Avviata la missione JUICE verso Giove

Il 14 aprile, alle 14:14 ora italiana, è stata lanciata dalla base di Kourou, in Guyana francese, JUICE (Jupiter Icy Moons Explorer), la sonda dell’Agenzia Spaziale Europea che nel 2031 raggiungerà il sistema di Giove per effettuare osservazioni dettagliate del pianeta gassoso e di tre delle sue lune: Callisto, Europa e Ganimede.

Anche il Politecnico di Milano è coinvolto nella missione: i ricercatori del MetroSpace Lab del Dipartimento di Meccanica, situato presso il Polo di Lecco, hanno contribuito alla progettazione di uno dei principali strumenti a bordo della sonda, MAJIS (Moons and Jupiter Imaging Spectrometer), uno spettrometro ad immagini che opera su due differenti canali spettrali, vicino infrarosso e infrarosso. Lo strumento è stato costruito da un consorzio francese e italiano, (Principal Investigator francese, Francois Poulet dello IAS di Parigi, con Co-Principal Investigator italiano, Giuseppe Piccioni dell’INAF di Roma) con una partecipazione belga; la testa ottica dello strumento è il contributo italiano.

In particolare, il team del Politecnico ha guidato la fase iniziale del progetto termomeccanico, studiando un sistema di raffreddamento passivo in grado di mantenere il sensore infrarosso a temperature inferiori ai 90 K (-183,15 °C) e l’intero sistema ottico a temperature inferiori ai 140 K (-133,15 °C), anche se il satellite opererà a temperature prossime a quelle terrestri.

Il progetto esecutivo e la realizzazione dello strumento sono stati condotti dall’azienda Leonardo, su finanziamento dell’Agenzia Spaziale Italiana, con la supervisione del team scientifico, all’interno del quale resterà attivo anche nella fase di volo e operativa della missione il gruppo del Politecnico, prima per effettuare un affinamento del modello termico dello strumento, utilizzando i dati raccolti in fase di crociera, poi per supportare la pianificazione delle osservazioni.

Per maggiori informazioni: Space @polimi

Nuovo primato digitale per l’Italia: una chiacchierata con Giuseppe Di Franco

“È un momento di grande evoluzione del mercato italiano per quanto riguarda la tecnologia del digitale, guidato da due trend fondamentali: gli investimenti europei (come quelli del PNRR) e i processi trasformativi sul digitale. Alla testa di questi due trend ci sono i grandi gruppi industriali, perché uno dei temi da tenere in considerazione è quello delle dimensioni che servono per avere un impatto nel settore del digitale”.  

A parlare è Giuseppe Di Franco, Consigliere Delegato del Gruppo Lutech, Amministratore Delegato di Lutech Advanced Solutions e Alumnus politecnico in ingegneria gestionale. Ci spiega che, da soli, in questo contesto, si fa ben poco; e questa è, come sappiamo, una criticità nel tessuto industriale italiano, caratterizzato da tante imprese piccole e medie (seppur eccellenti). “Uno dei grandi temi di efficienza del sistema economico italiano sta nella bassa produttività del lavoro rispetto ai grandi partner europei. Il percorso di miglioramento della produttività, della sicurezza nazionale, della sovranità dei dati, è connesso con importanti investimenti sul digitale. Che devono essere fatti coerentemente con gli obiettivi nazionali”.  

È una delle considerazioni che ha portato alla trattativa per l’acquisizione di Atos Italia da parte di Lutech, in partnership con i fondi Apax e con il Gruppo Atos. “Abbiamo lavorato per creare un campione del digitale in Italia, puntiamo a superare il miliardo di euro di fatturato in circa un anno e mezzo con una forza lavoro di oltre 5000 persone. Si tratta di un player di dimensioni rilevantissime a livello internazionale”.

Giuseppe Di Franco
INVESTIMENTI ITALIANI PER MOLTIPLICARE LA NOSTRA CAPACITÀ DI CALCOLO 

Il tema è importante perché va nella direzione di un primato del sistema Italia sulla capacità di innovazione e di progettazione. “Non credo che competeremo mai con la Cina sul costo del lavoro, no? Quindi bisogna puntare sulla capacità di calcolo per progettare e uscire dalla trappola della competizione sul costo del lavoro. Che è mortificante, e ha sempre portato a effetti devastanti”. Chiediamo a Di Franco quali siano i prossimi passi in questo processo.

“A fine 2022 è stato inaugurato dal Presidente della Repubblica il progetto informatico più rilevante degli ultimi anni. Mi riferisco al supercomputer Leonardo, che raddoppia la capacità di calcolo nazionale. È il quarto super computer più potente al mondo e è dedicato alla ricerca scientifica e tecnologica. Con tecnologia Atos e gestito dal consorzio universitario Cineca grazie anche alle competenze del team dell’allora Atos Italia, è accessibile da università e da aziende in tutta Italia. Leonardo è una delle dimostrazioni del fatto che il nostro Paese stia investendo per dotarsi di una capacità elaborativa di primissimo piano a livello sia europeo che internazionale. Che, direi, è un elemento basilare per poter parlare dello sviluppo del digitale”. 

I GEMELLI DIGITALI, DAI CONTATORI DELLA LUCE ALL’INTERO PIANETA 

Direttamente collegato alla potenza di calcolo, l’altro elemento di crescita è la nostra capacità di modellizzazione. “Da un modello grossolano del corpo umano, per esempio, non posso attendermi di poter studiare il DNA. Quanto più il modello del corpo diventa scomponibile in parti con una migliore risoluzione e sempre più fedeli ai loro gemelli fisici, tanto più efficace, dal punto di vista predittivo, sarà la ricerca scientifica che posso fare”. Parliamo, ovviamente, di Digital Twin, termine relativamente nuovo per definire una millenaria ambizione della nostra specie: quella di riuscire, avendo tutte le informazioni a disposizione, a prevedere lo sviluppo (cioè ottenere un modello) di qualsiasi fenomeno.  

“E qui tocchiamo due temi importanti. Prima di tutto, come dicevamo, la capacità di calcolo in crescita esponenziale. Stiamo cambiando l’ordine di grandezza di quello che si può simulare, di quello che abbiamo simulato e pensato fino ad oggi, che rischia fortunatamente di apparire, molto presto, obsoleto. A partire dal concreto: pensiamo ad esempio all’utilizzo del Digital Twin per la gestione delle città, per la progettazione di elementi tecnologici complessi, per il trattamento di organi del corpo con farmaci rivoluzionari, per studi di meteorologia, per tecnologie predittive… il limite, come si suol dire, è il cielo”.  

Atos – Supercomputer
Cineca – Giacomo Maestri
PESCARE IN LAGHI DI DATI NON È UN GIOCO DA RAGAZZI 

La criticità di tutto questo sta nella complessità e nel numero delle variabili delle informazioni che possiamo raccogliere a priori; l’errore è dietro l’angolo, e si porta dietro il rischio di un effetto deriva. “In linguaggio tecnologico si parla di costruzione di data lake; in generale, comunque, stiamo parlando di un punto di arrivo che non si accende con un interruttore on/off. È un percorso che ha degli step intermedi, tutte le grandi imprese stanno lavorando in maniera molto seria nella costruzione di questi dataset che hanno come presupposto la rilevazione dei dati (per esempio con l’IoT). Per citare un caso domestico, Enel ha realizzato uno dei più grandi data lake al mondo con i dati di lettura e provenienti dai contatori. Questo dà delle informazioni, per esempio sui consumi energetici, sulla possibilità di bilanciamento della rete, sul corretto utilizzo delle infrastrutture esistenti, eccetera”. 

Un’altra buona notizia è che questo è solo l’inizio. “La ricerca scientifica e tecnologica ci sta portando verso il quantum computing, che ci farà cambiare ulteriormente ordini di grandezza quando passeremo a applicazioni che utilizzano una capacità quantica invece di quella parallela”.  

SE LE MACCHINE PROGETTANO ALTRE MACCHINE, E SBAGLIANO, DI CHI È LA RESPONSABILITÀ? 

Ipotizziamo di essere alla guida. A un certo punto, il meccanismo dei freni si inceppa: c’è stato un errore di progettazione nell’automobile, che non era sufficientemente ben progettata per sostenere un certo utilizzo. Di chi è la responsabilità? Oggi siamo al punto di poter progettare un’automobile attraverso l’utilizzo Digital Twin: in pratica, sono le macchine a progettare altre macchine, dati i nostri desiderata. Questo modo di progettare dovrebbe ridurre ulteriormente il (già basso) margine di errore. Ma l’errore non è mai del tutto eliminabile e, nel momento in cui si verificano, ci chiediamo di chi sia la responsabilità. Abbiamo però l’impressione che l’utente umano chieda più garanzie, al digitale, in termini di sicurezza, di quante ne chieda a un suo simile. Allo stesso modo in cui ci poniamo dubbi, legittimi, sulla questione della guida autonoma. Poi c’è un tema di opacità delle scelte. La questione è questa: possiamo fidarci di una macchina come ci fidiamo di un umano

“Il nuovo induce sempre preoccupazione”, risponde Di Franco “Se passi dal cavallo all’automobile, ti preoccupi dell’automobile, oggi abbiamo il tema dell’auto self driving, domani chissà che altre domande ci porremo. La novità introduce l’incertezza, quindi ne siamo attratti ma anche spaventati. E questo è un altro elemento culturale: un paese evoluto deve avere un sistema scolastico e universitario evoluto, in grado di preparare la popolazione al cambiamento”.

È QUI CHE ENTRA IN GIOCO LA SICUREZZA INFORMATICA…  

“Digitalizzazione e cyber security devono crescere in parallelo, come anche le competenze richieste per gestirle, altrimenti è chiaro che si può andare incontro ai problemi che ogni tanto abbiamo visto apparire nei casi di cronaca. È un tema culturale e uno dei molti che evidenziano il ruolo importante di istituzioni come il Politecnico di Milano: le università come il Poli sono un motore di creazione di competenze (e cito per esempio il corso di laurea in high performance computing) come anche un motore di trasformazione culturale. Un altro nodo cruciale è la resistenza all’innovazione. Quante volte ci troviamo nelle imprese a parlare di questi argomenti e ci sentiamo rispondere, soprattutto dalla media e piccola impresa: non ci serve, non l’abbiamo mai usato, ne abbiamo sempre fatto a meno… ma la digitalizzazione richiede una sua filiera: se un’azienda manifatturiera vuole progettare digitalmente un’automobile, ho bisogno di fornitori che a loro volta siano digitalizzati. È il grande tema del coinvolgimento delle piccole e medie imprese come un elemento essenziale di sviluppo del Paese. Anche perché sono queste a rappresentare la nostra ossatura economica”. Anche in questa trasformazione, la collaborazione tra sistema industriale e università è centrale. In questo senso, Lutech Advances Solutios (già Atos Italia) e Politecnico di Milano hanno recentemente firmato un accordo triennale per sviluppare progetti condivisi di didattica, trasferimento tecnologico e ricerca applicata ad ambiti di frontiera: proprio quelli di cui abbiamo parlato qui, nel campo della digitalizzazione, quali Digital Twin, High Performance Computing, Intelligenza Artificiale, Cybersecurity e Internet of Things. “È un accordo che emerge naturalmente da un rapporto di lunghissimo corso, che ha visto il Politecnico coinvolto anche nella formazione dei nostri manager per saper gestire questo percorso di cambiamento. Il rapporto col Politecnico di Milano è un tassello essenziale del nostro percorso strategico e rappresenta un caso esemplare per il sistema Italia. La cooperazione intensiva con il sistema universitario significa portare innovazione nelle industrie e riuscire anche a pensare nuovi modelli di azione”.  

Water wars: l’acqua è il nuovo petrolio? No, di più 

Siamo abituati a aprire il rubinetto e veder sgorgare acqua in quantità, senza preoccuparci del fatto che potrebbe finire. Diamo per scontato che ne avremo a sufficienza per dissetarci, lavarci, ma anche per produrre beni primari come cibo e energia elettrica. Sebbene nel nostro Paese questo atteggiamento stia cambiando a causa della siccità, in alcuni Paesi in via di sviluppo l’acqua è un bene per il quale si arriva anche a uccidere: uno studio condotto da un gruppo di ricercatori del Poli e pubblicato sulla prestigiosa rivista Nature Sustainability ha indagato proprio il legame che esiste tra acqua e conflitti violenti nel bacino del Lago Ciad, in Africa, cercando di capire in particolare quale ruolo giochi questa risorsa nell’innesco del conflitto stesso. Abbiamo parlato con due degli autori, i ricercatori Nikolas Galli e Maria Cristina Rulli, del Dipartimento di Ingegneria Civile e Ambientale: ecco cosa ci hanno raccontato. 

Nikolas Galli
Maria Cristina Rulli
CONFLITTI, NON GUERRE 

Sebbene la locuzione comunemente utilizzata in inglese sia water wars, in questo caso parlare di guerre per l’acqua, ci spiegano Galli e Rulli, è sbagliato: “Finora non abbiamo mai avuto evidenze di guerre per l’acqua nella storia, se non forse una ai tempi dei Sumeri nel III millennio a.C.”, sottolinea Rulli. “Il termine guerra nel diritto internazionale ha il significato di aggressione da parte di uno Stato verso un altro, nei casi da noi investigati è quindi più corretto parlare di conflitti, non di guerre”. 

L’ACQUA È SOLO UNO DEI FATTORI IN GIOCO 

“Abbiamo scelto di concentrarci sull’area del bacino del Lago Ciad perché è una regione che soffre di gravi fragilità istituzionali e ambientali”, ci spiega Galli. “È anche spesso rappresentata in modo distorto, e per questo abbiamo deciso di analizzare la questione dei conflitti nell’area in modo più scientifico”. Una delle conclusioni a cui giunge l’analisi è che l’acqua è solo uno dei fattori in gioco nell’ innesco dei conflitti: “Ci sono driver tipici del contesto socioeconomico dietro l’insorgenza dei conflitti, come motivi religiosi o politici che spesso interagiscono tra loro e con le dinamiche idrologiche”, specifica Galli. Molto spesso, poi, le zone più prone al conflitto sono quelle che già hanno alle spalle una storia di conflitti. E il cambiamento climatico, che si porta dietro la minaccia della desertificazione, è un acceleratore di questi driver

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CONFLITTI PER L’ACQUA IN EUROPA 

Visti i problemi di scarsità d’acqua e siccità che si fanno sempre più seri anche nel Vecchio Continente, in futuro toccherà a noi essere i protagonisti delle water wars? “Spero di no”, commenta Rulli. “Siamo in una fase storica un po’ diversa e spero non avremo dei conflitti violenti come quelli che si vedono in Africa Centrale, ma se parliamo di conflitti per la risorsa, quelli esistono già. Quando la risorsa è scarsa e ci sono più utenti che la utilizzano (come il settore agricolo, energetico o il comparto domestico), gestire la risorsa idrica in modo scorretto può determinare situazioni conflittuali”. Stiamo parlando di conflitto sociale ed economico, naturalmente, che non raggiunge escalation di violenza, ma che può comunque avere conseguenze importanti sul nostro modo di vivere. A tal proposito, Rulli cita un episodio avvenuto in Texas e New Mexico durante un forte periodo di siccità: “Gli agricoltori vendevano l’acqua che avevano in concessione per uso agricolo ai produttori di energia, che la pagavano a caro prezzo: il risultato è che invece di produrre cibo, si produceva energia”.  

L’acqua è dunque il nuovo petrolio? “L’acqua ha più valore del petrolio, e finalmente ora l’abbiamo capito. L’accesso all’acqua e ai servizi igienico-sanitari sono riconosciuti infatti dalle Nazioni Unite come diritti umani. In quanto tale ad essa va attribuito un valore ma non un prezzo”, afferma Rulli. 

OLTRE L’ACQUA: UN NUOVO STUDIO IN ARRIVO 

Il 6 aprile è uscito un nuovo articolo su Nature Water che prende in considerazione anche il cibo, come risorsa produttiva, estendendo il tema trattato nello studio di Nature Sustainability: “Abbiamo approfondito il nesso acqua-conflitto fino a includere anche il cibo”, spiega Rulli. “Ci siamo concentrati sui conflitti urbani del Centro America, analizzando il ruolo dell’acqua non solo come risorsa strategica a sé stante, ma anche come risorsa per la produzione di cibo”.

L’IMPORTANZA DELLA TRANSDISCIPLINARITÀ 

Concludiamo con una domanda: cosa vi ha insegnato questa ricerca? “L’importanza della transdisciplinarità”, risponde Rulli. “Avere una base scientifica solida è fondamentale, ma non sufficiente: bisogna essere umili e aperti alla collaborazione con altri colleghi esperti in altri ambiti, specie quando si trattano problematiche sociali globali come in questo caso”. Sulla stessa linea la risposta di Galli, che afferma: “Il momento più importante della nostra ricerca è stato quello in cui ci siamo accorti che riuscivamo a vedere meglio ciò che cercavamo accettando la complessità del problema, senza cercare di semplificarlo. Quando si analizzano fenomeni così importanti e allo stesso tempo complessi, bisogna essere umili, e studiarli con la consapevolezza che, spesso, non abbiamo gli strumenti per capirli del tutto”. 

La School of Management del Politecnico di Milano è la 4° migliore in Europa

Il panorama italiano delle business schools è in crescita, secondo QS Online MBA Ranking: Europe 2023, la periodica classifica di Quacquarelli Symonds sulla qualità delle business school a livello internazionale. 

In questo panorama, già un segnale positivo per il nostro Paese, la School of Management del Politecnico di Milano si posiziona al primo posto in Italia e al 4° in Europa, dietro a IE Business School (Spagna), Warwick Business School e Imperial College Business School (entrambe nel Regno Unito, il paese della zona europea più rappresentato in questo ranking per numero di business school).  La classifica comprende 26 programmi europei di MBA online. 

Credits: Dylan Gillis on Unsplash

La nostra scuola ha ottenuto risultati eccellenti nell’indicatore “Faculty & Teaching”, che in particolare ci posiziona primi in Europa per la qualità dei docenti e dell’insegnamento (la survey ha coinvolto oltre 100.000 profili accademici in tutto il mondo). La SoM primeggia anche nei parametri Employability, cioè il grado di occupabilità degli iscritti, dove ci troviamo al 5° posto in Europa, e per Class Experience, esperienza di learning offerta ai partecipanti, che ci vede al 3° posto. 

«Questo riconoscimento arriva a distanza di poche settimane da quello del Financial Times; essere tra le migliori business school europee con il nostro Executive MBA insegnato in modalità digitale anche secondo l’autorevole ranking QS sancisce, ancora una volta, la nostra leadership in ambito innovazione e digitalizzazione della formazione manageriale», hanno commentato Vittorio Chiesa e Federico Frattini, rispettivamente presidente e dean di Polimi Graduate School of Management, in un’intervista a il Sole 24 Ore. «Il primo posto in Europa per la qualità dei nostri docenti e del nostro insegnamento rappresenta un risultato storico che non può far altro che renderci orgogliosi poiché contribuisce ad accrescere la reputazione di cui gode la nostra scuola». 

Stonehenge

Stonehenge: il Politecnico svela uno dei misteri che avvolgono il sito archeologico 

Stonehenge continua ad attirare l’attenzione di studiosi e ricercatori a più di 4 millenni dalla sua costruzione. Il Professor Giulio Magli del Politecnico di Milano e il Professor Juan Antonio Belmonte dell’Instituto de Astrofísica de Canarias e Universidad de La Laguna di Tenerife hanno pubblicato uno studio innovativo che aiuta a spiegare la funzione originaria del monumento. 

Nel corso degli anni, infatti, sono state avanzate numerose teorie sul significato e sulla funzione del sito, come quella che fungesse da calendario. Oggi, invece, gli archeologi hanno un’immagine piuttosto chiara di questo monumento come “luogo degli antenati”. L’archeoastronomia, che spesso utilizza le immagini satellitari per studiare l’orientamento di antichi siti archeologici, ha un ruolo chiave in questa interpretazione, poiché Stonehenge mostra un allineamento astronomico rispetto al sole in connessione sia all’alba del solstizio d’estate, che al tramonto del solstizio d’inverno. Ciò spiega un interesse simbolico dei costruttori per il ciclo solare, molto probabilmente legato alle connessioni tra vita ultraterrena e solstizio d’inverno nelle società neolitiche. 

Una delle teorie più recenti da sfatare è che Stonehenge sia un calendario gigante basato su un’interpretazione numerologica dei calendari egizio e giuliano con 365 giorni e 12 mesi dell’anno. Secondo i professori Giulio Magli del Politecnico di Milano e Juan Antonio Belmonte dell’Instituto de Astrofísica de Canarias e dell’Universidad de La Laguna di Tenerife, questa affermazione non è corretta. 

«Tutto sommato, il presunto calendario solare neolitico di Stonehenge si è dimostrato un costrutto puramente moderno, le cui basi archeoastronomiche e calendariali sono scarse. Come più volte accaduto in passato, ad esempio per le affermazioni (dimostrate insostenibili dalla ricerca moderna) che Stonehenge fosse usata per predire le eclissi, il monumento torna al suo ruolo di testimone silenzioso del paesaggio sacro dei suoi costruttori, ruolo che – sottolineano Magli e Belmonte – non toglie nulla al suo straordinario fascino».

Credits: Juan Belmonte
Credits: Juan Belmonte
STONEHENGE: LA NUOVA TEORIA 

Questa è quindi la teoria che è stata sottoposta a un severo stress test da due esperti di Archeoastronomia, Juan Antonio Belmonte e Giulio Magli. Nel loro articolo, pubblicato su Antiquity, una delle più autorevoli riviste scientifiche di Archeologia, gli autori mostrano che la teoria si basa su una serie di interpretazioni forzate delle connessioni astronomiche del monumento. 

  1. L’ELEMENTO ASTRONOMICO 

Magli e Belmonte hanno analizzato in primo luogo l’elemento astronomico. Nonostante l’allineamento del solstizio sia accurato, gli autori mostrano che il lento movimento del sole all’orizzonte nei giorni prossimi ai solstizi rende impossibile controllare il corretto funzionamento del presunto calendario, poiché il dispositivo, composto da enormi pietre, dovrebbe essere in grado di distinguere posizioni molto precise, meno di 1/10 di grado. 

  1. LA NUMEROLOGIA 

Attribuire significati ai “numeri” in un monumento è sempre una procedura rischiosa. In questo caso, un “numero chiave” del presunto calendario, 12, non è riconoscibile in nessun elemento di Stonehenge, così come qualsiasi mezzo per tenere conto del giorno epagomeno aggiuntivo ogni quattro anni, mentre altri numeri non vengono presi in considerazione, il portale di Stonehenge, ad esempio, era fatto di due pietre. 

  1. I MODELLI CULTURALI 

Una prima elaborazione del calendario di 365 giorni più 1 è documentata in Egitto solo due millenni dopo Stonehenge (ed è entrata in uso secoli dopo). Pertanto, anche se i costruttori hanno ripreso il calendario dall’Egitto, lo hanno perfezionato da soli. Inoltre, hanno inventato anche un edificio per controllare il tempo, poiché nulla di simile è mai esistito nell’antico Egitto. Infine, un trasferimento e un’elaborazione di nozioni con l’Egitto avvenuto intorno al 2600 a.C. non ha basi archeologiche. 

L’auto a Guida Autonoma del Politecnico alla 1000 Miglia

Per la prima volta, a prendere il via alla manifestazione 1000 Miglia 2023, evento che incarna la storia dell’automobilismo mondiale, sarà un’auto autonoma, simbolo del futuro.

Denominato “1000-MAD” (1000 Miglia Autonomous Drive), il progetto del Politecnico di Milano rappresenta la prima sperimentazione al mondo di veicoli autonomi su strade pubbliche, con un percorso di estensione di più di 1500 km e con una finestra temporale di oltre 12 mesi.

1000-MAD è un’iniziativa che mira a far crescere le competenze tecniche dell’industria italiana, a contribuire allo sviluppo della mobilità sostenibile e a creare consapevolezza nel grande pubblico su questa tecnologia.

Il progetto del Politecnico vede il supporto e la collaborazione di 1000 Miglia S.r.l., il supporto e il patrocinio del MOST – Centro Nazionale per la Mobilità Sostenibile e di numerosi sponsor e partner tecnici. Diversi i gruppi di ricerca e i nostri dipartimenti coinvolti, per affrontare in modo integrato temi di sviluppo tecnologico, di management di progetto (guidato dall’Osservatorio Connected Car & Mobility), e anche di design e comunicazione.

Negli ultimi anni, il Politecnico di Milano ha lavorato intensamente sul fronte dell’Artificial Intelligence e delle tecniche di guida autonoma applicata alle auto da corsa, e ora, in vista di una possibile legislazione sulla circolazione di vetture autonome su strade pubbliche, il progetto “1000-MAD” si candida come la prima sperimentazione al mondo di veicoli autonomi in contesti pubblici, caratterizzata da altissima varietà di percorso, iterata su più round sperimentali.

LA VETTURA

Il veicolo che verrà usato per la sperimentazione è la nuovissima Maserati MC20 Cielo, una supersportiva iconica ed emozionale che unisce il meglio delle moderne tecnologie con il fascino della storia di Maserati (che si è più volte intrecciata con la storia della 1000 Miglia).

Su questa vettura, messa a disposizione da Maserati, il Politecnico di Milano ha installato tutti gli elementi tecnologici di un “robo-driver” (sistemi di attuazione, sensori, computer, sistemi di comunicazione, e tutto il software che implementa gli algoritmi dell’AI-driver), per poter mettere alla guida della “Cielo” un’Intelligenza Artificiale.

L’utilizzo di una Maserati come base veicolistica di questo progetto vuole anche testimoniare l’intensa collaborazione di ricerca che esiste da più di un decennio fra il Politecnico di Milano e l’ingegneria Maserati nell’ambito dei sistemi elettronici di controllo&automazione del veicolo.

LA 1000 MIGLIA 2023

Dal 13 al 17 giugno, la Maserati MC20 Cielo attraverserà l’intero tracciato della 1000 Miglia, affrontando in modalità “guida autonoma” alcuni tratti del percorso, in cui è in fase di completamento la richiesta di autorizzazione al Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti (in particolare, gli attraversamenti delle città di Bergamo e Brescia, Capitale italiana della cultura 2023, Milano, Ferrara, Modena e Parma). Nelle tratte che verranno autorizzate entro quella data il veicolo guiderà in totale autonomia, rispettando le regole del Codice della Strada, come previsto dalla gara di regolarità storica a tappe che si svolge in modo promiscuo al normale traffico automobilistico.

LA SPERIMENTAZIONE E LA 1000 MIGLIA 2024

La partecipazione alla 1000 Miglia 2023 è solo il primo passo di “presentazione” del progetto. Conclusa l’edizione 2023 della “Corsa più bella del mondo”, partirà un anno di intenso sviluppo e affinamento sperimentale della tecnologia dell’A.I-driver, in cui la vettura sarà addestrata su un percorso simile a quello della 1000 Miglia su strade comunali, provinciali e statali, e in parte anche tratte autostradali, con l’obiettivo finale di effettuare in modalità autonoma l’intero percorso della “1000 Miglia 2024”.

IL CO-DRIVER

Per rispettare i requisiti di autorizzazione alla sperimentazione (D.M.70 “smart-roads”), il veicolo guidato dalla A.I-driver del Politecnico di Milano dovrà essere costantemente supervisionato da un co-driver umano. Nella 1000 Miglia del 2023 il co-driver sarà d’eccezione: Matteo Marzotto, pilota esperto e membro del CdA di 1000 Miglia S.r.l., con numerose esperienze di partecipazione alla 1000 Miglia storica. Ricorderà così i 70 anni dalla vittoria (edizione 1953) dello zio Giannino, in un ideale passaggio di consegne fra passato, presente e futuro. Questo legame fra guidatore umano ed intelligenza artificiale sarà visivamente rappresentato da un oggetto di arte moderna, in fase di sviluppo al Dipartimento di Design del Politecnico, che verrà svelato all’apertura della 1000 Miglia e che affiancherà Matteo Marzotto per tutto il percorso.

LA PERCEZIONE DEGLI ITALIANI

Il progetto ha anche l’obiettivo di far conoscere la guida autonoma al grande pubblico. Secondo i dati dell’Osservatorio Connected Car & Mobility del Politecnico di Milano, infatti, oggi i consumatori italiani si dividono perfettamente in un 50% già propenso a utilizzare un’auto a guida autonoma e un altro 50% contrario. I principali motivi per i favorevoli sono la comodità di “poter fare altre attività durante il tragitto” (45%), e la maggiore sicurezza (31%); viceversa, i contrari sono frenati dal disagio di non avere il controllo della vettura (37%) e dalla sensazione di minore sicurezza (33%). C’è bisogno, dunque, di evidenze per informare e preparare i consumatori alla rivoluzione della mobilità autonoma.

IL VALORE PER IL PAESE

Il progetto “1000-MAD” potenzierà la capacità scientifica e tecnologica italiana, creando un contesto sperimentale unico al mondo in cui fare ricerca e sviluppo di nuove tecnologie per la mobilità autonoma. Inoltre, contribuirà a definire gli interventi normativi per promuovere lo sviluppo e l’utilizzo di vetture autonome; creerà una connessione tra i principali centri di ricerca e i territori attivi in Italia e all’estero sul tema; raccoglierà e pubblicherà dati tecnici per sviluppare strategie industriali e tecnologie. Infine, il progetto ha l’obiettivo di raccogliere e pubblicare dati sul territorio italiano, definendo e calcolando un AI Autonomous Drive Readiness Index, che possa aiutare tutte le amministrazioni ad indirizzare le loro politiche (e risorse) sui temi prioritari per quel territorio.

Leonardo da Vinci, scoperta del Politecnico sul Foglio 843 del Codice Atlantico

Milano, 18 aprile 2023 – Il Codice Atlantico è una delle raccolte più estese e affascinanti di disegni e scritti di Leonardo da Vinci. La sua conservazione è una grande sfida per studiosi e ricercatori. Un approfondito studio, pubblicato su Scientific Reports, è stato condotto dal Politecnico di Milano sul Foglio 843 del Codice, per comprendere le cause di alcune macchie nere apparse da qualche anno sul passepartout moderno che rilega i folii originali leonardeschi.

Il gruppo di ricerca interdisciplinare coordinato da Lucia Toniolo, professoressa di Scienza e Tecnologia dei Materiali del Politecnico di Milano, ha utilizzato una serie di tecniche di analisi non invasive e micro-invasive per esaminare il fenomeno e studiarne la natura e le cause.

Il Codice Atlantico, donato alla Veneranda Biblioteca Ambrosiana nel 1637, è stato oggetto di un importante restauro effettuato dal Laboratorio del Libro Antico dell’Abbazia di Grottaferrata tra il 1962 e il 1972. L’intervento è terminato con la realizzazione di 12 volumi con 1119 fogli: ogni pagina è composta da un passepartout con finestra (aggiunto dai restauratori a Grottaferrata) che incornicia i frammenti originali di Leonardo. Dal 1997 il Codice è conservato in un ambiente con un microclima strettamente controllato, secondo gli standard per la conservazione della carta.

Credits: Phys.org

Nel 2006 sono state scoperte delle piccolissime macchie scure sul passepartout, localizzate intorno alla finestra che incornicia e rilega il foglio. Questo fenomeno di annerimento, osservato su circa 210 pagine del Codice a partire dal Foglio 600 in poi, ha suscitato grande preoccupazione tra i curatori e conservatori del museo e gli studiosi. Un primo intervento, nel 2009, ha portato alla sfascicolazione dei volumi. Oggi i disegni sono montati singolarmente su passepartout, in cartelle e scatole non acide. La ricerca condotta dal Politecnico è iniziata nel 2021 in occasione di un primo progetto pilota su tre disegni del Codice finanziato dal Fondo Italiano di Investimento che ha previsto la rimozione e sostituzione del passepartout del Foglio 843.

Studi precedenti avevano escluso che le macchie derivassero da processi di deterioramento microbiologico. La ricerca del Politecnico di Milano combinando indagini di fotoluminescenza iperspettrale, imaging di fluorescenza UV, con un imaging micro-ATR nell’infrarosso, ha evidenziato la presenza di colla d’amido e colla vinilica localizzate nelle aree dove il fenomeno delle macchie è più intenso, proprio vicino al margine del foglio.

Inoltre, è stata rilevata la presenza di nano-particelle inorganiche tondeggianti, del diametro di 100-200 nanometri, composte da mercurio e zolfo, che si sono accumulate all’interno delle cavità formate tra le fibre di cellulosa della carta del passepartout. Infine, grazie all’utilizzo di analisi di sincrotrone, condotte a ESRF a Grenoble, è stato possibile identificare queste particelle come metacinabro, un solfuro di mercurio in una fase cristallina inusuale di colore nero.

Approfonditi studi sui metodi di conservazione della carta hanno permesso di formulare alcune ipotesi sulla formazione del metacinabro. La presenza di mercurio potrebbe essere associata all’aggiunta di un sale antivegetativo all’interno della miscela di colla utilizzata nel restauro di Grottaferrata, che potrebbe essere stata applicata solo in alcune zone del pacchetto di carta del passepartout, proprio dove questo trattiene il folio leonardesco, per garantire l’adesione e prevenire attacchi microbiologici al Codice. La presenza di zolfo, invece, è stata collegata all’inquinamento atmosferico (a Milano negli anni ’70 i livelli di biossido di zolfo SO2 erano molto elevati) o agli additivi usati nella colla, che nel tempo, avrebbero portato alla reazione con i sali di mercurio e alla formazione di particelle di metacinabro, responsabili delle macchie nere.

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Cosa vedere alla Design Week 2023: una (parziale) guida politecnica

La Milano Design Week può essere una vera e propria caccia al tesoro. Scegliere cosa vedere non è un gioco da ragazzi, noi abbiamo deciso di iniziare con l’aiuto del Sistema Design del Politecnico di Milano – cioè la Scuola del Design, il Dipartimento di Design e POLI.design, che partecipano a diversi appuntamenti con l’obiettivo di mettere in luce progetti e processi creativi degli studenti, veri protagonisti della nostra Accademia: un’occasione per scoprire il vostro Politecnico al di fuori delle “mura” dell’Ateneo. Ne trovate una guida (non esaustiva, sarebbe impossibile), a questo link.

UN TOUR PER GLI ALUMNI

Nell’attesa di questi sei giorni intensi, dal 17 al 23 aprile, abbiamo anche fatto una chiacchierata con l’Alumna e designer politecnica Elena Salmistraro, una delle figure più importanti del design contemporaneo internazionale, per (provare a) darvi una “guida tascabile” alla 61° edizione del Fuorisalone. Anche per lei, non è facile selezionare i posti più interessanti da vedere, viste le possibilità offerte dal Fuorisalone. Ci prova lo stesso: “Alcova ha tutte le novità, ed è un posto da visitare assolutamente anche perché lascia molto spazio alla sperimentazione”, inizia. Fondata nel 2018, Alcova è una piattaforma itinerante per il design indipendente e sostenibile che quest’anno, alla sua quinta partecipazione Fuorisalone, è ospitata dall’ex macello di Porta Vittoria, in Viale Molise 62 (che potrebbe essere la prossima hot zone di Milano, dopo l’espansione di NoLo). Qui troviamo anche una vecchia conoscenza della redazione, il designer Matteo Ragni.

“Anche il Brera Design District – aggiunge Salmistraro – rappresenta uno spazio consolidato, da non perdere”: Brera, tra il mistero dei suoi vicoli e la luce che invade le sue piazze, quest’anno ospita più di 200 eventi e installazioni. Tra un happening e l’altro, consigliamo una pausa rilassante all’Orto Botanico, dove potrete trovare, tra i protagonisti, anche il designer e architetto politecnico Italo Rota. Poi ci accompagna, metaforicamente, anche per i bellissimi chiostri dell’università Statale, che, come ormai da tradizione, ospitano numerose installazioni concettuali e interattive. Sempre per restare in tema “Poli”, qui troverete The Amazing Playground di Amazon, featuring Stefano Boeri Interiors.

Il nostro tour con Salmistraro (ma è solo uno dei mille possibili) si chiude nel luogo che sente più sente suo, legato indissolubilmente alla storia del Fuorisalone: il famoso Quadrilatero, che non ha bisogno di presentazioni. “Quest’anno Tortona è tornata in auge. Tra i moltissimi eventi, ospiterà anche una mostra di Giulio Cappellini alla quale partecipo anch’io”.

Elena Salmistraro. Credits: www.elenasalmistraro.com

UN APPUNTAMENTO FISSO, PER PASSIONE

Salmistraro ci racconta di come ha vissuto la Design Week da studentessa, attiva nel Fuorisalone, sino a diventare una figura di spicco del Salone stesso. “Quando ho iniziato a frequentare Industrial Design al Poli, aspettavo il Fuorisalone con grande entusiasmo e cercavo di vivere tutti gli eventi che si svolgevano nella zona di Via Tortona, partecipando attivamente con la distribuzione di biglietti e riviste. Per me il Fuorisalone era il Salone”. A guidarla era soprattutto la curiosità di osservare da vicino le nuove tecniche e i nuovi materiali, ma anche, soprattutto “da grande”, un’occasione di creare nuovi contatti e collaborazioni. “Ogni età ha la sua stagione”, spiega. Infatti, nel 2017 con I vasi dei Primati Elena vince il Premio come “Miglior Designer emergente del Salone del Mobile”, affermandosi come designer controcorrente in una fase in cui il minimale andava decisamente per la maggiore. Fu un rischio, ma finì tutto bene: “Si era creata una fila allo stand per vedere questi vasi che non ti dico. Sono passata dalla paura di un fallimento a vedere il mio nome sul palco come vincitrice del premio. Devo dire sinceramente che non ricordo nemmeno cosa ho detto nel discorso di premiazione ma l’emozione è stata unica.”

Primates, Ceramic vases for Bosa by Elena Salmistraro. Photo By: Tiziano Rossi. Credits: www.elenasalmistraro.com

LE COLLABORAZIONI DEL 2023

Nel corso della sei giorni della Design Week 2023, la nostra Alumna dovrà dividersi tra il Salone e il Fuorisalone. Si fa fatica a contare le iniziative che ospitano i suoi progetti, ve ne segnaliamo due. Per Tai Ping Carpets, azienda francese specializzata nella creazione di tappeti, ha realizzato una collaborazione esposta al Brera Design District, nel contesto del Fuorisalone: “Si tratta di una collezione di sei tappeti, che ho chiamato ‘Legami’, realizzati con tantissime tecniche diverse unite insieme: come un campionario di tutte le lavorazioni possibili che ricreano questi intrecci, formando dei nodi che vogliono rappresentare i legami umani. Per la Design Re-Evolution, l’installazione di Interni realizzata in zona Statale, invece ha collaborato con Hines, con un’installazione digitale sulla Torre Velasca, ancora in fase di ristrutturazione. Un’occasione unica per vedere questo storico simbolo milanese sotto una nuova luce. Ed è proprio questa una delle caratteristiche principali della Milano Design Week: quelli che sembravano capannoni abbandonati, magicamente prendono vita e luce, come moderne zucche magiche che ospitano non una Cenerentola, ma migliaia di persone.

È vero, non si trova un taxi, figuriamoci un parcheggio, ma non importa: meglio girare a piedi e godere della cornice, perché in questi giorni si aprono spazi che solitamente sono chiusi, come cortili, lussuosi loft, aree industriali, edifici storici. Se qualcuno lo chiedesse a noi, risponderemmo che il design è lo sforzo di portare la bellezza negli oggetti e nelle abitudini della vita quotidiana, un terreno dove si incontrano tecnica, estetica e funzionalità. E, ovviamente, progettualità politecnica. Per Elena, l’emozione è a tutti gli effetti una funzione dell’oggetto e forse è per questo che racchiude in queste poche parole il ‘senso’ del Fuorisalone: “per me, rappresenta la vita stessa di Milano”. Tutto sempre con concretezza, e, infatti, Salmistraro conclude così: “la cosa fondamentale per me è che le aziende con cui collaboro mantengano una qualità molto alta, in modo da facilitare il mio lavoro”.

Sulle tracce del passato

Sulle tracce del passato: al Poli tecnologia ed archeologia si incontrano 

Mettiamo insieme tecnologia e archeologia: spuntano possibilità inesplorate che portano a scoperte incredibili (come quella del tunnel nascosto nella piramide di Cheope, in Egitto). A rendere possibile questa connessione vi sono persone come Corinna Rossi, egittologa che insegna al dipartimento di Architettura, Ingegneria delle Costruzioni e Ambiente Costruito del Politecnico di Milano. Con lei abbiamo fatto una chiacchierata, rubandole un po’ di tempo tra un volo per Bruxelles e un viaggio nel suo amato Egitto, per farci raccontare il suo lavoro. 

Dopo aver studiato architettura (“non ero pronta ad abbandonare del tutto la scienza, e per questo ho scelto una facoltà che mi permettesse di studiare materie umanistiche e scientifiche, ci racconta), la professoressa Rossi si è specializzata ottenendo un master e un dottorato in egittologia a Cambridge. ”Sono arrivata al Poli grazie al Progetto LIFE, un progetto di ricerca finanziato dall’ERC Consolidator Grant che ho vinto nel 2015”, ci spiega. “L’ho disegnato pensando al Poli: era l’unico ambiente in cui potevo trovare la commistione di competenze necessaria al mio lavoro”. È in particolare nel dipartimento ABC, tiene a sottolineare la professoressa, che ha trovato colleghi ricercatori esperti in restauro, storia, progettazione, ambiente costruito e rilievo archeologico.  

INDAGARE SENZA DISTRUGGERE CON L’AIUTO DELLA TECNOLOGIA

 Rossi e il suo gruppo di ricerca hanno lavorato a lungo all’individuazione di un modo di studiare senza distruggere, cioè scavando il minimo indispensabile per non rischiare di compromettere l’integrità del sito e avere un impatto il più leggero possibile sul luogo del ritrovamento. È la metodologia che ha utilizzato nel progetto LIFE: l’obiettivo era studiare un sito tardo romano situato lungo la frontiera dell’Impero in Egitto, nel deserto occidentale. Il sito, chiamato Umm al-Dabadib, è particolare perché intatto e costituito da un insediamento e un sistema agricolo. “Non è mai stato previsto uno scavo archeologico, perché avrebbe un effetto devastante per il luogo”. Tutti gli scavi archeologici sono, per definizione, operazioni di distruzione degli strati superiori, più recenti, a favore di quelli inferiori, più antichi. Ma nel caso specifico di Umm al-Dabadib a ciò si somma un altro problema: “guardando al rapporto costi/benefici e alla sostenibilità di far vivere in un sito senza acqua né elettricità un team di 25-30 persone, gli scavi comprometterebbero l’equilibrio naturale e l’integrità del sito, iscritto assieme al resto dell’oasi nella Tentative List dei siti UNESCO che uniscono cultura e natura”.  

Archeologi e architetti del Politecnico hanno dunque studiato il rilievo 3D del sito comparandolo con lo studio metrologico degli edifici (ovvero ricostruendo la geometria della parte emersa dei detriti): hanno così potuto ipotizzare cosa ci fosse sotto. “Una volta che avevamo le idee chiare, siamo andati a colpo sicuro: quando abbiamo scavato, abbiamo trovato esattamente quello che ci aspettavamo. Questo ci ha permesso di individuare con maggior precisione le aree a cui dedicare ulteriori approfondimenti”. Oltre alla tecnologia, sottolinea la ricercatrice, a rendere possibile la ricostruzione è stato il lavoro degli egittologi, che hanno incrociato i dati storici e quelli provenienti da altre missioni. 

LA GEOMETRIA DEGLI ANTICHI EGIZI

 Un altro aspetto che ci colpisce durante nostra chiacchierata su egittologia moderna e tecnologia è il rapporto tra architettura e matematica nell’Antico Egitto, tema su cui Rossi ha pubblicato diversi lavori. “Il modo di utilizzare l’aritmetica e la geometria nell’architettura è cambiato molto nel corso dei secoli”, ci spiega. “Ora tendiamo a guardare alle architetture del passato utilizzando concetti matematici e architettonici moderni, ma questo è sbagliato”. Pensiamo alle piramidi: nel mondo moderno, ha senso parlare di inclinazione utilizzando i gradi. Ma nell’Antico Egitto non esistevano misure angolari, si utilizzavano misure lineari: “Immagini di appoggiare il proprio gomito su un punto di una faccia inclinata di una piramide. Tenendo il braccio verticale, potrà misurare la distanza tra la sua mano verticale e la faccia della piramide obliqua: quella sarà la seked, ovvero l’inclinazione”. La piramide di Cheope, ad esempio, ha una seked di 5 palmi e due dita, pari a circa 52° moderni. “Utilizzare i gradi serve a noi per comunicare tra noi in maniera più immediata, ma se intendiamo comprendere davvero il metodo costruttivo antico dobbiamo cambiare prospettiva per acquisire una visione più chiara della situazione”. 

POLI E MUSEO EGIZIO: UNA COLLABORAZIONE CHE GUARDA AL FUTURO

 Oltre al progetto LIFE, ora è in corso anche una collaborazione tra il Poli e il Museo Egizio. Com’è nata? “Ci siamo trovati”, afferma ridendo la professoressa Rossi. “Il Direttore Christian Greco ha avviato una grande opera di rinnovamento del concetto stesso di museo, che è un’enciclopedia materiale del nostro passato, e deve servire non solo a conservare dei reperti importanti, ma anche e soprattutto a fare ricerca. Noi collaboriamo a sperimentare nuovi modi di studiare gli oggetti, con la libertà d’azione fornita dal Politecnico in termini di ricerca e dall’essere fuori dagli schemi del mercato”.  

E se ci spingessimo a parlare di metaverso in un museo 2.0? “In potenza l’ambito digitale può servire a ricontestualizzare gli oggetti, ma siamo ancora in fase di sperimentazione, e soprattutto esiste un problema fondamentale: l’impegno necessario per produrre contenuti digitali viene troppo spesso sottovalutato. Non basta produrre il modello 3D di un oggetto, occorre costruire la ragnatela di informazioni che ruotano intorno all’oggetto stesso per poter comunicare la sua storia. Egualmente, per costruire un ambiente digitale in cui muoversi bisogna conoscerlo bene, e per conoscerlo bene ci dev’essere una schiera di egittologi e informatici dedicati a creare il luogo da riprodurre nel metaverso. Si tratta di una direzione molto promettente alla quale però andranno dedicati investimenti ingenti.” 

IN VOLO PER SAQQARA

 Abbiamo rubato questa intervista alla professoressa Rossi ritagliando del tempo tra un volo di ritorno da Bruxelles, dov’è stata panel member per i progetti ERC, e uno di andata per l’Egitto, dove sarà impegnata ad aiutare il Museo Egizio a Saqqara. “Il nostro compito è realizzare un rilievo tridimensionale della stratigrafia, cioè fotografare ogni strato archeologico mano a mano che viene portato alla luce dagli archeologi”. Un altro aiuto che viene dalla tecnologia: disegnare ogni strato sarebbe un processo molto più lungo e meno preciso, mentre fotografarlo permette di catturare dettagli che, a volte, possono sfuggire agli archeologi stessi che si occupano degli scavi. 

QUALCOSA DI PERSONALE

 Prima di congedarci, chiediamo a Rossi di raccontarci la scoperta più emozionante che ha fatto nella sua carriera. “Gliene dico due: una fortemente voluta, l’altra del tutto casuale. La prima risale al 2022, quando nel sito di Umm al-Dabadib (quello del progetto LIFE, NdR) abbiamo rinvenuto i primi quattro papiri mai ritrovati lì. Due sono lettere complete e intatte, e una non era mai stata aperta: un’emozione indescrivibile”. 

“La seconda scoperta, quella casuale, risale a vent’anni fa: lavoravo a Tell el-Amarna con la missione britannica, e camminando nella sala dell’incoronazione del faraone Smenkhkare sono letteralmente inciampata su un sasso… che non era affatto un sasso, ma il frammento di una statuetta di principessa amarniana (della località di Amarna, NdR). Chissà com’è possibile che nessuno l’avesse trovato prima di me!”

Telegrafica: tre cose che l’hanno fatta innamorare dell’Egitto. “La geometria delle piramidi, il deserto, la natura che è ancora preponderante non appena si scappa dalla città”. 

“Un guasto d’amore”, da coro dei tifosi del Genoa a hit di Spotify, con lo zampino del Poli

Difficile trovare una storia che intrecci con naturalezza calcio e musica come la storia della canzone “Guasto d’amore” di Bresh e della tifoseria del Genoa

La canzone è diventata in breve una hit di Spotify, travalicando le barriere non solo del tifo ma anche del calcio.  

La storia è lunga, ed è legata anche al Politecnico di Milano, perché due figure chiave del Genoa Cricket and Football Club sono due nostri Alumni: il direttore generale Flavio Ricciardella, ingegnere gestionale, e il brand manager Jacopo Pulcini, designer.  

Ricciardella e Pulcini ci hanno spiegato come la società Genoa ha contribuito al successo di questa canzone, ma andiamo con ordine. 

LA NASCITA DELLA CANZONE, CHE RIMANE SULLO SMARTPHONE 

“Guasto d’amore è una canzone che ha 7-8 vite – ha raccontato a Radio Deejay l’autore, il rapper genovese Bresh, 26 anni -, nasce una sera con un mio amico, Luca Caro, che fa un giro di chitarra e io registro un vocale su WhatsApp. Il giorno dopo facciamo un video a caso sulla spiaggia. Tengo questo video per un anno nel telefonino, poi per caso lo faccio vedere a un amico che mi dice ‘pubblicalo!’. A quel punto il video diventa mezzo virale tra i genoani e una cerchia di miei fan. Mi chiama Mattia Perin a casa sua (ex portiere del Genoa, n.d.r.) per cantarla mentre lui suona il piano”. 

Perin, che nel 2021 era capitano della squadra, se ne è innamorato l’ha rilanciata sui suoi social. 

Poi l’anno scorso “con il Genoa già retrocesso in serie B i tifosi fanno una coreografia con le onde del mare rossoblu e un verso ‘gli stessi colore che cadono in mare / quando il sole tramonta, senza salutare’ poi ho scritto la seconda strofa e poi ho iniziato a fare i concerti”.  

HIT SU SPOTIFY

La canzone è uscita su Spotify e lo scorso 2 febbraio ha esordito direttamente al primo posto della classifica settimanale Fimi/Gfk dei singoli più venduti, ascoltati e scaricati in Italia nei sette giorni precedenti 

Sulle piattaforme di streaming la canzone preferita dai tifosi genoani era uscita il 27 gennaio, ma era entrata nell’immaginario collettivo dei tifosi da molto prima. Dal 27 gennaio però ha iniziato a valicare i confini del tifo e del calcio. 

Da un verso scritto una sera con un amico, a un coro da stadio a una hit per tutti: primo posto su Spotify Italia e oltre 10 milioni di stream

COME HANNO CONTRIBUITO RICCIARDELLA E PULCINI AL SUCCESSO DELLA CANZONE

Il brand manager Jacopo Pulcini ha spiegato come la società Genoa ha valorizzato quest’amore dei tifosi per la canzone: “Fin dal momento del lancio, la canzone è diventata un momento fisso della nostra scaletta pre match, la canta tutto lo stadio, si crea un’atmosfera unica. E quando giochiamo di sera spegniamo le luci dello stadio e i tifosi accendono le torce dei telefonini. Emozionante e coinvolgente”. 

“Dopo aver visto la coreografia che i tifosi hanno fatto quando eravamo già retrocessi – ha aggiunto il direttore generale Ricciardella – abbiamo impostato la campagna abbonamenti usando come claim quel verso: gli stessi colore che cadono in mare / quando il sole tramonta, senza salutare”. 

“Ho un guasto d’amore se vedo il Grifone, mi trema la pancia e mi vibra la voce. E quando ti vedo mi fai innamorare, perché se tradisci la faccio passare. Gli stessi colori che cadono in mare quando il sole tramonta senza salutare”. 

Versi che hanno colpito l’inconscio collettivo genoano e poi italiano. Una storia da studiare: “Nonostante la retrocessione, dopo 15 anni di serie A, a fine campionato scorso i nostri tifosi hanno fatto una festa. È stato un momento importante perché già allora i tifosi avevano adottato ‘Guasto d’amore’ come loro coro preferito”. 

“Tra i nostri contenuti social di questa stagione, quelli legati a questa canzone sono nettamente i più performanti di tutti, per noi è importante essere rilevanti anche per tutto ciò che è l’extra campo” ha confermato Pulcini.  

UNA STORIA SEMPLICE MA DIFFICILMENTE REPLICABILE

A ben guardare la storia è semplice ma difficilmente replicabile: Bresh è di Genova, tifoso del Genoa che frequenta la gradinata ed è un rapper. A pensarci bene di tifosi musicisti ce ne sono tanti ma forse solo le canzoni di Venditti con la Roma possono vantare un legame più solido di quello Bresh-Genoa. 

IL RUOLO DI RICCIARDELLA E PULCINI NEL GENOA 

Il direttore generale Flavio Ricciardella, 43 anni, si è laureato al Poli in ingegneria gestionale nel 2007. Dal 2009 è entrato nel Genoa e dal 2019 ricopre la carica di direttore generale: “Come DG mi occupo di tutte le aree che sono al di fuori di quella sportiva, cioè la parte gestionale. Con l’area sportiva interagisco ovviamente, ma non scelgo i giocatori e non entro nelle questioni tecniche. Da giovane facevo l’arbitro di calcio a livello interregionale”. 

“Ingegneria gestionale mi è stata utile, rivesto un ruolo per cui le basi di studio che ho avuto sono importanti. Sono entrato nel Genoa in un momento in cui le società di calcio si stavano strutturando”.  

Flavio Ricciardella
Jacopo Pulcini

Jacopo Pulcini, 34 anni, è di Genova ed è genoano. Si è laureato al Poli in design della comunicazione: “Ho finito nel 2013 poi ho lavorato nel mondo dello sport, collaborando con Sky sport e Juventus nella comunicazione digital e social. Sono stato poi dipendente dell’Inter per quattro anni, dal 2018 al 2022”. 

“Adesso sono tornato a casa, al Genoa. Qui sono Brand e Marketing Manager, curo l’identità visiva del club, mi occupo della promozione e della vendita dei prodotti Genoa, e dello sviluppo dell’immagine del nostro marchio. Il lavoro fatto con Bresh ha dato grande risalto al nostro brand, aiutandoci a raggiungere e coinvolgere le nuove generazioni e pubblici non necessariamente interessati al calcio”.

  

Ux design award

Un team dell’Alta Scuola Politecnica vince lo UX Design Award 2023 

Cosa c’entra l’UX design con il trattamento dei pazienti post-ictus? Ce lo spiega il team di studenti dell’Alta Scuola Politecnica che ha sviluppato un progetto a riguardo che gli è valso la vittoria all’UX Design Award 2023, una competizione globale per le migliori user experience, che presenta prodotti e concept che forniscono soluzioni significative per bisogni reali, creando efficacemente un cambiamento positivo. 

I componenti della squadra sono cinque ingegneri e un UX designer: Chiara Giovannini e Fedele Cavaliere (Alumni Politecnico di Milano), Alessandro Celauro, Paolo Tasca, Chiara Noli e Riccardo Volpiano (Politecnico di Torino), che insieme hanno dato vita al progetto DEUHR, per il quale hanno vinto il premio. 

DEUHR
Credits: Michele d’Ottavio – Politecnico di Torino

DEUHR: COME FUNZIONA?

Digital Exergame for Upper limb and Hand Rehabilitation (DEUHR) introduce la ludicizzazione (o “gamification”) degli esercizi e tecnologie nel trattamento del paziente post-ictus, a casa o in una struttura di riabilitazione. 

DEUHR
Credits: Michele d’Ottavio – Politecnico di Torino

I pazienti possono accedere agli allenamenti quotidiani, al monitoraggio dei progressi e al feedback dei medici tramite un’app digitale. Con DEUHR, i terapisti possono gestire tutte le fasi della terapia, dalla configurazione iniziale, al monitoraggio quotidiano, fino alla messa a punto del piano riabilitativo. 

DEUHR
Credits: Michele d’Ottavio – Politecnico di Torino

I vantaggi sono molteplici: la ludicizzazione del processo riabilitativo può coinvolgere attivamente i pazienti perché possono sfruttare esercizi riabilitativi incorporati all’interno del videogioco. Inoltre, anche per merito della struttura modulare del design, il processo riabilitativo diventa meno dispendioso in termini di tempo anche per il terapista, che può personalizzare il trattamento, aggiungere nuovi esercizi e monitorare più pazienti semplicemente controllando l’app. 

In futuro, DEUHR potrebbe essere esteso ad altre parti del corpo e ad altri tipi di malattie, sia fisiche che cognitive, con l’obiettivo di costruire un ambiente sociale più inclusivo inducendo un più rapido reinserimento dei pazienti nella società.