A un certo punto della sua carriera professionale, Massimo Alberti, ingegnere biomedico laureato nel 2006 al Politecnico di Milano, ha deciso che fosse arrivato il momento di “varcare il confine”, passando dalla ricerca al mercato. “Stavo lavorando da cinque anni in questo importante istituto tecnologico di Singapore (The Agency for Science, Technology and Research A*STAR, ndr) e occorreva prendere una decisione in merito alla tecnologia che stavamo sviluppando e che ormai era sufficientemente avanzata per provare a commercializzata. È uscita così la mia aspirazione da ingegnere, il desiderio di vedere il proprio progetto di ricerca diventare un prodotto. Mi sono lanciato”.
Il lancio è andato bene. Oggi Massimo è fondatore di REVIVO BioSystems e ha un team composto da 8 persone tra ingegneri e biologi. Non numeroso per ora, ma la scalabilità dell’azienda farebbe invidia alle più blasonate startup della Silicon Valley. “Abbiamo distributori in dieci paesi, vogliamo aumentare il network e aprire una filiale in Europa. Ci spingeremo sempre di più in nuovi settori e stiamo per lanciare i nostri due nuovi kit, uno per lo studio dell’antiaging e l’altro sulla rigenerazione della cute”.
Di che tecnologia si tratta? “L’azienda è specializzata nella generazione di modelli tissutali 4D in laboratorio per test in vitro di sicurezza ed efficacia. Le nostre capacità sono le più vicine, tra quelle disponibili in commercio, alla vera pelle umana. Abbiamo sviluppato una combinazione di tecnologie diverse, dalla microfluidica che permette di replicare la funzione del flusso sanguigno, all’ingegneria genetica e dei tessuti, che ci permette di ricostruire tessuti avanzati e funzionalizzati in laboratorio a partire dalle cellule umane. Il prodotto che ne nasce è uno strumento in cui noi possiamo letteralmente montare questi dispositivi microfluidici con il tessuto ricostruito e fare test per finalità cosmetiche”. Parliamo del mercato dell’antiaging, delle creme antirughe e della cura delle lesioni che da soli basterebbero a occupare i conti della startup. Ma questo è solo l’inizio dell’avventura.
“Il vero potenziale di questa tecnologia è nella farmaceutica, dove la complessità riguarda la regolamentazione esistente, che per motivi legati alla salute è molto rigida. Si tratta di tessuti che rappresentano le barriere interne ed esterne del corpo, la mucosa orale e quindi i test dell’oral care, ma avvicinandoci a cose più importanti potremmo analizzare il tessuto del tratto digestivo, stomaco, intestino. Abbiamo persino pensato, in un modello futuro, alla realizzazione di test su prodotti che devono raggiungere, per esempio, il cervello o devono essere metabolizzati dai reni”.
L’innovazione dell’azienda non riguarda solo la tecnologia, ma un aspetto etico e sociale molto importante. “Crediamo fortemente nello sviluppo scientifico e tecnologico per accelerare il cambiamento di paradigma dai test su animali ai metodi alternativi (NAM). Di conseguenza, la nostra innovazione contribuirà ad accelerare lo sviluppo di prodotti chimici, cosmetici, nutraceutici e farmaceutici, garantendo al contempo la protezione del consumatore e la riduzione e sostituzione dei test su animali. Fornendo metodologie più accurate ed efficaci per i test preclinici, REVIVO aiuterà le industrie di competenza a ridurre i costi di sviluppo, specialmente nella fase preclinica, il che potrà portare, in ultima analisi, a rendere i prodotti più accessibili. Guardando al futuro, l’uso di cellule derivate da pazienti per modelli in vitro, come quelli che sviluppiamo, consentirà approcci più efficaci nella medicina di precisione e nella cosmetica personalizzata.”
Crescita economica, elevata tecnologia e responsabilità sociale ed etica sono proprio i motivi che hanno portato REVIVO BioSystems a ricevere il prestigioso premio internazionale “L’innovazione che parla italiano” arrivato direttamente a Massimo Alberti dalle mani dei ministri Bernini e Tajani rispettivamente dell’Università e Ricerca e degli Affari Esteri e Cooperazione Internazionale. Un premio dell’alto valore innovativo assegnato a startup tecnologiche che operano all’estero e fondate da cittadini italiani.
“Sono molto orgoglioso di questa onorificenza. Non solo perché arriva dal mio Paese, dal quale manco ormai da più di quindici anni, ma perché, per la prima volta, il premio, giunto alla sesta edizione, viene assegnato a un imprenditore che risiede in Asia, un continente dove c’è molto sviluppo biotech, anche se i leader rimangono gli Stati Uniti e il fatto che l’Italia mi abbia premiato significa che stanno posando lo sguardo anche su altri paesi. Il premio dimostra anche che perseguire un percorso di carriera non convenzionale e impegnativo abbracciando una prospettiva globale, può portare a realizzazioni significative e a riconoscimenti nell’arena internazionale.”.
Che cosa ti ha spinto a lasciare l’Italia dopo l’Università? “A spingermi a fare nuove esperienze è stata sempre la curiosità, la voglia di esplorare. La prima opportunità l’ho colta durante gli anni del Politecnico di Milano quando ho fatto un Erasmus in Norvegia. E lì ho capito il valore di fare esperienze in altri paesi. Il dottorato l’ho fatto in Danimarca dove ho vissuto sette anni”. Poi l’approdo a Singapore “Singapore rispetto ad altri posti in Asia è un po’ dove l’Occidente incontra l’Oriente. L’inglese è la lingua ufficiale e inoltre è una città molto verde e vivibile. Ha una buona qualità della vita: le infrastrutture e i mezzi di trasporto funzionano. È una città stabile dal punto di vista geopolitico.” Non hai mai pensato di tornare in Italia? “Penso magari di tornare in Europa, per essere più vicino alla Francia, dove abbiamo al momento dei legami commerciali importanti. Stiamo facendo fundraising per il nostro secondo round di finanziamento e sarebbe importante se gli investitori interessati potessero aiutare la nostra espansione commerciale in Europa. In futuro, chissà, se ci fosse un’opportunità concreta. Anche perché ho una bambina e vorrei farle conoscere il mio Paese e la cultura italiana”.
Degli anni al Politecnico di Milano cosa ti sei portato nella tua vita professionale? “Quando sono arrivato all’Università provenivo da una formazione classica alle superiori e grazie all’ateneo ho avuto una buona formazione scientifica. L’interesse per lo sviluppo di colture cellulari e sistemi microelettromeccanici per applicazioni in vitro è nato durante la mia tesi di laurea, che affrontava l’utilizzo di microelettrodi per la stimolazione di neuroni coltivati in laboratorio su un dispositivo microfluidico”.
Una tesi all’avanguardia, che poi ti ha portato, anni dopo, a fondare una startup di successo. Come vedi il tuo futuro? “Oggi sono molto concentrato su questa azienda e il mio sogno professionale è farla diventare leader nel settore dando così la possibilità a nuove tecnologie, come questa, di cambiare il modo in cui i prodotti vengono testati nella fase preclinica e aiutare a svilupparne di nuovi, che aiutino a migliorare la vita delle persone in modo più veloce ed efficace”. La motivazione di Massimo però è ancora più profonda e ha legami inaspettati con il suo sogno di bambino. “Vorrei contribuire a far stare meglio le persone con la ricerca, con le scoperte. Per me è una sorta di missione. Non a caso da piccolo volevo fare il medico”.
Ma come si lega tutto questo con l’ingegneria biomedica? “Al momento di iscrivermi all’Università ho capito che facendo l’ingegnere biomedico avrei potuto unire la mia passione per le scienze e il desiderio di aiutare gli altri come fanno i medici. In fondo se ci pensate con la tecnologia si può avere un impatto più ampio sulle persone, potenzialmente posso raggiungerne molte di più”.
Non facciamo fatica a credergli. Massimo precisa che il dispositivo fluidico, che è il cuore della sua tecnologia, ha le dimensioni di una carta di credito. Una carta che non scambia soldi, ma trasferisce benessere alle persone.