L’Alumna Paola Antonelli è Senior Curator del Dipartimento di Architettura e Design del MoMA di New York e Fondatrice del settore Ricerca & Sviluppo del museo. Tra i molti importanti riconoscimenti, citiamo la nomina dalla rivista TIME tra i 25 visionari del design più incisivi al mondo, il Compasso d’Oro alla Carriera dell’Associazione Italiana per il Disegno Industriale, la London Design Medal e il German Design Award. In questa intervista di Emanuela Murari per Alumni Politecnico di Milano, ci parla di come tutto è iniziato: partendo con una metafora sportiva. “Il surf è una questione di allenamento, di lavoro duro e poi una volta lì è istinto, ma anche rispetto per l’attesa dell’onda. Un misto di tenacia, pazienza e coraggio”. Paola di coraggio ne ha avuto parecchio quando, dopo due anni di Bocconi, disse al padre che voleva iscriversi alla Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano.
“Ero in Sardegna, dove sono nata, e ricordo nitidamente che ebbi un’intuizione. Capii che quello che stavo studiando non era la mia strada. Rimanevo perché ero cocciuta. Mio padre non la prese bene all’inizio. Per me è stata una lezione di vita. Se qualcosa non va, bisogna cambiare prima che sia troppo tardi”. Al Politecnico paradossalmente si rese conto di essere a casa, nonostante il caos che regnava.
“Il Politecnico mi ha insegnato a lottare per quello che voglio. Eravamo migliaia di studenti solo a Milano. Una giungla, ma utilissima. Ricordo alcuni professori come Guido Nardi, che coniugava benissimo la tecnologia con la filosofia. Il bagaglio che mi sono portata dietro nella mia vita. Perché lui non trasmetteva solo la tecnica, ma spiegava con grande competenza e carisma ciò che sta dietro le cose. Nardi mi ha insegnato questo passaggio naturale tra la tecnologia e la filosofia. E questo è ciò che mi è rimasto nella vita”.
Rigore e creatività che Paola ha portato anni dopo al MoMA diventando un punto di riferimento di uno dei più importanti musei del mondo. Ma l’inizio non è stato facile. “Ero molto infelice. Ricordo che quando ho iniziato era febbraio. Nevica sempre. Morivo di freddo. Le persone a New York non sono facili sino a quando non impari a conoscerle. Quando però ho realizzato la mia prima mostra, tutto è cambiato. Il senso di felicità che provi quando fai una mostra al MoMA e ha successo è incredibile. Escono le recensioni sul New York Times e sei catapultato al centro del mondo. La città è stressante ed eccitante al tempo stesso. È una grande fonte di ispirazione.”
Anche Milano però è nel suo cuore e non solo per il prestigioso Compasso d’oro alla carriera, Il più autorevole premio legato al Design, che le è stato conferito. Una delle tante onorificenze ricevute.
Il Compasso d’Oro ha un sapore diverso perché è a Milano. Devo molto a Milano.
Anche se sono nata in Sardegna, la considero la mia città, la città che mi ha formato e che io ho spremuto come un limone. Mi ha dato un’educazione all’eleganza e io l’ho usata bene e sono convinta che il successo che ho avuto venga dal fatto che sono di Milano, dalla sua attitudine al lavoro. Io ho una certa dimestichezza con il design. La forma non mi blocca, non mi fermo mai alla forma.
Per me il contrario di bello non è brutto, ma pigro.
La bruttezza è relativa, può essere una scelta. Mi importa molto vedere lo sforzo messo dal designer nella forma che considero la prima interfaccia di comunicazione e solo dopo si può passare a tutto il resto”.
Che cosa è per lei il Design e che ruolo ha oggi con l’impatto invasivo dell’hi tech? “Tutto! Dalla scienza, ai materiali. Il Design è la quinta essenza della curiosità, ti insegna che prima di tutto devi sapere cosa vuoi fare. Una sedia, un videogioco. E poi trovi i mezzi, che possono essere un legno o addirittura l’intelligenza artificiale. Questi sono i mezzi non i fini. Una volta che lo sai, anche la tecnologia diventa un mezzo verso un fine e quindi impari a gestirla come vuoi tu e non a lasciarti gestire da lei. Il Design ti insegna a pensare prima di agire. Ci sono due progetti inerenti l’intelligenza artificiale che mi hanno colpito molto e che incarnano questo spirito: uno è realizzato dall’artista inglese Alexandra Daisy Ginsberg con Pollinator Pathmaker, un’opera d’arte vivente pensata non per l’occhio umano, ma per gli insetti impollinatori, le fioriture sono fatte studiando come si comportano gli insetti e l’artista ci invita a guardare il mondo dal punto di vista degli impollinatori e allo stesso tempo offre un modo per contribuire alla loro protezione. L’altro si chiama Memorie Sintetiche ed è un progetto di ricerca che utilizza l’AI per realizzare rappresentazioni visive dei ricordi delle persone. È stato ideato da Domestic Data Streamers, uno studio di ricerca e comunicazione nato a Barcellona nel 2013. Basta raccontare un episodio della propria vita per trasformarlo in un’immagine che lo conserverà per sempre. Questo progetto ha già dimostrato di essere utile per conservare i ricordi di chi è affetto da malattie neurodegenerative. È la dimostrazione che esistono bravi designer che sanno quello che vogliono fare”.
Lei vive circondata dagli stimoli. Ma come fa ad avere sempre nuove idee per le sue mostre? “Ho tantissime idee per mostre che non ho ancora realizzato. E anche questa è un’educazione che ho ricevuto dal Politecnico, dove nessuno mi ha detto questo non è design, l’architettura non è design. Achille Castiglioni diceva sempre che il design era così meraviglioso perché non c’era una scuola di design. Ho sempre pensato che l’architettura stia meglio in una scuola di ingegneria piuttosto che in una scuola di arte, perché si impara un rigore che poi porta a desiderare questa evasione nell’umanesimo”.
E poi ci sono le idee per le quali si sceglie di lottare: “Per questo mi piace avere i saloni tematici – http://momarnd.moma.org/salons/ – incontri e discussioni (ne abbiamo fatti più di cinquanta) su temi che abbracciano la vita, il sociale, l’arte, la natura. E tutte le volte abbiamo un curatore o un artista accompagnato da scienziati, filosofi, giornalisti. E poi c’è Design Emergency – il podcast e il progetto Instagram, co-fondato con Alice Rawsthorn”.
Un autentico riscatto del ruolo fondamentale che la cultura può rappresentare per l’umanità, che Paola ha reso concreto perché il “suo” il Museo, grazie sempre a nuove iniziative, esplora direzioni e opportunità, ed è al tempo stesso tempo crogiolo e catalizzatore di modi di pensare e agire. È qui che si aprono orizzonti inediti, non solo attraverso la scienza, ma attingendo alla forza inesauribile dell’umanesimo, quell’unico spazio che l’intelligenza artificiale non potrà mai colonizzare. “Questo è il nostro momento! Il momento della cultura, che può guidare il cambiamento, e dei musei, che possono trasformarsi nei veri dipartimenti di ricerca e sviluppo della società”. È una chiamata a volgere uno sguardo diverso sul mondo, a vedere nella cultura il motore inesauribile del futuro, la chiave per dare nuovo senso alla nostra umanità, senza dimenticare, come diceva Guido Nardi, il rigore della scienza.