Mario Polino ha 33 anni e tanti capelli neri e ricci che raccontano un’originalità che si esprime attraverso il saper fare l’hacker: ovvero, saper violare un sistema informatico per saperlo proteggere. È ricercatore in Cyber security del dipartimento di Elettronica Informazione e Bioingegneria del Politecnico di Milano, nonché capitano del team Mhackeroni, un gruppo interuniversitario di circa 60 persone dove il Poli, con il team interno “Tower of Hanoi”, è il maggiormente rappresentato.
Polino ci ha raccontato di una vittoria italiana in una competizione molto prestigiosa aperta a tutti, non solo alle università. Si è tenuta ad agosto 2023 a Las Vegas e si chiama Hack a-Sat, ovvero “hackera un satellite”. È organizzata dal Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti che ha lanciato un vero e proprio satellite nello spazio, e si è svolta durante la conferenza DEF CON 31 (10-13 agosto 2023) a Las Vegas. L’ente organizzatore (Air Force Research Laboratory) di questa competizione, per capire il livello, è lo stesso che ha ideato il sistema GPS.
Alla competizione hanno preso parte oltre 300 team di tutto il mondo ma solo cinque sono arrivati alla finale di Las Vegas: quello italiano, uno tedesco, uno polacco e due misti USA-UK.
“Queste competizioni non sono solo di attacco-violazione, spesso sono anche di difesa, cioè proteggere dei sistemi individuando e rafforzando le zone vulnerabili. Si tratta, in pratica, di cercare o proteggere dei dati sensibili”
Nel caso della competizione a Las Vegas la situazione era di attacco. Ecco cosa dovevano fare i cinque team: “Dovevamo violare la sicurezza del satellite in orbita, cioè dovevamo riuscire a controllarlo e a fargli scattare delle fotografie nelle varie Red Zone”.
“Tecnicamente – ha aggiunto Polino – si è trattato di scrivere dei programmi per far credere al satellite di sorvolare una zona free invece che una delle red zone”.
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Nell’era dei Big Data, discipline come information design e data visualization sono di cruciale importanza per rendere comprensibile e sfruttabile la quantità enorme di informazioni di cui disponiamo in ogni settore dello scìbile umano. Lo sa bene Federica Fragapane, che dopo la laurea in Design della Comunicazione al Politecnico di Milano è riuscita a costruirsi un avvincente percorso in questo ambito professionale, diventando un punto di riferimento per la progettazione di infografiche per La Lettura, l’inserto culturale del Corriere della Sera, e arrivando a collezionare collaborazioni con altre testate, da Scientific American a BBC Science Focus, e con un ampio ventaglio di enti, associazioni e aziende che va da Google all’ONU. Mai, però, la 35enne si sarebbe aspettata che tre sue visualizzazioni di dati sarebbero state acquisite dal Dipartimento di Architettura e Design del MoMa di New York come parte della collezione permanente del museo. Una grande soddisfazione, merito di un approccio creativo e sperimentale basato sulla rappresentazione della complessità anche attraverso interfacce visuali diverse dai tradizionali grafici a barre, a torta, cartesiani o a istogramma, e sull’idea che l’estetica conti quanto i contenuti.
L’idea è di suggerire graficamente aspetti tendenzialmente esclusi dall’analisi puramente statistica, che, pur nel suo rigore scientifico, rischia di celare le tante sfaccettature della complessità del reale in cui siamo calati e la relatività del nostro sguardo. Eloquente, a tal proposito, la scelta di Federica di disegnare foglie dalle tinte autunnali in uno dei progetti selezionati dal MoMa, Land Defenders, uscito sul magazine Atmos a corredo di un’inchiesta della giornalista Yessenia Funes e dedicato agli ambientalisti uccisi in Brasile tra il 2015 e il 2019. O ancora, quella di tratteggiare una sorta di serpente rosso per visualizzare i livelli di concentrazione di CO2 nell’atmosfera. Si tratta di puntare su quelle che Fragapane definisce «parole visive, non meno importanti di quelle testuali e in grado, con il loro potere evocativo, di dar vita a un racconto visuale aperto anche alla dimensione emotiva».
«Dopo l’università ho lavorato per qualche anno presso Accurat, studio di information design con sede a Milano e a New York, e già lì avevo respirato aria di sperimentazione», dice Fragapane. «Quando, poi, sono diventata freelance, seguendo l’istinto, ossia passando un sacco di tempo al computer e tra i libri in cerca di ispirazioni visive, ma senza voler necessariamente definire uno stile preciso, mi sono ritrovata a essere attratta soprattutto da ciò che aveva a che fare con la natura e con il mondo degli organismi viventi. Da quel momento ho iniziato a usare figure organiche, morbide, lontane da quelle che popolano solitamente le infografiche, e col tempo questa si è trasformata in una pratica consapevole e significativa. Per me quelle forme non sono solo belle, ma servono a richiamare due concetti: da un lato, la vita dietro i dati stessi, il fatto che dietro ai numeri e alle percentuali che rappresento ci sono spesso storie di persone o di ecosistemi, un’umanità, un “vivente”, che io credo sia essenziale restituire graficamente; dall’altro, la relatività, non neutralità e imperfezione di quei dati, che, al di là dell’affidabilità delle fonti cui ricorro, sono inevitabilmente frutto di una ricerca umana».
Qualcuno obietterà che questo approccio possa minare la percezione di scientificità da parte dell’utente, ma per Fragapane è un falso problema. «Penso serva onestà intellettuale nel dichiarare che c’è sempre qualcuno dietro alla raccolta ed elaborazione di dati. Il che per me non mina l’autorevolezza di uno studio. Anzi, quell’onestà può contribuire fortemente a instaurare un rapporto di fiducia nei confronti dei numeri e della scienza». Alla base, la convinzione che in ogni progetto di information design chiarezza e bellezza espositiva debbano intrecciarsi adattandosi, al contempo, al target di riferimento. «È una questione di cura nei confronti di ciò che si fa e di attenzione verso il gruppo di persone a cui ti rivolgi. Inoltre, quando lo scopo di un’indagine è divulgativo, amo pensare che un’infografica esteticamente piacevole possa diventare un invito alla lettura e all’approfondimento. L’estetica non è un vezzo, un momento finale di rifinitura: è parte integrante del processo di comunicazione».
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Quella degli attosecondi è una delle storie scientifiche più importanti degli ultimi 100 anni. Una di quelle storie in cui qualcosa sembra impossibile… finché non viene fatto. È anche una di quelle storie che raccontano bene come una scoperta scientifica sia frutto di sforzi collettivi da parte di una comunità di scienziati che lavorano insieme, per decenni, anche a distanza (e lo facevano anche quando non era mainstream).
Ed è una storia che nel 2023 culmina (ma non finisce) con l’assegnazione del Premio Nobel per la Fisica a tre scienziati: Pierre Agostini, Ferenc Krausz e Anne L’Huillier, “per i metodi sperimentali che generano impulsi ad attosecondi di luce per lo studio delle dinamiche degli elettroni nella materia”. A seguito di questa assegnazione, sono emersi i contributi di altri scienziati che hanno fortemente contribuito alle recenti scoperte, e in particolare uno che ci riguarda molto da vicino.
Al Dipartimento di Fisica del Politecnico di Milano, Mauro Nisoli è professore ordinario di fisica della materia e direttore del laboratorio Attosecond Research Center. È un pioniere della fisica degli attosecondi e il lavoro del suo gruppo di ricerca è alla base degli esperimenti che hanno portato alla generazione e alla caratterizzazione di impulsi luminosi “estremamente brevi”, della durata di un miliardesimo di miliardesimo di secondo, utilizzati per studiare il moto degli elettroni all’interno di atomi e molecole.
Gli abbiamo chiesto di raccontarci questa storia: ecco come è andata.
UN GRUPPO DI FISICI VUOLE “VEDERE” COME SI MUOVONO GLI ELETTRONI ALL’INTERNO DELLA MATERIA DOPO L’INTERAZIONE CON LA LUCE
La storia di questo Nobel – e dell’attosecondo – inizia negli anni ’80. Inizia perché alcuni scienziati si sono messi in testa di voler guardare cosa succede all’interno delle molecole – e degli atomi – quando colpite da un impulso di luce breve e di elevata energia. Ma c’è un problema: gli elettroni si muovono più velocemente di quanto le nostre strumentazioni riescano a cogliere con gli strumenti dell’epoca. Mentre il moto degli atomi si svolge sulla scala temporale dei femtosecondi (un femtosecondo è pari a un milionesimo di miliardesimo di secondo, ovvero 10-15 secondi), gli elettroni si muovono molto più velocemente, sulla scala temporale degli attosecondi, cioè 10-18 secondi. Quindi, se vogliamo essere in grado di seguire (e misurare) il moto degli elettroni, dobbiamo utilizzare impulsi laser con durate inferiori al femtosecondo.
💡COS’È UN ATTOSECONDO?💡
Si tratta di una unità di misura del tempo e rappresenta la scala temporale adatta per seguire il moto degli elettroni in atomi e molecole. Un attosecondo è pari a un milionesimo di milionesimo di milionesimo di secondo. Non esistono paragoni che ci permettano di capire quanto piccola sia questa unità di tempo: qualche volta si legge che il numero di attosecondi in un secondo è paragonabile al numero di secondi trascorsi dall’inizio dell’Universo, 13,8 miliardi di anni fa, a oggi.
Solo che… non si possono produrre impulsi di luce con durate inferiori ad un ciclo ottico, che è determinato dalla lunghezza d’onda della luce. In genere, un laser a femtosecondi produce impulsi nella regione del visibile o del vicino infrarosso. Per poter generare impulsi ad attosecondi bisogna prima accorciare la lunghezza d’onda della luce. Negli anni ’80, pare ancora un’impresa impossibile. E invece…
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Il Politecnico è ai vertici delle classifiche mondiali delle università anche grazie alla ricerca scientifica di frontiera che porta avanti nei suoi laboratori. I protagonisti di questo primato italiano sono i circa 3500 scienziati e ricercatori del Politecnico. Tra i temi più caldi ci sono ovviamente quelli legati alla trasformazione sistemica verso la neutralità climatica; e poi il mondo del digitale, dell’esplorazione spaziale, delle life sciences, i movimenti abbracciati dal New European Bauhaus, le nuove frontiere nello studio della materia… In particolare i giovani ricercatori immettono nuova linfa nel sistema della ricerca e fanno crescere filoni scientifici innovativi. Il Politecnico investe in attività mirate proprio a incentivare l’arrivo di giovani scienziati di eccellenza. Tra i molti, quest’anno accogliamo dodici nuovi giovani ricercatori e ricercatrici tra i migliori della loro generazione, che arrivano al Politecnico di Milano grazie al programma Marie Skłodowska-Curie Actions (MSCA) fellowship. Ve li presentiamo… in rigoroso ordine d’appello.
ANDREA LILIANA PACHECO TOBO mira a fare da pioniere nello sviluppo di metodi di spettroscopia e termometria basati sulla fotonica, applicati a soluzioni cliniche, per distinguere il tessuto sottoposto a necrosi coagulativa e/o ipertermia dal normale tessuto sano durante la rimozione del tumore tramite ablazione termica. Per raggiungere questo obiettivo, ci racconta, “1) studierò concentrazioni endogene di biomarcatori ottici utili a differenziare i margini di ablazione; 2) svilupperò un phantom tissutale per ricreare i gradienti termici e le proprietà ottiche delle principali zone di ablazione tissutale; 3) condurrò studi osservazionali per raccogliere dati in situ su animali sottoposti a trattamento oncologico con ablazione laser; e 4) svilupperò algoritmi di acquisizione ed elaborazione dei dati per la rilevazione del margine di ablazione sulla base dei risultati delle misure spettrometriche e termometriche acquisite sia con i fantocci che con gli studi sugli animali”. La tecnologia da sviluppare può ridurre al minimo la distruzione del tessuto sano circostante le lesioni e ottenere al contempo una sezione completa del tumore.
Il Politecnico è ai vertici delle classifiche mondiali delle università anche grazie alla ricerca scientifica di frontiera che porta avanti nei suoi laboratori. I protagonisti di questo primato italiano sono i circa 3500 scienziati e ricercatori del Politecnico. Tra i temi più caldi ci sono ovviamente quelli legati alla trasformazione sistemica verso la neutralità climatica; e poi il mondo del digitale, dell’esplorazione spaziale, delle life sciences, i movimenti abbracciati dal New European Bauhaus, le nuove frontiere nello studio della materia… In particolare i giovani ricercatori immettono nuova linfa nel sistema della ricerca e fanno crescere filoni scientifici innovativi. Il Politecnico investe in attività mirate proprio a incentivare l’arrivo di giovani scienziati di eccellenza. Tra i molti, quest’anno accogliamo dodici nuovi giovani ricercatori e ricercatrici tra i migliori della loro generazione, che arrivano al Politecnico di Milano grazie al programma Marie Skłodowska-Curie Actions (MSCA) fellowship. Ve li presentiamo… in rigoroso ordine d’appello.
FEDERICA SEBASTIANI studia la relazione tra struttura e funzione di bio-colloidi e sistemi biomimetici: negli ultimi anni si è occupata di drug delivery, il processo che consente alle medicine di raggiungere zone del corpo colpite da patologie. “La formulazione di nanocarrier (cioè particelle nanometriche che trasportano i farmaci) ha attirato una crescente attenzione negli ultimi decenni. In particolare, la possibilità di combinare funzionalità terapeutiche e di imaging in un’unica nanopiattaforma (teranostica) è stata ampiamente esplorata per far progredire gli approcci terapeutici e promuovere la transizione dalla medicina convenzionale alla medicina personalizzata”. Sebastiani studierà nanocarrier lipidici per la consegna genica.
Fondato il 29 novembre 1863, il Politecnico di Milano festeggia quest’anno i suoi 160 anni, un traguardo che segna un percorso di innovazione, formazione e ricerca nel corso del quale l’Ateneo ha contribuito in modo significativo allo sviluppo tecnologico, sociale ed economico del Paese.
Oggi, in occasione di questo anniversario, l’Ateneo continua a guardare in avanti, affermandosi come punto di riferimento per l’innovazione, che in questo momento storico non può che essere rappresentata anche dall’Intelligenza Artificiale.
160 anni di storia ci hanno insegnato che la vera innovazione si basa sulla consapevolezza del passato e sulla visione del futuro
dichiara la Rettrice del Politecnico di Milano, Donatella Sciuto.
Oggi, più che mai, siamo chiamati a progettare il futuro, a guidare il cambiamento e a rispondere alle sfide globali che ci attendono. Il Politecnico di Milano da oltre 50 anni è impegnato nello studio dell’AI. Ora l’Ateneo si afferma come un grande centro per l’intelligenza artificiale, con un approccio trasversale e pervasivo all’interno di tutti gli ambiti di ricerca e innovazione. L’intelligenza artificiale rappresenta un cambiamento di paradigma, e come università abbiamo la responsabilità di formare le nuove generazioni a un uso consapevole della tecnologia.
Alla cerimonia di inaugurazione del 161° Anno Accademico oltre alla Rettrice Donatella Sciuto, sono intervenuti Veronica Marrocu, Presidentessa del Consiglio degli Studenti del Politecnico di Milano, Mariarosaria Taddeo, Professoressa di Digital Ethics and Defence Technologies della Oxford University, Roberto Viola, Direttore Generale per le Politiche Digitali della Commissione Europea, Giuseppe Sala, Sindaco di Milano, Attilio Fontana, Presidente della Regione Lombardia, Iliana Ivanova, Commissaria per l’Innovazione Ricerca Cultura Istruzione e Gioventù della Commissione Europea.
Leggiamo spesso storie di cervelli in fuga, menti brillanti che se ne vanno dai propri Paesi per cercare fortuna all’estero. Quella di Arsène Héma, co-fondatore del laboratorio di fabbricazione digitale InViis Lab, è la storia di un uomo che ha lasciato il suo Paese senza abbandonarlo mai davvero, ma con l’idea di studiare all’estero per poi tornare in Africa e mettere in pratica quanto appreso. Specializzatosi nel 2009 con un master in telecomunicazione al Politecnico e tornato in Burkina Faso nel 2010, Héma ammette che la sua idea iniziale “era quella di fare l’insegnante, non certo l’imprenditore”. Arrivando al Poli ha poi capito che una cosa non escludeva l’altra, e così ha deciso di aprire in Burkina Faso l’azienda “InViis Lab”, in collaborazione con Hubert N’Do che gestisce gli aspetti commerciali dell’impresa. Questo FabLab (un laboratorio di fabbricazione digitale) mette a disposizione di studenti e imprenditori attrezzature tecnologiche all’avanguardia per migliorare le loro competenze e dare vita alle loro idee innovative, accompagnandoli nello sviluppo di prototipi finanziabili e modelli di business sostenibili.
Gli inizi al Politecnico
Héma è nato e cresciuto in Costa d’Avorio, ma i suoi genitori sono del Burkina Faso. Dopo gli studi in elettronica, si interessa all’ambito della ricerca e lo sviluppo (nel 2004 per la mia tesi avevo sviluppato un telefono, ci racconta): “Un amico spagnolo mi parla del Politecnico di Milano: faccio richiesta per una borsa di studio tramite la Fondazione Rui e a settembre 2005 arrivo a Milano”, spiega. Superato il trauma del “freddo” (in Costa d’Avorio ero a 35 gradi, quando sono arrivato ce n’erano 17! Non avevo mai sentito un clima così freddo, sorride), inizia l’avventura italiana: “Ho dovuto imparare l’italiano da zero, ed ero iscritto a un master in telecomunicazione: il livello era alto, e la maggior parte degli altri studenti aveva già frequentato il Politecnico per la prima laurea”, racconta. “Inoltre la borsa di studio non copriva tutto, per cui ho dovuto lavorare e imparare a non procrastinare”.
L’incontro con Decina e il ritorno in Africa
Un incontro decisivo è quello con il professore Maurizio Decina: “Mi ha fatto capire che potevo essere un insegnante e un imprenditore, proprio come lui”, racconta Héma. Così, alla fine del suo percorso al Politecnico, Héma torna in Africa: “I miei genitori avevano deciso di tornare a vivere in Burkina Faso, io sono passato con l’idea di salutarli ma alla fine non me ne sono più andato: ho imparato a conoscere l’ambiente che, anche se vicino alla Costa d’Avorio, è molto diverso”. Forte dell’esperienza maturata a Milano, Héma lavora a sostegno di altri imprenditori, poi in ambito biomedico come responsabile delle operazioni, e infine come professore di tecnologia dello sviluppo dei servizi di telecomunicazioni all’università in Burkina Faso (incarico che mantiene tutt’ora).
Il contatto con Fondazione Aurora
Come spesso accade, è un amico in comune – Cleophas Adrien Dioma − che permette a Marta Sachy, direttrice di Fondazione Aurora ETS (un’organizzazione che si occupa di rafforzamento di iniziative imprenditoriali in Africa), e Arsène Héma di conoscersi: “La fondazione stava seguendo un progetto di accesso all’acqua nell’ovest del Burkina Faso, precisamente nel villaggio di cui sono originari i miei genitori”, ci spiega Héma. “Cercavano qualcuno che li supportasse nell’accompagnamento dell’impresa di perforazione avviata anche grazie al supporto di Fondazione Aurora, occupandosi in particolare delle relazioni con gli enti locali. E così ho conosciuto Marta”. “Il lavoro di Arséne è davvero importante perché fa da ponte, anche culturale, tra Fondazione Aurora, l’impresa e le istituzioni africane”, afferma Sachy.
La nascita di InViis Lab
Quando Héma parla a Sachy di InViis Lab, Fondazione Aurora decide di collaborare. L’azienda è stata già presentata, tramite la Fondazione, due volte in Italia, la prima alla Borsa Valori a Milano, la seconda a Roma nell’ambito dell’Italia-Africa Business Week. “Il nome InViis Lab deriva dal latino in viis – in strada, in giro con la gente − ma anche dal latino vernacolare oltre il traguardo, oltre l’attesa”, ci spiega Héma.
“Il nostro obiettivo a InViis non è inventare cose nuove: vogliamo ispirarci a realtà che esistono già e migliorarle, evitando di commettere gli stessi errori”, sottolinea Héma. Per ora l’azienda si specializza in tre ambiti: elettronica, internet delle cose (di cui fanno parte, per capirci, smartphone e elettrodomestici intelligenti) e telecomunicazione.
Risolvere problemi concreti
“Vogliamo sviluppare progetti che rispondano a dei bisogni concreti della realtà locale del Burkina Faso, come l’agricoltura e la piscicoltura: la nostra idea è trovare soluzioni tecnologiche ma concrete per semplificare la vita ai lavoratori e aiutarli a guadagnare di più”, ci spiega Héma. Oltre ad aiutare chi ha un’idea da sviluppare, InViis offrirà anche una formazione riconosciuta, rilasciando certificati validi anche al di fuori del Burkina Faso. “Il nostro sogno più grande è che InViis Lab diventi un punto di riferimento per la ricerca e lo sviluppo di innovazioni”, afferma Héma.
Chi può partecipare e quando si inaugura
Chi può usufruire dei servizi di InViis Lab? “Non c’è un minimo di età né di studi per proporre la propria idea: se è buona, la ascoltiamo”, risponde Héma. “Ci sarà un comitato scientifico che farà una prima scrematura, e poi offriremo diversi livelli di membership dedicati a studenti universitari, a privati o a imprese”. InViis Lab si rivolge infatti a tre principali target di clienti:
il programma di membership è pensato per innovatori autonomi e permette di utilizzare direttamente la strumentazione del laboratorio, tra cui stampanti 3D, PC, frese CNC e incisori laser, stazioni di saldatura, oscilloscopi e multimetri, e kit di apprendimento Arduino;
studenti e dipendenti di imprese private e di uffici pubblici potranno ricevere corsi di formazione professionale e workshop per sviluppare competenze digitali e imprenditoriali, anche attraverso partenariati con università e centri di ricerca;
forti delle loro competenze ICT e business, il team di Arsène offrirà inoltre servizi di ricerca e sviluppo, ottimizzazione, prototipazione e validazione per conto di aziende e start-up con idee innovative.
InViis Lab ha avviato i primi progetti ad agosto 2023, in particolare la programmazione e installazione di un set di pannelli LED per un istituto bancario a Ouagadougou, anche grazie al supporto di tre tirocinanti di università di ingegneria locali. “Se tutto andrà bene, contiamo di passare alla produzione e commercializzare di questi e altri progetti già dopo un anno di test: risolverebbero problemi molto importanti in Burkina Faso, facendo inoltre risparmiare al governo parecchi soldi”, spiega Héma.
Come possiamo supportare?
È possibile contribuire alla buona riuscita di questo progetto? “Certo, condividendo questo articolo e spargendo la voce sulle attività di InViis Lab: con le vostre reti di contatti potrete aiutarci a stabilire nuove opportunità di collaborazioni e partnership internazionali, contribuendo quindi alla crescita dell’azienda” risponde Héma. “Invitiamo inoltre a mettersi in contatto con noi anche chi volesse supportare InViis Lab contribuendo agli investimenti che stiamo svolgendo per attrezzare ulteriormente il laboratorio, soprattutto con strumenti che offrano più mobilità per poter testare soluzioni sul campo”.
“Ogni giorno al Poli si lavora per fare cose che abbiano un impatto positivo, per migliorare il mondo in cui viviamo e il modo in cui viviamo. È questa la nostra vera e unica missione: ed è quello che ci trascina a studiare, insegnare, lavorare, fare, con grande passione”,
così apre la discussione Enrico Zio, presidente Alumni Politecnico di Milano, che dà il via a un momento di approfondimento e confronto tra le alte cariche di ateneo e la community degli Alumni.
683 Alumni hanno partecipato all’evento dal vivo, affollando l’aula magna del Politecnico di Milano – oltre 200 hanno seguito e commentato la discussione online. Avere un impatto, si scopre, non è affatto una banalità. Specialmente quando il timone è puntato saldamente nella direzione di una crescita sostenibile:
“vuol dire per prima cosa prendersi cura delle persone e dell’ambiente in cui si trovano”
commenta la rettrice Donatella Sciuto, al suo primo anno in questa veste sul palco degli Alumni. Da un’esigenza di sostenibilità, spiega, “nascono sfide importanti a cui la ricerca deve dare risposta. Le tecnologie nei materiali, nell’architettura e nel design sono diretto a creare un ambiente sostenibile per il futuro, quello che lasceremo ai giovani”.
Le prossime generazioni sono al centro del discorso: è con questa prospettiva sul futuro che Sciuto invita a considerare “l’altra faccia della medaglia” dello sviluppo, per esempio il grande impatto energetico delle tecnologie di machine learning, giusto per dirne una, e introduce a tutti i livelli del discorso accademico, dalla ricerca, alla didattica, al rapporto con il territorio, una dimensione etica che ci porti a ragionare sul nostro impatto nel mondo.
Il Politecnico è ai vertici delle classifiche mondiali delle università anche grazie alla ricerca scientifica di frontiera che porta avanti nei suoi laboratori. I protagonisti di questo primato italiano sono i circa 3500 scienziati e ricercatori del Politecnico. Tra i temi più caldi ci sono ovviamente quelli legati alla trasformazione sistemica verso la neutralità climatica; e poi il mondo del digitale, dell’esplorazione spaziale, delle life sciences, i movimenti abbracciati dal New European Bauhaus, le nuove frontiere nello studio della materia… In particolare i giovani ricercatori immettono nuova linfa nel sistema della ricerca e fanno crescere filoni scientifici innovativi. Il Politecnico investe in attività mirate proprio a incentivare l’arrivo di giovani scienziati di eccellenza. Tra i molti, quest’anno accogliamo dodici nuovi giovani ricercatori e ricercatrici tra i migliori della loro generazione, che arrivano al Politecnico di Milano grazie al programma Marie Skłodowska-Curie Actions (MSCA) fellowship. Ve li presentiamo… in rigoroso ordine d’appello.
CARMINE GIORDANO lavora sulla simulazione delle dinamiche del sistema solare. “Migliaia di navicelle permeeranno il sistema solare nel giro di pochi anni. Tuttavia, non esiste un pilota automatico nello spazio e tutto necessita ancora del controllo da terra. Contemporaneamente, c’è un enorme interesse per i corpi minori, come gli asteroidi o le comete, sia per motivi di esplorazione (possono darci informazioni preziose sull’origine del sistema solare e sulla vita sulla Terra) sia per motivi economici (sono fatti di materiali rari utili nelle applicazioni terrestri). Il mio progetto nasce partendo da questi due problemi e mira a sviluppare algoritmi di guida e controllo autonomi per i CubeSat in prossimità di corpi minori, utilizzando schede di calcolo a bassa potenza e ad alte prestazioni.”
Il Politecnico è ai vertici delle classifiche mondiali delle università anche grazie alla ricerca scientifica di frontiera che porta avanti nei suoi laboratori. I protagonisti di questo primato italiano sono i circa 3500 scienziati e ricercatori del Politecnico. Tra i temi più caldi ci sono ovviamente quelli legati alla trasformazione sistemica verso la neutralità climatica; e poi il mondo del digitale, dell’esplorazione spaziale, delle life sciences, i movimenti abbracciati dal New European Bauhaus, le nuove frontiere nello studio della materia… In particolare i giovani ricercatori immettono nuova linfa nel sistema della ricerca e fanno crescere filoni scientifici innovativi. Il Politecnico investe in attività mirate proprio a incentivare l’arrivo di giovani scienziati di eccellenza. Tra i molti, quest’anno accogliamo dodici nuovi giovani ricercatori e ricercatrici tra i migliori della loro generazione, che arrivano al Politecnico di Milano grazie al programma Marie Skłodowska-Curie Actions (MSCA) fellowship. Ve li presentiamo… in rigoroso ordine d’appello.
Caterina Brighi
CATERINA BRIGHI ci racconta: “I tumori cerebrali aggressivi hanno una prognosi estremamente sfavorevole. La recidiva è causata da particolari proprietà biologiche di alcune regioni cerebrali, che le rendono resistenti ai trattamenti attuali. L’ipossia tumorale (bassa ossigenazione) e la principale causa di resistenza alla radioterapia nei tumori cerebrali ed e legata alla prognosi sfavorevole del paziente. Contrastare efficacemente l’ipossia tumorale richiede la somministrazione selettiva di dosi più elevate di radiazioni limitandone al contempo la tossicità, difficile con i trattamenti radioterapici convenzionali. Con il mio progetto miro a migliorare il trattamento con radiazioni per i tumori cerebrali aggressivi combinando l’imaging quantitativo MRI/PET, per caratterizzare in modo non invasivo le regioni di ipossia tumorale, e la radioterapia con ioni carbonio, per fornire dosi più elevate di radiazioni a quelle regioni, risparmiando il tessuto sano circostante. Questa strategia fornirà una distribuzione più efficace della dose di radiazioni, offrendo l’opportunità di migliorare i risultati di sopravvivenza e la qualità della vita dei pazienti”.
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