Orgoglio politecnico! Traguardi di Alumni e Alumnae e risultati del nostro Ateneo

Per celebrare insieme la giornata mondiale dell’ingegneria, ecco la TOP 10 delle notizie più cliccate dalla nostra community di ingegnere e ingegneri politecnici. È un’emozione leggerle una dietro l’altra: un vero orgoglio politecnico!

  1. IL POLI NEL TOP 8% DELLE UNIVERSITÀ DI ECCELLENZA GLOBALI

Nel QS University Rankings 2025 conquistiamo la migliore posizione mai raggiunta per il Politecnico di Milano: l’Ateneo si conferma prima università in Italia e si posiziona al 111º posto al mondo, guadagnando 12 posizioni rispetto all’anno scorso ed entrando nel top 8% delle università di eccellenza globali. 


2. UNA ALUMNA AL VERTICE DI LUFTHANSA

L’alumna del Politecnico di Milano Grazia Vittadini è la nuova Chairwoman del Supervisory Board di Lufthansa Technik.


3. UN NUOVO CEO PER OFFICINE MACCAFERRI

Stefano Susani, Alumnus del Politecnico di Milano, è nominato Amministratore delegato della storica azienda manifatturiera


4. IN TESTA A 3M UN’ALUMNA POLITECNICA

Laura Galli, Alumna Ingegneria Chimica, è la nuova Presidente e AD di 3M Italia


5. NELLA LISTA FORBES GLOBAL 2000 DEL 2024 CI SONO BEN 28 AZIENDE ITALIANE.

Di queste, 5 sono guidate da Alumni del Politecnico di Milano! ENEL, con l’AD Flavio Cattaneo; GENERALI, con il general manager Marco Sesana; PRYSMIAN, con Massimo Battaini che ricopre le cariche di Amministratore Delegato e Direttore Generale; A2A, con Renato Mazzoncinicome Amministratore Delegato e Direttore Generale; NEXI, con il CEO Paolo Bertoluzzo.


6. L’ALUMNUS SIMONE BARTESAGHI È UNO DEGLI UOMINI A CUI IL TEAM LUNA ROSSA PRADA PIRELLI HA AFFIDATO LA CONQUISTA DEL TROFEO PIÙ ANTICO DEL MONDO

L’ingegnere di Luna Rossa Prada Pirelli, ci racconta come è arrivato a far parte di uno dei team sportivi più competitivi al mondo e come gli anni all’Università lo hanno aiutato a raggiungere il lavoro dei suoi sogni


7. SPAZIO: L’EUROPA PUNTA SU D-ORBIT, FONDATA DALL’ALUMNUS LUCA ROSSETTINI!


Nel 2028 la prima missione European Space Agency – ESA di manutenzione in orbita. Un altro “primato spaziale” per l’Italia e un contratto da 120 milioni. 


8. Sulla copertina di FORBES C’È STEFANO REBATTONI, PRESIDENTE E AMMINISTRATORE DELEGATO DI IBM ITALIA, ALUMNUS DEL POLITECNICO DI MILANO

L’intervista del direttore sulla rivoluzione che l’AI sta portando nel modo di vivere e di lavorare di tutti noi


9. IL PRIMO TRENO A IDROGENO D’ITALIA HA UN CERVELLO POLITECNICO: INTERVISTA ALL’ALUMNA SUSANNA BOITANO


È stata la Train Control Engineer, ovvero la responsabile dello sviluppo software del Train Control Management System (TCMS) del treno. «Il cervello del convoglio – dice – che comunica con tutti i software dei sottosistemi di bordo».


10. L’ALUMNA ANTHEA EVELINA COMELLINI SELEZIONATA DALL’AGENZIA SPAZIALE EUROPEA, SUPERANDO 22.500 CANDIDATI: L’INTERVISTA

“Non sono un genio, ma so fare tante cose bene”

Start-up spaziale dal cuore politecnico e under 30

Marco Sala, 27 anni, è Alumnus del Politecnico di Milano, ingegnere aerospaziale e CEO di Revolv Space: start-up che produce pannelli solari per piccoli satelliti. L’ha intervistato Eleonora Chioda per StartupItalia: quella di Revolv Space è una bella storia d’innovazione i cui protagonisti sono quattro giovanissimi ingegneri aerospaziali, due italiani e due polacchi.

L’INIZIO DELLA STORIA

Marco Sala e Filippo Oggionni si conoscono al Poli dove prendono la laurea triennale nel 2019 in ingegneria aerospaziale. Entrambi proseguono gli studi alla Tu Delft University of Technology dove incontrano i futuri compagni d’avventura Aleksander Fiuk e Michał Grendysz.

I quattro fondano Revolv Space: “L’idea è nata durante un contest universitario”, racconta Sala. “Il tema era: individuate la tecnologia mancante per satelliti di piccole dimensioni. La nostra intuizione è stata quella di sviluppare pannelli solari rotanti, in grado di seguire il sole per massimizzare l’assorbimento di energia”.

IL RIENTRO IN ITALIA

Come sono passati da un progetto universitario a una start-up con un team internazionale, composto da 19 persone, attraverso diversi stadi di incubazione, conferme e finanziamenti, lo racconta Chioda nell’intervista completa che puoi leggere a questo link: https://startupitalia.eu/tech/quel-girasole-spaziale-che-cresce-nel-vivaio-di-quattro-ingegneri-under-30-il-nostro-hardware-parte-della-missione-transporter-13-di-spacex/  

Fast forward, a febbraio 2024 spostano l’head quarter in Italia. Il 2025 sarà l’anno di svolta: “nella missione Transporter 13 della SpaceX di Elon Musk, verranno lanciati tre satelliti che ospitano hardware prodotto da noi, sia per i nostri clienti sia per la nostra missione di dimostrazione in orbita”.

“Al MoMA di New York ho portato con me anche un pezzo di Milano”

L’Alumna Paola Antonelli è Senior Curator del Dipartimento di Architettura e Design del MoMA di New York e Fondatrice del settore Ricerca & Sviluppo del museo. Tra i molti importanti riconoscimenti, citiamo la nomina dalla rivista TIME tra i 25 visionari del design più incisivi al mondo, il Compasso d’Oro alla Carriera dell’Associazione Italiana per il Disegno Industriale, la London Design Medal e il German Design Award. In questa intervista di Emanuela Murari per Alumni Politecnico di Milano, ci parla di come tutto è iniziato: partendo con una metafora sportiva. “Il surf è una questione di allenamento, di lavoro duro e poi una volta lì è istinto, ma anche rispetto per l’attesa dell’onda. Un misto di tenacia, pazienza e coraggio”. Paola di coraggio ne ha avuto parecchio quando, dopo due anni di Bocconi, disse al padre che voleva iscriversi alla Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano.

“Ero in Sardegna, dove sono nata, e ricordo nitidamente che ebbi un’intuizione. Capii che quello che stavo studiando non era la mia strada. Rimanevo perché ero cocciuta. Mio padre non la prese bene all’inizio. Per me è stata una lezione di vita. Se qualcosa non va, bisogna cambiare prima che sia troppo tardi”. Al Politecnico paradossalmente si rese conto di essere a casa, nonostante il caos che regnava.

Il Politecnico mi ha insegnato a lottare per quello che voglio. Eravamo migliaia di studenti solo a Milano. Una giungla, ma utilissima. Ricordo alcuni professori come Guido Nardi, che coniugava benissimo la tecnologia con la filosofia. Il bagaglio che mi sono portata dietro nella mia vita. Perché lui non trasmetteva solo la tecnica, ma spiegava con grande competenza e carisma ciò che sta dietro le cose. Nardi mi ha insegnato questo passaggio naturale tra la tecnologia e la filosofia. E questo è ciò che mi è rimasto nella vita”.

Rigore e creatività che Paola ha portato anni dopo al MoMA diventando un punto di riferimento di uno dei più importanti musei del mondo. Ma l’inizio non è stato facile. “Ero molto infelice. Ricordo che quando ho iniziato era febbraio. Nevica sempre. Morivo di freddo. Le persone a New York non sono facili sino a quando non impari a conoscerle. Quando però ho realizzato la mia prima mostra, tutto è cambiato. Il senso di felicità che provi quando fai una mostra al MoMA e ha successo è incredibile. Escono le recensioni sul New York Times e sei catapultato al centro del mondo. La città è stressante ed eccitante al tempo stesso. È una grande fonte di ispirazione.”

Anche Milano però è nel suo cuore e non solo per il prestigioso Compasso d’oro alla carriera, Il più autorevole premio legato al Design, che le è stato conferito. Una delle tante onorificenze ricevute.

Il Compasso d’Oro ha un sapore diverso perché è a Milano. Devo molto a Milano.

Anche se sono nata in Sardegna, la considero la mia città, la città che mi ha formato e che io ho spremuto come un limone. Mi ha dato un’educazione all’eleganza e io l’ho usata bene e sono convinta che il successo che ho avuto venga dal fatto che sono di Milano, dalla sua attitudine al lavoro. Io ho una certa dimestichezza con il design. La forma non mi blocca, non mi fermo mai alla forma.

Per me il contrario di bello non è brutto, ma pigro.

La bruttezza è relativa, può essere una scelta. Mi importa molto vedere lo sforzo messo dal designer nella forma che considero la prima interfaccia di comunicazione e solo dopo si può passare a tutto il resto”.

Che cosa è per lei il Design e che ruolo ha oggi con l’impatto invasivo dell’hi tech? “Tutto! Dalla scienza, ai materiali. Il Design è la quinta essenza della curiosità, ti insegna che prima di tutto devi sapere cosa vuoi fare. Una sedia, un videogioco. E poi trovi i mezzi, che possono essere un legno o addirittura l’intelligenza artificiale. Questi sono i mezzi non i fini. Una volta che lo sai, anche la tecnologia diventa un mezzo verso un fine e quindi impari a gestirla come vuoi tu e non a lasciarti gestire da lei. Il Design ti insegna a pensare prima di agire. Ci sono due progetti inerenti l’intelligenza artificiale che mi hanno colpito molto e che incarnano questo spirito: uno è realizzato dall’artista inglese Alexandra Daisy Ginsberg con Pollinator Pathmaker, un’opera d’arte vivente pensata non per l’occhio umano, ma per gli insetti impollinatori, le fioriture sono fatte studiando come si comportano gli insetti e l’artista ci invita a guardare il mondo dal punto di vista degli impollinatori e allo stesso tempo offre un modo per contribuire alla loro protezione. L’altro si chiama Memorie Sintetiche ed è un progetto di ricerca che utilizza l’AI per realizzare rappresentazioni visive dei ricordi delle persone. È stato ideato da Domestic Data Streamers, uno studio di ricerca e comunicazione nato a Barcellona nel 2013. Basta raccontare un episodio della propria vita per trasformarlo in un’immagine che lo conserverà per sempre. Questo progetto ha già dimostrato di essere utile per conservare i ricordi di chi è affetto da malattie neurodegenerative. È la dimostrazione che esistono bravi designer che sanno quello che vogliono fare”.

Lei vive circondata dagli stimoli. Ma come fa ad avere sempre nuove idee per le sue mostre? “Ho tantissime idee per mostre che non ho ancora realizzato. E anche questa è un’educazione che ho ricevuto dal Politecnico, dove nessuno mi ha detto questo non è design, l’architettura non è design. Achille Castiglioni diceva sempre che il design era così meraviglioso perché non c’era una scuola di design. Ho sempre pensato che l’architettura stia meglio in una scuola di ingegneria piuttosto che in una scuola di arte, perché si impara un rigore che poi porta a desiderare questa evasione nell’umanesimo”.

E poi ci sono le idee per le quali si sceglie di lottare: “Per questo mi piace avere i saloni tematici – http://momarnd.moma.org/salons/ – incontri e discussioni (ne abbiamo fatti più di cinquanta) su temi che abbracciano la vita, il sociale, l’arte, la natura. E tutte le volte abbiamo un curatore o un artista accompagnato da scienziati, filosofi, giornalisti. E poi c’è Design Emergency – il podcast e il progetto Instagram, co-fondato con Alice Rawsthorn”.

Un autentico riscatto del ruolo fondamentale che la cultura può rappresentare per l’umanità, che Paola ha reso concreto perché il “suo” il Museo, grazie sempre a nuove iniziative, esplora direzioni e opportunità, ed è al tempo stesso tempo crogiolo e catalizzatore di modi di pensare e agire. È qui che si aprono orizzonti inediti, non solo attraverso la scienza, ma attingendo alla forza inesauribile dell’umanesimo, quell’unico spazio che l’intelligenza artificiale non potrà mai colonizzare. “Questo è il nostro momento! Il momento della cultura, che può guidare il cambiamento, e dei musei, che possono trasformarsi nei veri dipartimenti di ricerca e sviluppo della società”. È una chiamata a volgere uno sguardo diverso sul mondo, a vedere nella cultura il motore inesauribile del futuro, la chiave per dare nuovo senso alla nostra umanità, senza dimenticare, come diceva Guido Nardi, il rigore della scienza.

Compasso d’Oro alla carriera a Piero Lissoni, protagonista della cultura del progetto italiano

La bellezza del mestiere mischiata con una passione potente e una disciplina che ho imparato, perché non è vero che basta solo il talento”.  Descrive così il suo lavoro Piero Lissoni, Alumnus politecnico, architetto, designer, art director e internazionalmente riconosciuto tra i maestri del design contemporaneo. L’ha intervistato per la redazione Alumni la giornalista Emanuela Murari, che ci racconta la storia dietro al maestro: dai giorni al Politecnico, con insegnanti del calibro del prof. Guido Nardi, al recente riconoscimento alla carriera conferito da ADI in occasione del XXVIII° COMPASSO D’ORO: il più antico riconoscimento del design italiano, che nel 2024 ha festeggiato il 70° anniversario dalla sua fondazione nel 1954.

Una dialettica elegante e graffiante allo stesso tempo, che lo porta subito a dirci che attorno agli architetti esiste un’eccessiva sacralità. “Noi siamo in realtà una parte del progetto”, precisa. “Abbiamo bisogno di committenti, di interlocutori molto seri. Un buon interlocutore ti permette di fare un buon progetto. Molti progetti li vedo quando ho davanti eccellenti interlocutori. Noi siamo la seconda ruota del carro, non la prima. Io e il mio team siamo un gruppo di buoni professionisti. Lì comincia e lì finisce. Se esce un buon progetto sono contento, se sopravviverà ancora meglio se diventerà qualcosa di più, non è più un mio problema”.

Laurea in architettura al Politecnico di Milano, che gli ha insegnato tanto, anche a rimanere con i piedi per terra. “Il Politecnico è stata una scuola straordinaria. Io ci arrivo alla fine degli anni ‘70 e l’università era come una zuppa in ebollizione. È lì che ho imparato questa duplicità tra scienza e umanesimo, con professori che mi hanno spinto sul versante scientifico e altri che mi hanno mostrato un’altra faccia dello stesso modello culturale. Il professor Guido Nardi è stato uno dei miei maestri. Mi ha insegnato che dietro ogni progetto, dal più semplice al più complesso, c’è una scala tecnologica che è poesia allo stato puro. E infatti è al Politecnico che ho imparato a cambiare costantemente scala. Essere in grado di disegnare un masterplan e poi riuscire anche a tornare giù”.

Dei tempi di quando era studente, Piero Lissoni ricorda anche un episodio negativo. “Il mio professore dell’epoca mi diede una tesi imposta su Bergamo. La svolsi, ma non la consegnai e partii per Barcellona. Lì riscrissi la mia tesi, quella che volevo fare. Consideravo la tesi l’unica occasione per fare un progetto vero e proprio. Per me non era un’attività di routine.” E cosa le disse quel professore? “Tornato da Barcellona, dopo la discussione, in virtù della mia ribellione, mi diede 99 su 100. Non gli ho più parlato. Mi sembra giusto. Ora che sono dall’altra parte della barricata, do tesi che non portano da nessuna parte per me. Ma sono sicuro portino da qualche parte gli studenti”.

Da giovane, Piero Lissoni aveva già le idee chiare e aveva capito che, per ottenere un discreto vantaggio sulla sua vita professionale, avrebbe dovuto sacrificare un po’ del suo tempo per imparare e affinare il mestiere. “Durante gli anni dell’università ho lavorato duramente in un sacco di studi milanesi”. Nei buchi vuoti io ero in giro a disegnare. È stato il mio trucco ed è lì che ho imparato in anticipo sui miei colleghi cosa significasse lavorare all’interno di una scala temporale e metodologica molto precisa. Quando sei studente la scala temporale è la tua, è quella degli esami ed è tutto mediamente artificiale. Mentre in uno studio devi presentare i progetti. In quel periodo ho iniziato a combinare il mondo accademico con quello lavorativo. All’inizio ho sofferto molto. Ma ho preso un discreto vantaggio. Così, quando mi sono ritrovato dall’altra parte, una serie di meccanismi li avevo già acquisiti”. Ed è arrivato sino al Compasso d’Oro alla carriera.

“Non l’ho cercato, non l’ho voluto ma ci sono arrivato. Mi sono sentito quasi in debito con questa cosa. Il Compasso d’Oro significa una grande responsabilità. E provo gratitudine”.

Quando ha capito che era arrivata la svolta? “Sto aspettando che la svolta arrivi domani. Tutti i giorni per me sono giorni di svolta che mi hanno permesso di fare cose. La cosa che mi interessa di più è ciò che faccio domani. È l’idea di ripartire con un giorno nuovo. Per realizzare i sogni devi avere fortuna. La fortuna è la capacità di sincronizzarti con i tempi, con le persone, con i modi e le opportunità. Io ho avuto molta fortuna perché ho trovato le persone giuste nel momento giusto con il progetto giusto. E poi devi essere coerente. Devi essere spaventosamente coerente”.

Cosa avrebbe voluto fare se non fosse diventato architetto? Non ha dubbi: “il maestro di sci! Una disciplina con una grande idea della fisica, ma non lo sai mentre la pratichi. Il corpo ti chiede di fare una cosa e la tecnica ti spinge a farne una completamente diversa. È fisica pura. Poi mi piace questa combinazione tra velocità e leggerezza. È come una danza. Inoltre, sei da solo ed è come proiettarsi nel futuro. Fisicamente sei lì, ma stai sciando venti metri più avanti. Devi essere concentratissimo”.

Da cosa trae spunto per il suo lavoro? “La scala è sempre la curiosità. Traggo spunto dalla vita, da ciò che mi accade intorno, dalla moda, cinema, musica, letteratura. Colleziono i libri di architettura, design e arte. So cosa fanno i miei colleghi, li studio. Però cerco di allontanarmi dall’autoreferenzialità del sistema. Poi succedono delle cose”.

Un team composto da un centinaio di persone a Milano, il quartier generale, che definisce una città meno sgradevole di come la raccontano. Un altro studio a New York e poi studi temporanei in giro per il mondo con figure professionali che si spostano a seconda dei progetti che vengono commissionati. Ma Piero Lissoni come sceglie i suoi collaboratori? “Innanzitutto, devono essere un po’ strani. Abbiamo persone di paesi diversi. Seconda cosa, devono avere uno spettro culturale minimo. Noi passiamo le giornate insieme. Se io discuto con uno dei miei architetti, designer o grafici, se parlo di Bob Wilson, dei Sex Pistols, e non ne sanno nulla… o se non hanno mai letto Vitruvio, per esempio, rimango perplesso. E poi li faccio disegnare e se non lo sanno fare glielo insegniamo. Un architetto deve sapere disegnare anche se è di nuova generazione”.

Lei si arrabbia mai? “Qualche volta, ma poco. È come per lo sci. È uno spreco inutile di energia. Lo sci è conservazione delle energie. Non devi fare più di quello che ti serve. Inoltre, in studio mi conoscono. Quando ho momenti temporaleschi e succede raramente nessuno mi crede. Quando invece mi arrabbio veramente accade il contrario. Ad esempio, se un progetto non è stato fatto come doveva, abbasso la voce. E lì è il momento peggiore e c’è il fuggi-fuggi generale”. Alla fine dell’intervista Piero Lissoni mi confida che le sue “vendette” poi però se le prende e guarda caso proprio con gli sci ai piedi: “Tutti gli anni organizziamo un weekend sciistico. Tutti gli anni i miei collaboratori pensano di stendermi. Lo scorso anno aveva nevicato la notte stessa e siamo finiti in cima a una montagna. Li ho portati, quelli che pensavano di potermi dare del filo da torcere, su una nera molto complessa e ho pensato, ora sistemo i conti. Le vendette sono migliori quando sono servite ghiacciatissime come il Martini Cocktail”.

Photo credit: Veronica Gaido

Una startup spaziale con le radici in Italia, fondata dalle Alumnae Marouf e Cattani

Tre giovani italiane ingegnere spaziali si sono conosciute per motivi di studio a Delft e sono tornate in Italia per fondare la loro startup: è la storia di Imane Marouf e Benedetta Margrethe Cattani, Alumne del Politecnico di Milano, che hanno fondato Ecosmic, nuova promessa dello spazio “made in Italy”, insieme alla collega del Politecnico di Torino Gaia Roncalli.

“Il nostro primo prodotto, Safe, si occupa di evitare collisioni nello spazio”

– spiega Cattani.

“Ci sono milioni di detriti che orbitano intorno alla Terra, con potenziali pericoli. Safe è un software che viene integrato nel back-end. Come se fosse una notifica di allerta meteo, solo che avvisa di una possibile collisione nel giro, per esempio, di tre giorni”.

Hanno un obiettivo ambizioso: cambiare l’ecosistema dell’industria new-space introducendo un approccio modulare. “I grandi satelliti avevano software specifici che facevano la stessa cosa per 15 anni”, spiega Cattani. “Noi sviluppiamo blocchetti di un software che può lavorare su hardware differenti, non importa su quale satellite, e può essere aggiornato e implementato anche dopo il lancio”. La premessa è il nuovo assetto industriale che in questi anni è passato dall’essere campo esclusivo di pochi grossi player a una moltitudine di stakeholder pubblici e privati. “Ecosmic è una software house per satelliti”, spiega Marouf, “Siamo tre donne, le fondatrici, tutte italiane. Abbiamo deciso di tornare in Italia e creare valore qui, perché ci sono un ecosistema spaziale importante e un sistema di startup ancora in evoluzione”. Recentemente, la società ha chiuso un round pre-seed da 1,1 milioni di euro guidato da Primo Space e il team conta su 13 persone, suddivise tra ingegneri aerospaziali e informatici.

Negli ultimi mesi ne hanno parlato Startupitalia, Forbes, La Repubblica e Il Corriere della Sera.