“La bellezza del mestiere mischiata con una passione potente e una disciplina che ho imparato, perché non è vero che basta solo il talento”. Descrive così il suo lavoro Piero Lissoni, Alumnus politecnico, architetto, designer, art director e internazionalmente riconosciuto tra i maestri del design contemporaneo. L’ha intervistato per la redazione Alumni la giornalista Emanuela Murari, che ci racconta la storia dietro al maestro: dai giorni al Politecnico, con insegnanti del calibro del prof. Guido Nardi, al recente riconoscimento alla carriera conferito da ADI in occasione del XXVIII° COMPASSO D’ORO: il più antico riconoscimento del design italiano, che nel 2024 ha festeggiato il 70° anniversario dalla sua fondazione nel 1954.
Una dialettica elegante e graffiante allo stesso tempo, che lo porta subito a dirci che attorno agli architetti esiste un’eccessiva sacralità. “Noi siamo in realtà una parte del progetto”, precisa. “Abbiamo bisogno di committenti, di interlocutori molto seri. Un buon interlocutore ti permette di fare un buon progetto. Molti progetti li vedo quando ho davanti eccellenti interlocutori. Noi siamo la seconda ruota del carro, non la prima. Io e il mio team siamo un gruppo di buoni professionisti. Lì comincia e lì finisce. Se esce un buon progetto sono contento, se sopravviverà ancora meglio se diventerà qualcosa di più, non è più un mio problema”.
Laurea in architettura al Politecnico di Milano, che gli ha insegnato tanto, anche a rimanere con i piedi per terra. “Il Politecnico è stata una scuola straordinaria. Io ci arrivo alla fine degli anni ‘70 e l’università era come una zuppa in ebollizione. È lì che ho imparato questa duplicità tra scienza e umanesimo, con professori che mi hanno spinto sul versante scientifico e altri che mi hanno mostrato un’altra faccia dello stesso modello culturale. Il professor Guido Nardi è stato uno dei miei maestri. Mi ha insegnato che dietro ogni progetto, dal più semplice al più complesso, c’è una scala tecnologica che è poesia allo stato puro. E infatti è al Politecnico che ho imparato a cambiare costantemente scala. Essere in grado di disegnare un masterplan e poi riuscire anche a tornare giù”.
Dei tempi di quando era studente, Piero Lissoni ricorda anche un episodio negativo. “Il mio professore dell’epoca mi diede una tesi imposta su Bergamo. La svolsi, ma non la consegnai e partii per Barcellona. Lì riscrissi la mia tesi, quella che volevo fare. Consideravo la tesi l’unica occasione per fare un progetto vero e proprio. Per me non era un’attività di routine.” E cosa le disse quel professore? “Tornato da Barcellona, dopo la discussione, in virtù della mia ribellione, mi diede 99 su 100. Non gli ho più parlato. Mi sembra giusto. Ora che sono dall’altra parte della barricata, do tesi che non portano da nessuna parte per me. Ma sono sicuro portino da qualche parte gli studenti”.
Da giovane, Piero Lissoni aveva già le idee chiare e aveva capito che, per ottenere un discreto vantaggio sulla sua vita professionale, avrebbe dovuto sacrificare un po’ del suo tempo per imparare e affinare il mestiere. “Durante gli anni dell’università ho lavorato duramente in un sacco di studi milanesi”. Nei buchi vuoti io ero in giro a disegnare. È stato il mio trucco ed è lì che ho imparato in anticipo sui miei colleghi cosa significasse lavorare all’interno di una scala temporale e metodologica molto precisa. Quando sei studente la scala temporale è la tua, è quella degli esami ed è tutto mediamente artificiale. Mentre in uno studio devi presentare i progetti. In quel periodo ho iniziato a combinare il mondo accademico con quello lavorativo. All’inizio ho sofferto molto. Ma ho preso un discreto vantaggio. Così, quando mi sono ritrovato dall’altra parte, una serie di meccanismi li avevo già acquisiti”. Ed è arrivato sino al Compasso d’Oro alla carriera.
“Non l’ho cercato, non l’ho voluto ma ci sono arrivato. Mi sono sentito quasi in debito con questa cosa. Il Compasso d’Oro significa una grande responsabilità. E provo gratitudine”.
Quando ha capito che era arrivata la svolta? “Sto aspettando che la svolta arrivi domani. Tutti i giorni per me sono giorni di svolta che mi hanno permesso di fare cose. La cosa che mi interessa di più è ciò che faccio domani. È l’idea di ripartire con un giorno nuovo. Per realizzare i sogni devi avere fortuna. La fortuna è la capacità di sincronizzarti con i tempi, con le persone, con i modi e le opportunità. Io ho avuto molta fortuna perché ho trovato le persone giuste nel momento giusto con il progetto giusto. E poi devi essere coerente. Devi essere spaventosamente coerente”.
Cosa avrebbe voluto fare se non fosse diventato architetto? Non ha dubbi: “il maestro di sci! Una disciplina con una grande idea della fisica, ma non lo sai mentre la pratichi. Il corpo ti chiede di fare una cosa e la tecnica ti spinge a farne una completamente diversa. È fisica pura. Poi mi piace questa combinazione tra velocità e leggerezza. È come una danza. Inoltre, sei da solo ed è come proiettarsi nel futuro. Fisicamente sei lì, ma stai sciando venti metri più avanti. Devi essere concentratissimo”.
Da cosa trae spunto per il suo lavoro? “La scala è sempre la curiosità. Traggo spunto dalla vita, da ciò che mi accade intorno, dalla moda, cinema, musica, letteratura. Colleziono i libri di architettura, design e arte. So cosa fanno i miei colleghi, li studio. Però cerco di allontanarmi dall’autoreferenzialità del sistema. Poi succedono delle cose”.
Un team composto da un centinaio di persone a Milano, il quartier generale, che definisce una città meno sgradevole di come la raccontano. Un altro studio a New York e poi studi temporanei in giro per il mondo con figure professionali che si spostano a seconda dei progetti che vengono commissionati. Ma Piero Lissoni come sceglie i suoi collaboratori? “Innanzitutto, devono essere un po’ strani. Abbiamo persone di paesi diversi. Seconda cosa, devono avere uno spettro culturale minimo. Noi passiamo le giornate insieme. Se io discuto con uno dei miei architetti, designer o grafici, se parlo di Bob Wilson, dei Sex Pistols, e non ne sanno nulla… o se non hanno mai letto Vitruvio, per esempio, rimango perplesso. E poi li faccio disegnare e se non lo sanno fare glielo insegniamo. Un architetto deve sapere disegnare anche se è di nuova generazione”.
Lei si arrabbia mai? “Qualche volta, ma poco. È come per lo sci. È uno spreco inutile di energia. Lo sci è conservazione delle energie. Non devi fare più di quello che ti serve. Inoltre, in studio mi conoscono. Quando ho momenti temporaleschi e succede raramente nessuno mi crede. Quando invece mi arrabbio veramente accade il contrario. Ad esempio, se un progetto non è stato fatto come doveva, abbasso la voce. E lì è il momento peggiore e c’è il fuggi-fuggi generale”. Alla fine dell’intervista Piero Lissoni mi confida che le sue “vendette” poi però se le prende e guarda caso proprio con gli sci ai piedi: “Tutti gli anni organizziamo un weekend sciistico. Tutti gli anni i miei collaboratori pensano di stendermi. Lo scorso anno aveva nevicato la notte stessa e siamo finiti in cima a una montagna. Li ho portati, quelli che pensavano di potermi dare del filo da torcere, su una nera molto complessa e ho pensato, ora sistemo i conti. Le vendette sono migliori quando sono servite ghiacciatissime come il Martini Cocktail”.
Photo credit: Veronica Gaido