Guardia notturna, Portiere, Agenzia di Viaggi, Telefono. Sono alcune delle indicazioni scritte a mano, con l’impronta tonda dei caratteri di un fumetto, che si trovano non in un baloon ma nelle linee geometriche della planimetria di un edificio di via Laghetto a Milano. Su un foglio della stessa serie si legge: “Corso di composizione architettonica 2, 1956-1957, Guido Crepas, Tema di Laurea”.
I personaggi e le indicazioni inserite nella planimetria ci mostrano che il ventiquattrenne Guido Crepax pensa già a chi abiterà esattamente fra quelle linee precise, è un’anticipazione dell’indole d’autore, di chi è interessato ad architettare soprattutto le storie. «Circa cinque anni fa abbiamo trovato queste planimetrie nel soppalco di casa di nostra madre», racconta Caterina, figlia del grande disegnatore e Alumnus del Poli, «ed è sempre un’emozione quando scoviamo qualcosa che ci racconta un nuovo aspetto di nostro padre».
Giacomo – che con Caterina e l’altro fratello Antonio – cura e valorizza l’archivio Crepax, accenna una breve biografia post-laurea: «Conclusi gli studi al Politecnico, oltre a lavorare già come disegnatore in campo pubblicitario e discografico, nostro padre inizia a lavorare per degli architetti realizzando per loro delle prospettive; ciò che fanno ora i computer. Possiamo dire che era la mano-render». Negli ultimi anni la mano e la figura di Crepax sono tornate al Politecnico per una serie di mostre, l’ultima proprio di quest’anno si intitola “Guido Crepax, Architetto del Fumetto” ed è una ricognizione nei lavori di tutta una carriera, alla ricerca della mano d’architetto in controluce con quella del disegnatore. «Celebrarlo nel luogo della formazione – spiega Giacomo – ha un grande valore perché è qui che ha cominciato a sperimentare ed è qui che ha appreso molte nozioni di carattere storico legate all’architettura e al design che sono letteralmente entrate nel suo lavoro. Ci sembra necessario dunque raccontare il periodo della sua formazione. E poi anche io e mia sorella siamo Alumni, entrambi laureati in architettura».
Entrando così nel suo ruolo professionale, commenta un’altra tavola paterna, che mostra la prospettiva dell’edificio: «La base di partenza era una specie di centro commerciale che si sviluppava poi come torre abitativa. Lo schema è interessante, presenta elementi curvi laterali, molto morbidi, che sembrano citare le architetture di Sant’Elia. Lo descriverei come un progetto che coglie pienamente l’idea futurista degli anni ’50, fatto di trasparenze che mettono in risalto anche la parte strutturale dell’edificio: i vuoti, tipici dell’architettura razionalista di quel periodo, e le parti moderne identificate tramite le vetrate e la struttura solida dei pilastri in cemento armato». Anche su questa tavola è possibile cogliere elementi dei fumetti che verranno: un auto americana, gli abiti delle persone, l’intestazione Hotel Sforza, lo scorcio del Duomo che compare sullo sfondo, stretto tra altri due palazzi.
Il percorso di studi emerge a tratti: Valentina che passeggia in zona Missori, alle sue spalle Torre Velasca, realizzata dal suo relatore di tesi, l’Alumnus Ernesto Nathan Rogers. La vignetta di un uomo al tecnigrafo ci riporta un altro scampolo di biografia, «Era suo nonno, ingegnere. Infatti nostro padre prima di iscriversi ad architettura aveva atto un anno di ingegneria ma ne era scontentissimo», svela Caterina. «Per tutta la vita però ha disegnato proprio sulla scrivania di suo nonno, che oggi si trova nello studio di architettura in cui lavoro», dice Giacomo. In questo flusso di memorie e rimandi Caterina dice: «Nella biblioteca di casa abbiamo sempre trovato libri di architettura, che poi abbiamo sfruttato a nostra volta. Per lui erano fonte di ispirazione soprattutto i libri di design, perché gli interessava disegnare gli interni e le persone nei loro ambienti, per raccontare le storie anche attraverso gli oggetti di design, le tappezzerie, le lampade. Molti erano pezzi di design provenienti dalla nostra casa, che ci ritrovavamo nei fumetti». La lampada Arco, i divani le Corbusier, il televisore Brionvega, il letto di Magistretti, riferimenti che si mischiano a ispirazioni più personali, come racconta Caterina: «La poltrona con il poggiapiedi sui cui nostra madre leggeva, di fronte al tavolo su cui nostro padre disegnava e così si innescava questo scambio fra realtà e carta». Mostrando una tavola con la città di Praga, Giacomo spiega: «Siccome non usciva quasi mai dal suo studio, chiedeva le foto dei nostri viaggi all’estero, che poi diventavano i luoghi delle avventure di Valentina».
Altre due tavole ci restituiscono le sue coordinate: i ritratti di Gropius e Frank Lloyd Wright, il suo volto accanto ala Casa sulla cascata. Gli strumenti del suo mestiere, erano gli stessi del mestiere di architetto: le chine, i lucidi e le lamette con cui li grattava, il compasso, le rapidograph. «I bordi stessi delle vignette li stendeva con il rettilineo a punta piatte – analizza Giacomo – le sue tavole sono quasi delle sezioni, delle planimetrie dove nelle singole vignette le cose avvengono. Ad esempio c’è una tavola al cui centro vi è un letto, con sopra Valentina e il suo compagno, e da sotto spuntano altre visioni laterali del letto. Oppure, la scelta di inserire il disegno di una scala a chiocciola incastrandola in una vignetta stretta e lunga ci raccontano la cura architettonica che aveva nella composizione di una immagine». Su un foglio c’è una vera e propria proiezione ortogonale di Valentina che in questo modo diventa un dispositivo per passare, nel ribaltamento, alla vignetta e all’episodio successivo.
Il suo occhio era sul dettaglio, lo spiega bene Caterina: «Le sue storie accadono poco all’esterno e molto negli interni, ma quando siamo fuori ci mostra i luoghi sempre per frammenti. Del Duomo di Milano non c’è una panoramica ma l’inquadratura di una guglia. Gli piacevano moltissimo le porte con le maniglie, perché sempre celavano il mistero. Aveva inventato il popolo dei sotterranei, che abitavano il sottosuolo ed emergevano attraverso squarci nelle tappezzerie, nelle crepe del muro, dai mobili, figure nascoste nei motivi floreali di una carta da parati». Che architetto sarebbe stato? «Probabilmente avrebbe fatto un’architettura molto rigorosa ma al contempo di grande fantasia, perché era precisissimo nella documentazione ma all’interno del suo lavoro lanciava cose più legate al futuro che al presente. Ecco, forse sarebbe stato vicino ai lavori di Oscar Niemeyer, come Brasilia», risponde Giacomo. Caterina aggiunge: «è sempre stato iscritto alla cassa architetti e aveva firmato il progetto di una casa di sua madre, in un paesino della Versilia. Solo che nel progetto si era sbagliato e aveva inserito la facciata principale sul retro e viceversa, le aveva invertite».
Qual è l’insegnamento che vi ha lasciato?
«Percepire l’insieme, farsi avvolgere dalla realtà che è composta da tante cose: architettura, politica, design, proprio come le sue storie. Per far emergere questo, quando allestiamo le mostre cerchiamo sempre di far entrare fisicamente il visitatore all’interno del suo mondo, quasi come se entrasse nelle tavole perché lui non aveva confini. Forse è questo l’insegnamento più grande: la nostra vita è captare tutto».