Ci troviamo nell‘edificio B12 del Politecnico, nel cuore della Bovisa. Incontro la professoressa Amalia Ercoli Finzi al secondo piano. L’edificio è un labirinto: infatti mi ero perso, lei ha dovuto guidarmi fin lì con il telefonino, quasi fossi una sonda finita fuori rotta. È una signora minuta dai modi eleganti, gentile e curiosa. È anche una dei maggiori scienziati italiani. Eppure, uno dei primi argomenti che affrontiamo è la fantasia.
“Noi lavoriamo di fantasia per riuscire a capire cosa vogliamo fare – comincia – il primo passo è immaginare questo mondo diverso sul quale vogliamo andare, immaginare una galassia talmente lontana da poter dire che siamo vicini al Big Bang. Non si tratta di un’immaginazione fine a se stessa, che fantastica su cose impossibili da realizzare; sto parlando di una fantasia ragionata che serve per individuare obiettivi e aspirazioni. Dopodiché, bisogna trovare gli strumenti per metterla in pratica”.
Come avete immaginato il Carousel, il sistema che avete montato su Rosetta? Chiedo, e lei sorride, mentre gli occhi le si illuminano di passione. “Dovevamo depositare all’interno di una serie di fornetti i campioni prelevati dalla cometa e avevamo due possibilità: o spostavamo il campione o spostavamo i fornetti. Spostare il campione voleva dire spostare il trapano, ma il trapano era attaccato al Lander. Far girare tutto il Lander è una cosa complicatissima. Quindi, abbiamo lavorato di fantasia. La soluzione è stata tenere fermo il trapano e fargli ruotare al di sotto i fornetti. Così quando il trapano trovava il fornetto giusto, il campione veniva depositato. Abbiamo fatto queste operazioni di rotazione con errori di decimo di minuto d’arco. È stata una bella soddisfazione”.
Eppure è impossibile immaginare tutti gli scenari verificabili. “Vero. Non abbiamo pensato di mettere un sensore di dispiegamento del sampling tube. Il nostro trapano dotato di un tubo che viene espulso e si introduce all’interno della cavità per raccogliere il materiale. Ho fatto test all’infinito in laboratorio, quasi posso sentire il “tac” che fa quando esce. In tutti i test ha sempre funzionato e ci siamo fidati, invece avremmo dovuto aggiungere un sensore che ci dicesse se si era dispiegato in modo corretto oppure no. L’altra cosa che non abbiamo messo era un sensore di contatto con il terreno. Non sappiamo esattamente quando avviene il contatto: lo possiamo ricostruire attraverso le forze che vengono esercitate, soprattutto attraverso la dinamica, perché imponendo una velocità di rotazione e di transazione, se queste variano è chiaro che il contatto con il suolo è avvenuto. Però ci sarebbe voluto proprio un bel sensore”.
Un sensore, sarà per la prossima volta. A proposito, cosa ci ha insegnato Rosetta, che ci servirà per le prossime volte? “Atterrare su un asteroide serve anche a dimostrare una cosa importante: con un piccolissimo propulsore, ma proprio piccolissimo, in grado di trasmettere una frazione di centimetro al secondo di velocità, è possibile deviare l’asteroide stesso! Questo potrebbe proteggerci da un eventuale impatto: se interveniamo abbastanza presto, diciamo una ventina d’anni prima dell’impatto previsto con la Terra, è sufficiente per cambiare la sua rotta. Perché in vent’anni di strada ne fa, e la deriva lo porta lontano dal nostro pianeta”.
Mi rincuora sapere che se dovessimo finire in rotta di collisione con un asteroide non dovremmo mandarci sopra Bruce Willis, ma non so se è il caso di dirlo alla Professoressa. Le chiedo invece quali sono le componenti fondamentali per una missione nello spazio. “Primo le idee, secondo gli uomini, che realizzano le idee, terzo i soldi. Ovvero: il contributo del cervello puro, il contributo della capacità umana e poi i soldi per mettere tutto in pratica. E le confesso che sulla questione economica invidio un po’ i cinesi, che decidono una cosa e la fanno. In Europa andiamo bene, siamo bravi, però siamo un po’ litigiosi e un po’ nazionalisti. Credo nell’Europa, ci ho sempre creduto, anche perché c’ero quando sono stati firmati i trattati di Roma. Recentemente, alla Comunità Europea, ho detto che noi scienziati avevamo pensato all’Europa della collaborazione, un‘Europa in cui la nazione più forte aiuta le altre. Questo era il concetto: la diffusione della conoscenza basata sulla collaborazione. Non c’è come lavorare insieme per insegnare agli altri e imparare noi stessi. Perché si impara tantissimo anche dall’ignoranza. Adesso in Europa le cose non sono proprio così”.
Imparare dall’ignoranza? “Sapesse quante cose ho imparato dagli errori dei miei studenti! Grazie ad essi, ho visto mettere in luce lati dello stesso argomento che non avevo mai affrontato da quella prospettiva. Dico sempre che, per fare una grande invenzione, i casi sono due: o si sa tutto, e quindi si arriva perché si ha questa base profonda, oppure non se ne sa niente e ci si lancia”.
Lanciamoci su Marte, allora. È un po’ un sogno proibito, vero? “Sì. Più della metà delle missioni su Marte, credo due terzi, sono fallite. Marte è difficile da raggiungere (tant’è vero che, quando lo raggiungono, poi ci rimangono), ma è l’unica possibilità che abbiamo per esplorare un pianeta dove ci sia stata vita e dove potremmo riportare la vita. Si può fare.
Questo articolo è stato pubblicato nel MAP , la rivista degli Alumni del Politecnico di Milano. Sfoglia la rivista e scopri tutti i contenuti e, se vuoi, sostienici.
Credits header: corriere.it