dello strumento è il contributo italiano.

In particolare, il team del Politecnico ha guidato la fase iniziale del progetto termomeccanico, studiando un sistema di raffreddamento passivo in grado di mantenere il sensore infrarosso a temperature inferiori ai 90 K (-183,15 °C) e l’intero sistema ottico a temperature inferiori ai 140 K (-133,15 °C), anche se il satellite opererà a temperature prossime a quelle terrestri.

Il progetto esecutivo e la realizzazione dello strumento sono stati condotti dall’azienda Leonardo, su finanziamento dell’Agenzia Spaziale Italiana, con la supervisione del team scientifico, all’interno del quale resterà attivo anche nella fase di volo e operativa della missione il gruppo del Politecnico, prima per effettuare un affinamento del modello termico dello strumento, utilizzando i dati raccolti in fase di crociera, poi per supportare la pianificazione delle osservazioni.

Per maggiori informazioni: Space @polimi

Nuovo primato digitale per l’Italia: una chiacchierata con Giuseppe Di Franco

“È un momento di grande evoluzione del mercato italiano per quanto riguarda la tecnologia del digitale, guidato da due trend fondamentali: gli investimenti europei (come quelli del PNRR) e i processi trasformativi sul digitale. Alla testa di questi due trend ci sono i grandi gruppi industriali, perché uno dei temi da tenere in considerazione è quello delle dimensioni che servono per avere un impatto nel settore del digitale”.  

A parlare è Giuseppe Di Franco, Consigliere Delegato del Gruppo Lutech, Amministratore Delegato di Lutech Advanced Solutions e Alumnus politecnico in ingegneria gestionale. Ci spiega che, da soli, in questo contesto, si fa ben poco; e questa è, come sappiamo, una criticità nel tessuto industriale italiano, caratterizzato da tante imprese piccole e medie (seppur eccellenti). “Uno dei grandi temi di efficienza del sistema economico italiano sta nella bassa produttività del lavoro rispetto ai grandi partner europei. Il percorso di miglioramento della produttività, della sicurezza nazionale, della sovranità dei dati, è connesso con importanti investimenti sul digitale. Che devono essere fatti coerentemente con gli obiettivi nazionali”.  

È una delle considerazioni che ha portato alla trattativa per l’acquisizione di Atos Italia da parte di Lutech, in partnership con i fondi Apax e con il Gruppo Atos. “Abbiamo lavorato per creare un campione del digitale in Italia, puntiamo a superare il miliardo di euro di fatturato in circa un anno e mezzo con una forza lavoro di oltre 5000 persone. Si tratta di un player di dimensioni rilevantissime a livello internazionale”.

Giuseppe Di Franco
INVESTIMENTI ITALIANI PER MOLTIPLICARE LA NOSTRA CAPACITÀ DI CALCOLO 

Il tema è importante perché va nella direzione di un primato del sistema Italia sulla capacità di innovazione e di progettazione. “Non credo che competeremo mai con la Cina sul costo del lavoro, no? Quindi bisogna puntare sulla capacità di calcolo per progettare e uscire dalla trappola della competizione sul costo del lavoro. Che è mortificante, e ha sempre portato a effetti devastanti”. Chiediamo a Di Franco quali siano i prossimi passi in questo processo.

“A fine 2022 è stato inaugurato dal Presidente della Repubblica il progetto informatico più rilevante degli ultimi anni. Mi riferisco al supercomputer Leonardo, che raddoppia la capacità di calcolo nazionale. È il quarto super computer più potente al mondo e è dedicato alla ricerca scientifica e tecnologica. Con tecnologia Atos e gestito dal consorzio universitario Cineca grazie anche alle competenze del team dell’allora Atos Italia, è accessibile da università e da aziende in tutta Italia. Leonardo è una delle dimostrazioni del fatto che il nostro Paese stia investendo per dotarsi di una capacità elaborativa di primissimo piano a livello sia europeo che internazionale. Che, direi, è un elemento basilare per poter parlare dello sviluppo del digitale”. 

I GEMELLI DIGITALI, DAI CONTATORI DELLA LUCE ALL’INTERO PIANETA 

Direttamente collegato alla potenza di calcolo, l’altro elemento di crescita è la nostra capacità di modellizzazione. “Da un modello grossolano del corpo umano, per esempio, non posso attendermi di poter studiare il DNA. Quanto più il modello del corpo diventa scomponibile in parti con una migliore risoluzione e sempre più fedeli ai loro gemelli fisici, tanto più efficace, dal punto di vista predittivo, sarà la ricerca scientifica che posso fare”. Parliamo, ovviamente, di Digital Twin, termine relativamente nuovo per definire una millenaria ambizione della nostra specie: quella di riuscire, avendo tutte le informazioni a disposizione, a prevedere lo sviluppo (cioè ottenere un modello) di qualsiasi fenomeno.  

“E qui tocchiamo due temi importanti. Prima di tutto, come dicevamo, la capacità di calcolo in crescita esponenziale. Stiamo cambiando l’ordine di grandezza di quello che si può simulare, di quello che abbiamo simulato e pensato fino ad oggi, che rischia fortunatamente di apparire, molto presto, obsoleto. A partire dal concreto: pensiamo ad esempio all’utilizzo del Digital Twin per la gestione delle città, per la progettazione di elementi tecnologici complessi, per il trattamento di organi del corpo con farmaci rivoluzionari, per studi di meteorologia, per tecnologie predittive… il limite, come si suol dire, è il cielo”.  

Atos – Supercomputer
Cineca – Giacomo Maestri
PESCARE IN LAGHI DI DATI NON È UN GIOCO DA RAGAZZI 

La criticità di tutto questo sta nella complessità e nel numero delle variabili delle informazioni che possiamo raccogliere a priori; l’errore è dietro l’angolo, e si porta dietro il rischio di un effetto deriva. “In linguaggio tecnologico si parla di costruzione di data lake; in generale, comunque, stiamo parlando di un punto di arrivo che non si accende con un interruttore on/off. È un percorso che ha degli step intermedi, tutte le grandi imprese stanno lavorando in maniera molto seria nella costruzione di questi dataset che hanno come presupposto la rilevazione dei dati (per esempio con l’IoT). Per citare un caso domestico, Enel ha realizzato uno dei più grandi data lake al mondo con i dati di lettura e provenienti dai contatori. Questo dà delle informazioni, per esempio sui consumi energetici, sulla possibilità di bilanciamento della rete, sul corretto utilizzo delle infrastrutture esistenti, eccetera”. 

Un’altra buona notizia è che questo è solo l’inizio. “La ricerca scientifica e tecnologica ci sta portando verso il quantum computing, che ci farà cambiare ulteriormente ordini di grandezza quando passeremo a applicazioni che utilizzano una capacità quantica invece di quella parallela”.  

SE LE MACCHINE PROGETTANO ALTRE MACCHINE, E SBAGLIANO, DI CHI È LA RESPONSABILITÀ? 

Ipotizziamo di essere alla guida. A un certo punto, il meccanismo dei freni si inceppa: c’è stato un errore di progettazione nell’automobile, che non era sufficientemente ben progettata per sostenere un certo utilizzo. Di chi è la responsabilità? Oggi siamo al punto di poter progettare un’automobile attraverso l’utilizzo Digital Twin: in pratica, sono le macchine a progettare altre macchine, dati i nostri desiderata. Questo modo di progettare dovrebbe ridurre ulteriormente il (già basso) margine di errore. Ma l’errore non è mai del tutto eliminabile e, nel momento in cui si verificano, ci chiediamo di chi sia la responsabilità. Abbiamo però l’impressione che l’utente umano chieda più garanzie, al digitale, in termini di sicurezza, di quante ne chieda a un suo simile. Allo stesso modo in cui ci poniamo dubbi, legittimi, sulla questione della guida autonoma. Poi c’è un tema di opacità delle scelte. La questione è questa: possiamo fidarci di una macchina come ci fidiamo di un umano

“Il nuovo induce sempre preoccupazione”, risponde Di Franco “Se passi dal cavallo all’automobile, ti preoccupi dell’automobile, oggi abbiamo il tema dell’auto self driving, domani chissà che altre domande ci porremo. La novità introduce l’incertezza, quindi ne siamo attratti ma anche spaventati. E questo è un altro elemento culturale: un paese evoluto deve avere un sistema scolastico e universitario evoluto, in grado di preparare la popolazione al cambiamento”.

È QUI CHE ENTRA IN GIOCO LA SICUREZZA INFORMATICA…  

“Digitalizzazione e cyber security devono crescere in parallelo, come anche le competenze richieste per gestirle, altrimenti è chiaro che si può andare incontro ai problemi che ogni tanto abbiamo visto apparire nei casi di cronaca. È un tema culturale e uno dei molti che evidenziano il ruolo importante di istituzioni come il Politecnico di Milano: le università come il Poli sono un motore di creazione di competenze (e cito per esempio il corso di laurea in high performance computing) come anche un motore di trasformazione culturale. Un altro nodo cruciale è la resistenza all’innovazione. Quante volte ci troviamo nelle imprese a parlare di questi argomenti e ci sentiamo rispondere, soprattutto dalla media e piccola impresa: non ci serve, non l’abbiamo mai usato, ne abbiamo sempre fatto a meno… ma la digitalizzazione richiede una sua filiera: se un’azienda manifatturiera vuole progettare digitalmente un’automobile, ho bisogno di fornitori che a loro volta siano digitalizzati. È il grande tema del coinvolgimento delle piccole e medie imprese come un elemento essenziale di sviluppo del Paese. Anche perché sono queste a rappresentare la nostra ossatura economica”. Anche in questa trasformazione, la collaborazione tra sistema industriale e università è centrale. In questo senso, Lutech Advances Solutios (già Atos Italia) e Politecnico di Milano hanno recentemente firmato un accordo triennale per sviluppare progetti condivisi di didattica, trasferimento tecnologico e ricerca applicata ad ambiti di frontiera: proprio quelli di cui abbiamo parlato qui, nel campo della digitalizzazione, quali Digital Twin, High Performance Computing, Intelligenza Artificiale, Cybersecurity e Internet of Things. “È un accordo che emerge naturalmente da un rapporto di lunghissimo corso, che ha visto il Politecnico coinvolto anche nella formazione dei nostri manager per saper gestire questo percorso di cambiamento. Il rapporto col Politecnico di Milano è un tassello essenziale del nostro percorso strategico e rappresenta un caso esemplare per il sistema Italia. La cooperazione intensiva con il sistema universitario significa portare innovazione nelle industrie e riuscire anche a pensare nuovi modelli di azione”.  

Water wars: l’acqua è il nuovo petrolio? No, di più 

Siamo abituati a aprire il rubinetto e veder sgorgare acqua in quantità, senza preoccuparci del fatto che potrebbe finire. Diamo per scontato che ne avremo a sufficienza per dissetarci, lavarci, ma anche per produrre beni primari come cibo e energia elettrica. Sebbene nel nostro Paese questo atteggiamento stia cambiando a causa della siccità, in alcuni Paesi in via di sviluppo l’acqua è un bene per il quale si arriva anche a uccidere: uno studio condotto da un gruppo di ricercatori del Poli e pubblicato sulla prestigiosa rivista Nature Sustainability ha indagato proprio il legame che esiste tra acqua e conflitti violenti nel bacino del Lago Ciad, in Africa, cercando di capire in particolare quale ruolo giochi questa risorsa nell’innesco del conflitto stesso. Abbiamo parlato con due degli autori, i ricercatori Nikolas Galli e Maria Cristina Rulli, del Dipartimento di Ingegneria Civile e Ambientale: ecco cosa ci hanno raccontato. 

Nikolas Galli
Maria Cristina Rulli
CONFLITTI, NON GUERRE 

Sebbene la locuzione comunemente utilizzata in inglese sia water wars, in questo caso parlare di guerre per l’acqua, ci spiegano Galli e Rulli, è sbagliato: “Finora non abbiamo mai avuto evidenze di guerre per l’acqua nella storia, se non forse una ai tempi dei Sumeri nel III millennio a.C.”, sottolinea Rulli. “Il termine guerra nel diritto internazionale ha il significato di aggressione da parte di uno Stato verso un altro, nei casi da noi investigati è quindi più corretto parlare di conflitti, non di guerre”. 

L’ACQUA È SOLO UNO DEI FATTORI IN GIOCO 

“Abbiamo scelto di concentrarci sull’area del bacino del Lago Ciad perché è una regione che soffre di gravi fragilità istituzionali e ambientali”, ci spiega Galli. “È anche spesso rappresentata in modo distorto, e per questo abbiamo deciso di analizzare la questione dei conflitti nell’area in modo più scientifico”. Una delle conclusioni a cui giunge l’analisi è che l’acqua è solo uno dei fattori in gioco nell’ innesco dei conflitti: “Ci sono driver tipici del contesto socioeconomico dietro l’insorgenza dei conflitti, come motivi religiosi o politici che spesso interagiscono tra loro e con le dinamiche idrologiche”, specifica Galli. Molto spesso, poi, le zone più prone al conflitto sono quelle che già hanno alle spalle una storia di conflitti. E il cambiamento climatico, che si porta dietro la minaccia della desertificazione, è un acceleratore di questi driver

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CONFLITTI PER L’ACQUA IN EUROPA 

Visti i problemi di scarsità d’acqua e siccità che si fanno sempre più seri anche nel Vecchio Continente, in futuro toccherà a noi essere i protagonisti delle water wars? “Spero di no”, commenta Rulli. “Siamo in una fase storica un po’ diversa e spero non avremo dei conflitti violenti come quelli che si vedono in Africa Centrale, ma se parliamo di conflitti per la risorsa, quelli esistono già. Quando la risorsa è scarsa e ci sono più utenti che la utilizzano (come il settore agricolo, energetico o il comparto domestico), gestire la risorsa idrica in modo scorretto può determinare situazioni conflittuali”. Stiamo parlando di conflitto sociale ed economico, naturalmente, che non raggiunge escalation di violenza, ma che può comunque avere conseguenze importanti sul nostro modo di vivere. A tal proposito, Rulli cita un episodio avvenuto in Texas e New Mexico durante un forte periodo di siccità: “Gli agricoltori vendevano l’acqua che avevano in concessione per uso agricolo ai produttori di energia, che la pagavano a caro prezzo: il risultato è che invece di produrre cibo, si produceva energia”.  

L’acqua è dunque il nuovo petrolio? “L’acqua ha più valore del petrolio, e finalmente ora l’abbiamo capito. L’accesso all’acqua e ai servizi igienico-sanitari sono riconosciuti infatti dalle Nazioni Unite come diritti umani. In quanto tale ad essa va attribuito un valore ma non un prezzo”, afferma Rulli. 

OLTRE L’ACQUA: UN NUOVO STUDIO IN ARRIVO 

Il 6 aprile è uscito un nuovo articolo su Nature Water che prende in considerazione anche il cibo, come risorsa produttiva, estendendo il tema trattato nello studio di Nature Sustainability: “Abbiamo approfondito il nesso acqua-conflitto fino a includere anche il cibo”, spiega Rulli. “Ci siamo concentrati sui conflitti urbani del Centro America, analizzando il ruolo dell’acqua non solo come risorsa strategica a sé stante, ma anche come risorsa per la produzione di cibo”.

L’IMPORTANZA DELLA TRANSDISCIPLINARITÀ 

Concludiamo con una domanda: cosa vi ha insegnato questa ricerca? “L’importanza della transdisciplinarità”, risponde Rulli. “Avere una base scientifica solida è fondamentale, ma non sufficiente: bisogna essere umili e aperti alla collaborazione con altri colleghi esperti in altri ambiti, specie quando si trattano problematiche sociali globali come in questo caso”. Sulla stessa linea la risposta di Galli, che afferma: “Il momento più importante della nostra ricerca è stato quello in cui ci siamo accorti che riuscivamo a vedere meglio ciò che cercavamo accettando la complessità del problema, senza cercare di semplificarlo. Quando si analizzano fenomeni così importanti e allo stesso tempo complessi, bisogna essere umili, e studiarli con la consapevolezza che, spesso, non abbiamo gli strumenti per capirli del tutto”.