Cini Boeri: una vita passata a “progettare per la gioia”

La passione per l’architettura, il rapporto con Gio Ponti e la lotta nella Resistenza: la ricordiamo con una sua intervista del 2015

Cini Boeri si laureava nel 1951. Nel 2015 l’abbiamo incontrata tra le sue opere, alcune più anziane di chi scrive, per raccontare i suoi oltre 60 anni di carriera attraverso una delle sue ultime mostre monografiche: “Progettando la gioia”. Ricordiamo la celebre architetta viaggiare con occhi sognanti e con ironia attraverso i suoi lunghi anni e attraverso la storia dell’architettura e del design del ‘900, mentre rispondeva alle domande degli Alumni:

cini boeri
foto Maria Mulas

AP: Cini, lei si è laureata nel 1951, poi ha aperto molto presto il suo studio, nel ’63. La sua carriera è decollata tra progetti, insegnamento, ricerca, fino a questa esposizione, “Progettando la Gioia”, una sorta di compendio della sua vita professionale.

CB: Sì, non ho dovuto aspettare molto, dopo la laurea, per iniziare a lavorare. Da Gio’ Ponti sono rimasta solo un anno. È stato lui spingermi verso la professione. Mi diceva: “Tu, coi colori che fai, devi fare l’architetto!”. Poi sono andata da sola. Avevo una segretaria e ogni tanto qualche stagista a fare pratica.

AP: Durante un’intervista, ha dichiarato che una buona parte del suo lavoro consiste nel progettare oggetti di uso comune, con lo scopo che non siano posseduti bensì utilizzati. L’utilizzo degli oggetti e il rapporto con lo spazio può essere una fonte di gioia. Cosa significa?

CB: Quando progetto una casa per una coppia di coniugi, ad esempio, propongo sempre di inserire una stanza in più. Loro mi chiedono sempre: “per gli ospiti?”. Ma no! Non per gli ospiti. Perché se una sera uno ha il raffreddore può andare a dormire in un’altra stanza, per esempio. Uno dovrebbe poter scegliere, sapere che può andare a dormire con il proprio compagno, ma che può anche decidere di non farlo, senza che questo pregiudichi la vita di coppia. Credo sarebbe molto educativo insegnare i giovani che quando si uniscono in coppia non è obbligatorio dividere il letto, è una scelta. È molto più bello.

AP: Quindi secondo lei si possono usare gli spazi quotidiani per educare le persone a diversi modelli di vita?

CB: Esattamente! Certo.

Serpentone cini boeri
foto archivio storico Arflex

AP: In che modo pensa che il suo lavoro possa contribuire a questa educazione della cittadinanza?

CB: Un po’, la società matura per conto suo. Oggi le persone sono più autonome e indipendenti. È un processo in atto. Io, nella mia veste di architetto, posso proporre dei modi alternativi di abitare e vivere gli spazi, agevolando un processo di emancipazione già in atto e promuovendo ovunque possibile la libertà di scelta.

AP: Parlando della sua opera, parole che emergono spesso sono quelle di un approccio democratico all’architettura e al design. Cosa significa? Quali sono i suoi padri intellettuali?

CB: È il Politecnico che ci ha abituati così. Abbiamo avuto un insegnamento molto aperto, non so se oggi sia ancora così!

AP: Ci racconta qualcosa degli anni del Poli?

CB: Ecco… si discuteva abbastanza. Io arrivavo con delle idee già maturate sull’autonomia e la responsabilità reciproca: già allora pensavo che fosse importante mettere il focus su libertà degli individui, e i miei progetti hanno sempre cercato di concretizzare questo principio. Per cui si discuteva! Perfino oggi, è difficile che queste idee vengano accolte come proposte serie. Quella della camera da letto in più, ad esempio, viene presa come una minaccia al matrimonio! Ma non è così. Imparare a pensare per conto proprio favorisce il benessere della coppia, non lo minaccia.

AP: Con chi discuteva? Con gli insegnanti?

CB: non necessariamente. I professori erano di ampie vedute. Mi ricordo, ad esempio, del prof. Renato Camus (immagino oggi non ci sia più!): sempre orientato verso la modernità, verso nuovi modi di vivere. Ma il modello famigliare era ancora molto tradizionale e gerarchico. La libertà non era sempre considerata uno strumento accettabile.

AP: Uno strumento?

CB: La libertà è uno strumento, in senso allargato. Ad esempio, quando un bambino impara a fare qualcosa da solo, acquisisce al tempo stesso la responsabilità di doverlo fare e la libertà di poterlo fare.

AP: Lei ha avuto e ha tuttora molti collaboratori più giovani. Cos’è cambiato negli architetti, nei 60 anni della sua carriera?

CB: C’è più libertà d’azione, più possibilità di scegliere e più consapevolezza. Questo dipende sia dall’evoluzione generale della società, sia dal fatto che oggi la professione è meglio riconosciuta, è diventata un valore culturale oltre che estetico. Ai miei tempi, l’architetto era visto un po’ come il decoratore, non come quello che rende funzionale uno spazio, e quell’approccio ci toglieva il nostro valore principale, la funzionalità. La funzionalità è un invito a vivere lo spazio in un certo modo, invece che in un altro: nel mio caso, un invito a togliere le dipendenze, a promuovere l’autonomia e la riflessione. Progettare per la funzionalità è progettare per la gioia.

cantina pieve vecchia
foto Cantina Pieve Vecchia

AP: Lei però non ha progettato solo spazi, ma anche oggetti di design. Un tempo architettura e design non erano due discipline separate, mentre oggi vengono insegnate, al Poli, in due diverse facoltà. Qual è il rapporto che le lega?

CB: È un rapporto molto stretto. Il motivo sottostante un progetto, che sia di un mobile o di un locale, è sempre la funzionalità. La fisionomia dello spazio è legata alla sua funzione d’uso. Lo stesso vale per il design. Gli oggetti devono aiutare a vivere lo spazio, non occuparlo.

AP: Sempre a proposito del rapporto tra le varie discipline di matrice politecnica, le riporto una recente dichiarazione di Renzo Piano: “Negli anni del Poli crebbe in me l’idea che quelli dell’Architetto e dell’ingegnere siano lo stesso mestiere”. È un invito a riflettere sulle cose che ci legano in quanto Alumni Polimi, invece che su quelle che ci dividono. Cosa ne pensa?

CB: [ride] Per certi versi è vero! Cioè, non sono la stessa cosa, ma un progetto non si realizza senza la collaborazione dell’uno e dell’altro. Sono due mestieri molto vicini e devono collaborare. Non sono la stessa cosa perché all’ingegnere manca una cosa: il focus sulle necessità della persona. Insomma, se io devo progettare un appartamento per una famiglia, vado a conoscerla, passo del tempo con loro, cerco di entrare nelle loro dinamiche famigliari.

AP: Qual è l’elemento portante del rapporto tra lei e il suo committente?

CB: La comunicazione e la fiducia, che deve essere reciproca. Non sempre quello che io propongo è quello che il committente si aspetta. Non sempre ci si capisce al volo. Ad esempio, quella storia della camera in più, talvolta, mi ha fatto passare per una “killer dei matrimoni” [ride]. Ma non è così! Io, come architetto, devo saper ascoltare e interpretare loro necessità. Il committente deve imparare a fidarsi. Di solito funziona!

AP: I suoi committenti sanno quello che vogliono, quando vengono da lei?

CB: No! Vogliono il meglio… [ride], e, di solito, vogliono quello che hanno visto. Una volta mi proponevano i divani in stile ottocentesco, tutti sagome e volute, oggi mi propongono cose astratte che non servono a niente. D’altra parte credono che l’architetto porti la novità in quanto tale. Invece, io voglio portare benefici alla vita! Quindi, bisogna ascoltarsi e venirsi incontro. Alla fine, sono tutti sempre molto soddisfatti.

AP: Lei ha dichiarato in un’intervista che un progetto nasce, per dirlo con parole politecniche, da un processo di analisi e sintesi. Me lo spiega meglio?

CB: Il momento di analisi è quello dell’ascolto, in cui, come ho spiegato, imparo a conoscere il committente. Il momento di sintesi è quello creativo, che è altrettanto importante. Noi proponiamo il nuovo, che è frutto della creatività, ma non lo proponiamo in modo indiscriminato: deve avere un posto e una funzione chiara nella vita delle persone.

AP: È una “creatività controllata”?

CB: In un certo senso… ad esempio, se devo fare una sedia non butto lì la prima cosa che mi viene in mente, sarebbe una stupidata. Invece, penso a come ci si siede, a come le diverse forme del corpo umano possono avere il sostegno giusto. La forma del corpo determina la linea interna di un sedile, punto di partenza del progetto. La funzionalità dirige la creatività.

AP: Cos’è per lei l’innovazione?

CB: È ciò che avvicina un progetto al committente, alle sue necessità. Che sono personali. Per evitare di riproporre sempre gli stessi schemi, l’architetto deve essere in grado di personalizzare il progetto. Deve conoscere il committente. E per conoscerlo deve avere un modo facile e diretto di comunicare.

AP: Quindi la comunicazione è un fattore chiave per l’innovazione?

CB: Esatto.

AP: Perché ha scelto la strada dell’architetto?

CB: Ah, questa è una domanda difficile! Non le so rispondere. Forse il momento determinante è stato durante la Resistenza, in montagna, quando conobbi De Finetti. Inizialmente mi diceva che ero una ragazzina, e che l’architetto era un mestiere da uomo. Poi, però, mi portava a fare delle passeggiate, mi faceva vedere delle case, mi chiedeva cosa ne pensassi. E alla fine mi disse che forse ero abbastanza seria per diventare architetto. “Ricordati che è una cosa seria”, mi diceva, “non un gioco”.

cini boeri casa nel bosco
Casa nel bosco, 1969 (foto Matteo Piazza)

AP: Mi racconta qualcosa degli anni della Resistenza?

CB: Ah, sì. L’ho fatta in pieno, con molto entusiasmo e molta buona volontà. Ero giovane! Siamo partiti dalle cose più banali, come portare la corrispondenza ai ribelli in montagna. Poi le cose si sono fatte serie. Alla fine abbiamo guidato le truppe partigiane.

AP: Non aveva paura?

CB: No, ero molto appassionata. La mia gioventù è stata determinata dall’anti-fascismo, che per fortuna era vivo nella mia famiglia e nei nostri amici. Ero già politicizzata, in un certo senso, con una sensibilità sul contesto sociale e le sue manifestazioni. Era tutto molto chiaro. L’anti-fascismo ci ha portato alla lotta e la lotta ad essere gli autori della nuova società. Parlo al plurale: non ero da sola, ero circondata dai miei coetanei.

AP: Sapevate cosa dovevate fare?

CB: Sapevamo molto bene che il fascismo andava condannato. Aveva troppi lati contrari al nostro modo di pensare: la propaganda personale, l’autorità, il rapporto autoritario con il lavoratore, eccetera. Sulla negazione di quello che viveva intorno a noi, ci siamo formati e abbiamo cominciato a costruire.

AP: Cos’ha voluto dire essere partigiani?

CB: Era una guerra semplice. Si combatteva sulle montagne, si sparava, si scendeva in città a scambiare documenti e si ritornava su. Ma non era una massa di persone, non era un esercito. Era un modo di essere e di pensare, la nostra natura. E quindi per noi era naturale agire così. A sua volta, la Resistenza ha formato il mio carattere e ha rassicurato i principi trasmessi dalla famiglia.

AP: Quei principi che sono alla base del suo lavoro…

CB: Esatto, l’autonomia, la libertà personale, l’approccio democratico, la responsabilità, il rispetto dell’altro nei rapporti interpersonali… tutti questi valori, che hanno determinato la mia carriera, vengono da lì. Io sono felice della mia professione, ma se dovessi sceglierne un’altra farei l’insegnante, anche alle scuole elementari. Questi sono valori che vanno trasmessi.

AP: Un’ultima domanda e poi la lascio ai suoi ospiti: qual è la lezione più importante che le ha lasciato il Poli?

CB: La serietà. L’architettura è costruire. È disciplina. Quando ero in studio con Gio’ Ponti, lui mi sgridava se trascuravo dettagli come riordinare la scrivania. Mi diceva: “L’architetto non fa questi errori. L’architetto tiene tutto organizzato, in modo che sia ben stabile”.

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