Anthea Comellini, astronauta politecnica

Classe 1992, Alumna in Ingegneria Aerospaziale, è stata selezionata dall’ESA come membro della Riserva degli Astronauti

«Un giorno mi è arrivata una chiamata da un numero francese e dall’altra parte ho sentito una voce maschile che mi parlava in inglese con un accento germanico. Io penso che in Europa ci sia una sola persona che corrisponda a questo criterio: Josef Aschbacher, il direttore generale dell’ESA». Quel giorno, quella voce, ha comunicato all’Alumna Anthea Comellini che era appena stata scelta dall’ESA tra 23mila candidati per entrare a far parte dei 17 astronauti e astronaute, unica donna italiana, in qualità di membro della riserva. In collegamento dalla sede francese di Thales Alenia Space, dove lavora come ingegnera nel reparto di Ricerca e sviluppo, ci ha raccontato il suo percorso.

Dove ha inizio la strada per la luna?

Ho cominciato ad alzare la testa al cielo da piccola. Mi affascinava la tecnologia che l’uomo riusciva a mettere in campo per avventurarsi in questo tipo di esplorazioni, e anche la complessità che ne derivava: quante persone servivano, quanti sviluppi tecnologici e quanta preparazione occorrevano. Uno dei primi film di fantascienza che ricordo di aver visto è stato Armageddon, non certo un’opera particolarmente accurata dal punto di vista scientifico, però mi colpì subito l’immagine dello shuttle sulla rampa di lancio. Poiché ero appassionata di Star Wars, pensavo si trattasse di science-fiction. Fu dopo qualche giorno, parlando con i miei genitori, che scoprii che lo shuttle esisteva davvero e che realmente partiva da quella rampa di lancio. Mi dissi che allora un po’ di cose alla Star Wars si potessero fare. Allo stesso modo mi affascinavano i pionieri dell’aviazione, perché noi non siamo nati per volare ma tutti questi anni di progressi scientifici e tecnologici ci hanno permesso di farlo e ci aiutano a portare avanti studi che non sono fini a se stessi ma che hanno impatti reali sull’umanità. Questo mi ha dato molta forza e ha alimentato la mia passione.

Dopo aver scoperto che dietro la fantascienza si celava una verità tecnologica, com’è proseguita la sua strada?

Il primo sliding doors della mia vita è stato verso la fine delle scuole medie, quando mi sono posta l’interrogativo: carriera umanistica o scientifica? E lì, la scelta per la seconda opzione. C’è stato un momento in cui ho anche considerato di entrare in Accademia Aeronautica a Pozzuoli ma ho capito che avrei preferito studiare gli aerei invece di pilotarli. Sentivo che la mia era una sete di conoscenza tecnologica. Ho scelto così la triennale in Ingegneria Aerospaziale. Quello che ha fatto il Poli per permettermi di essere dove e come sono ora è stato fondamentale. La maniera in cui ho studiato e assimilato le cose mi ha permesso di avere una visione globale. L’aver speso così tante ore sui libri per assimilare concetti nelle discipline più disparate mi ha dato la consapevolezza che magari non ricordo a memoria una formula, ma so benissimo dove andare a cercarle e come applicarla. Questo, in un settore multidisciplinare come lo spazio, è un valore fondamentale. Gli astronauti vengono spesso definiti come “generalisti”, ovvero persone che se la cavano in tutto, ed è una perfetta descrizione di me.

Quanto tempo è durata la selezione e in cosa è consistita?

Ci sono stati sei step in un anno e mezzo. Il primo step è stato l’invio del curriculum insieme ad una lettera di motivazione e la compilazione di un questionario. Da qui, siamo passati dall’essere 23mila a 1400 candidati. Il secondo step è stato una giornata di test psico-metrici molto simili a quelli che le compagnie aeree sottopongono agli aspiranti piloti durante la selezione: test di velocità di percezione, di memoria visiva e uditiva a lungo e a breve termine, coordinazione mani-occhi, multitasking e resistenza dell’attenzione, infine test di matematica e tecnica. Dopo questo secondo passaggio siamo rimasti in 400. Siamo stati invitati quindi a Colonia, al Centro Addestramento Astronauti, per una giornata di assessment psicologico. Abbiamo svolto esercizi a due, per vedere le capacità di comunicazione sotto stress, ed esercizi di gruppo per vedere come interagivamo con gli altri candidati. Nella stessa giornata abbiamo sostenuto l’intervista con uno psicologo e un panel con una giuria composta da psicologi, membri delle risorse umane ed ex astronauti. Nel mio caso, ho incontrato il buon Luca Parmitano. A seguito di questo step siamo rimasti in cento e siamo stati sottoposti ad una settimana di test medici e fisici. Cinquanta di noi hanno potuto accedere alle ultime due fasi: una prima intervista con un board composto da membri senior delle risorse umane, degli astronauti e anche persone della comunicazione, perché a quel punto entrava in gioco anche la capacità di divulgazione delle tematiche spaziali. Ventisei di noi hanno sostenuto l’ultima intervista con il direttore dell’ESA. Quel giorno ero abbastanza rilassata perché sapevo che ero arrivata al massimo di cui sarei potuta arrivare e non avevo nulla da recriminarmi. Avevo sottolineato che per me diventare astronauta non era stata una ossessione, perché avevo fatto il mio percorso cercando di diventare innanzitutto un buon ingegnere e il resto erano delle convergenze che mi avevano portato a candidarmi. Mi hanno chiesto se secondo me ciò non volesse dire che fossi meno motivata di qualcuno che invece aveva orientato dieci anni della propria vita a questo obiettivo. La mia risposta è stata che il mio era un approccio meno egoistico, in quanto più che sull’ossessione per ottenere qualcosa su cui mi ero fissata, ero interessata all’utilità di ciò che possiamo fare come comunità spaziale.

Sei quindi stata nominata astronauta di riserva, cosa fa un astronauta di riserva?

La riserva ha innanzitutto lo scopo di assicurare la continuità nel caso di un ricambio generazionale. Poi, dato che ci troviamo in un momento storico in cui c’è l’avvento degli operatori commerciali, le missioni non sono più solo a carico delle istituzioni, il che apre al turismo spaziale per chi se lo può permettere ma dà la possibilità anche a paesi europei più piccoli ad accedere più facilmente a missioni con astronauti della loro nazionalità. Nel frattempo proseguo il mio lavoro di ingegnere, soprattutto sui rendez-vous. Mi occupo cioè di permettere ai satelliti di compiere autonomamente traiettorie senza bisogno del supporto da terra. Ciò ha diverse applicazioni: i rendez-vous autonomi servono ad esempio per recuperare i detriti spaziali e riportarli in atmosfera o per effettuare servizi di estinzione vita, rifornimento e riparazione. Mi sento di star contribuendo in una maniera che è buona, cerchiamo di massimizzare le risorse già in orbita, ripuliamo ci che è stato fatto negli anni precedenti quando i lanci erano più liberi e non si pensava al dopo.

A proposito di questo, che valore ha la sostenibilità nello spazio?

Questo tipo di sistemi orbitali sono un esempio eccellente di economia circolare e sostenibile: si ricicla fino all’80 per cento dell’acqua, sono totalmente indipendente dal punto di vista energetico grazie ai pannelli solari e ci aiutano a sviluppare tecnologie che hanno dei ritorni sulla terra, che possiamo applicare nella vita di tutti i giorni. Lo stesso vale per l’esplorazione lunare, in cui il touch-down non è più nazionalistico, l’essere arrivati per prima, ma si cerca di costruire degli habitat più o meno permanenti e di utilizzare risorse in situ per la produzione di acqua e ossigeno, la protezione contro le radiazioni.

Da quando sei stata nominata membra della riserva astronautica e alzi lo sguardo al cielo, com’è vedere la luna?
Non lo alzo più perché mi fa paura (ride, ndr). Ogni tanto, per scherzo, quando sono in compagnia del mio ragazzo, guardo la luna e le ammicco.

Quando le capita di incontrare coetanei o persone più giovani, qual è il messaggio che le preme trasmettere?

Ai più giovani dico di non temere di compiere scelte difficili. Cerco poi di porre l’attenzione su quanto sia sbagliata un certo tipo di narrativa, ancora presente, per cui se sei una ragazza e scegli la carriera tecnico-scientifica avrai vita difficile, perché non è un posto per donne. Infine, dico che non è che si debba diventare per forza astronauti. A me è andata bene, ma una delle ultime fasi, quella dei test medici, non dipende dal nostro impegno e superarla non è un merito. Quindi non possiamo condizionare la nostra felicità ad una metà in cui c’è una così grande componente di fortuna. Dico sempre che se fosse andata male non mi sarei sentita una fallita. Anche senza essere astronauta, grazie a tutta la strada percorsa, mi sarei comunque trovata a fare con passione ciò che amo.

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