Un espresso da premio

La macchina per caffè espresso automatica BCC di Smeg ha vinto il premio DesignEuropa Awards 2023. Ci siamo presi un caffè con gli alumni che l’hanno disegnata

Una piccola luce affiora dal naso di una macchina per caffè espresso e illumina la tazzina che si riempie al suono dei chicchi macinati al momento. Di sponda, il bagliore si riflette sulle curve disegnate nell’alluminio della macchina. «Questa è la messa in scena dello spettacolo del caffè» dice una voce. Siamo nello store milanese di Smeg e la voce è quella dell’Alumnus Matteo Bazzicalupo che insieme all’Alumna Raffaella Mangiarotti, anche lei qui con noi, ha disegnato questa macchina per caffè espresso completamente automatica, la BCC Smeg, vincitrice della quarta edizione del premio DesignEuropa, organizzato dall’Ufficio dell’Unione Europea per la Proprietà Intellettuale, nella categoria Industria. Il loro studio si chiama deepdesign perché, raccontano: «lavoriamo con la ricerca, mettendo in discussione le forme per realizzare un design che sia profondo». Così abbiamo deciso di dialogare proprio a partire dalle profondità del pensiero che portano poi alla creazione di linee nuove.

«Da venticinque anni ragioniamo sui prodotti non solo dal punto di vista estetico e funzionale ma anche simbolico – spiega Bazzicalupo – la potenza del simbolo va oltre le proprietà logiche e arriva al cuore e all’anima, consentendo di creare una relazione istantanea ed empatica con chi interagisce con il prodotto. L’immagine iniziale su cui abbiamo ragionato pensando a questa macchina da caffè è stata quella di un geode monolitico. Osservandola, ha un volume molto puro che riprende il dispositivo di un geode: si spacca e al suo interno custodisce un cuore prezioso. Allo stesso modo noi abbiamo ritagliato una porzione del volume primario che scopre un interno molto prezioso: la piattaforma tecnologica evoluta che c’è alla base e che si rivolge all’utente. Questa metafora racconta molto del nostro modo di lavorare, una metodologia poli-fattoriale, e racconta anche dall’interazione che si può generare nel primo istante e che poi può perdurare nel tempo».

In un video di presentazione della macchina da caffè espresso, Raffaela Mangiarotti si domanda come oltrepassare l’incomprensione iniziale, quello stallo distruttivo del rapporto fra macchina e utente. Come far parlare gli oggetti. Così le chiediamo in che modo gli oggetti possono riuscire a parlarci. «La forma esprime sempre un potenziale iconico – dice – ogni oggetto appartiene a una sua tradizione tipologica che può essere consacrata o dissacrata. A seconda del contesto aziendale con cui collaboriamo, ci sentiamo liberi di scegliere come agire: a volte abbiamo consacrato e a volte abbiamo distrutto le tipologie perché abbiamo considerato che potessero esserci modi diversi di vedere le cose, più contemporanei. Abbiamo ad esempio disegnato una lavatrice non a forza centrifuga ma centripeta, con una forma più morbida, un rumore che diventa un suono, più precisamente il suono dell’acqua e con dei movimenti fluidi all’interno di una macchina che non è più un cubo bianco ma è trasparente. In questo modo le cose diventano, oltre che funzionali, emozionali. In altri casi ci si rende conto che la tipologia è perfetta perché ci è giunta passando attraverso così tante mani e menti che l’hanno resa quasi intoccabile. Nel caso di questa macchina da caffè abbiamo adottato delle interfacce molto semplici perché non ci piace mettere in difficoltà chi ci si approccia. Le macchine, certo, diventano sempre più intelligenti ma forse non devono mostrarlo, devono anzi agevolare le nostre decisioni e capacità di comprenderle. Abbiamo pensato a qualcuno che la mattina si sveglia e arriva quasi ad occhi ancora chiusi in cucina e vuole semplicemente schiacciare un pulsante per avere un caffè. Ci sono quattro pulsanti, ne sceglie uno, sente il profumo del caffè diffondersi nell’aria, lo immaginiamo quasi sempre ad occhi chiusi, un vero risveglio soft e potente al tempo stesso. Poi, se invece sei un esperto, se hai gli occhi già aperti, scopri che c’è una modalità per cui quei quattro pulsanti comandano altre quattro opzioni di funzione; oppure puoi aprire lo sportellino, ruotare una levetta e scegliere il tipo di macinatura a seconda dell’umidità della giornata. È una macchina di livello, nel senso che è pensata per vari livelli: dal più semplice e immediato al più profondo e tecnico».

Andando dunque indietro, al momento della genesi, subito dopo l’illuminazione del monolite, come avete proceduto? Risponde Bazzicalupo: «Diciamo che all’inizio del lavoro ti danno l’interno della macchina e tu devi costruire la pelle. Ci siamo quindi concentrati sul fatto che la cosa più importante è che fosse compatta. Quindi dovevamo immaginare qualcosa di dimensioni non troppo eccessive, che potesse essere posizionata sotto il pensile della cucina. Da qui abbiamo capito che potevamo disegnare una forma stretta e lunga. A questo punto diventava interessante lavorare sul fronte e abbiamo pensato a un segno netto, pulito, con la possibilità di avere una parte anteriore dal taglio molto connotato, come fosse il taglio di una pietra. La gamma cromatica di partenza è di tre colori ma si sta ampliando. Per ora ci sono il bianco, il nero e il taupe, una sfumatura di colore che ricorda il caffellatte. Il pannello frontale è in alluminio naturale e presenta una finitura con spazzolata a bordo lucido, un colpo di luce che delinea ed enfatizza l’area del taglio».

Interviene Mangiarotti: «Lo studio che facciamo spesso è anche legato al suono, al non avere rumori ma cercare di trasformarli in suoni. In questo caso il rumore della macina del caffè trasmette l’idea che ci si sta preparando un caffè fresco. Il rumore della macina probabilmente non è romantico ma quando apri lo sportellino superiore e si sprigiona il profumo, si viene trasportati in una torrefazione. Io a volte la riempio e la lascio aperta ed è come se anche il profumo mi svegliasse. È insomma una macchina da caffè ma anche una macchina olfattiva».

Come può una linea tracciata in un certo giorno, di un certo anno, assurgere alla vita eterna? Mangiarotti ci pensa e risponde: «Personalmente non amo le soluzioni formali troppo estreme perché trovo che quando crei un oggetto molto strano, nel tempo finisca per stancarti. Per essere eterna una linea credo debba avere una pacatezza, che si può tradurre meglio nel desiderio di creare un oggetto che quando lo guardi risulta nuovo ma al contempo è come se ci fosse sempre stato». Bazzicalupo aggiunge: «Sì, un oggetto che ti sembra di aver introiettato». Mangiarotti continua: «Per disegnare questa macchina da caffè ci siamo presi del tempo per pensare a quale potesse essere una linea avente questa pacatezza. Quando pensi a Smeg, pensi a qualcosa che rimane appunto nel tempo. Qui siamo circondati dai disegni degli anni ’60 di Guido Canali, e se lavori con un’azienda che ha degli oggetti che erano belli e che sono rimasti belli, avverti una responsabilità. Noi volevamo fare qualcosa di leggiadro, di più giocoso, che parlasse ai giovani ma condividendo la stessa essenzialità. Volevamo un oggetto che facesse pensare alla memoria ma immerso nel contemporaneo».

Passiamo dunque a parlare di memorie, Mangiarotti ci racconta cosa le è rimasto del periodo di studi al Politecnico: «Il metodo scientifico. La prima cosa insegnatami da Marco Zanuso, mio docente al Poli, è stata l’etimologia del verbo “progettare”, dal latino proiectāre, e cioè gettare in avanti. Questo mi ha formato. Quando abbiamo disegnato la lavatrice a forza centripeta, l’asciugacapelli che sta in piedi da solo o la scopa elettrica che si piega in due, abbiamo fatto dei tentativi di gettare qualcosa in avanti, e non di fianco. Nel caso di un’altra macchina da caffè, la Diamantina, abbiamo fatto ricerche d’archivio sulla storica macchina Diamante. Fare ricerca è una forma di rispetto. Presuppone umiltà e significa che vai a informarti sull’intelligenza che c’è stata prima di te. Infine, puoi fare anche un omaggio ma mettendo qualcosa di tuo, inventando del tuo. Ecco, questa dimensione scientifica nei confronti del progetto la ritrovo anche nei ragazzi che oggi frequentano il Politecnico». Bazzicalupo ha un ricordo in particolare dei suoi giorni politecnici: «L’insegnamento ricevuto da Francesco Trabucco il giorno in cui dovevamo decidere il tema di tesi. Era presente un ingegnere della Nasa e mi suggeriscono un autogiro ultraleggero – antenato dell’elicottero. Eravamo tutti entusiasti ma non sapevamo neppure cosa fosse un ultraleggero. Ho così imparato che per aspirare ad innovare ed immaginare il futuro bisogna anzitutto accogliere senza timori ogni inedita sfida progettuale».

Usciti dal Poli, come si comincia e come ci si ritrova in un collega? Mangiarotti e Bazzicalupo si sono conosciuti nel 1995 nella redazione della rivista Modo fondata da Alessandro Mendini, dove entrambi scrivevano di innovazione e tecnologia e così hanno pensato di partecipare per la prima volta ad un concorso insieme. Tornando al premio DesignEuropa ci raccontano del valore di questo primo posto: «I premi di solito sono legati all’estetica e alla funzionalità del prodotto. A questi due aspetti, che sono i principali, DesignEuropa prende in esame un terzo parametro: il successo commerciale del prodotto. Non solo il design ma anche il modo in cui il prodotto è stato collocato in una certa fascia di mercato – andando magari a capire quale elemento togliere o aggiungere per mantenere un certo tipo di prezzo – fa parte del progetto. C’è dunque una sostenibilità economica, perché il successo corrisponde al ricavo che permette di ripagare le professionalità e le persone dietro il prodotto. E nel nostro caso c’è anche una sostenibilità ambientale perché è una macchina che non utilizzando capsule o cialde non produce scarti: si va dal chicco direttamente alla tazza». Citano Good Design di Bruno Munari, in cui l’artista e designer gioca con la scrittura descrivendo un’arancia e dei piselli come fossero oggetti di design. «L’ambizione è quella di seguire sempre un processo naturale – dicono – perché non c’è spreco in natura. Una foglia mostra il proprio sistema linfatico, e tu capisci che non ha niente di più di ciò che serve, ma la vedi ed è meravigliosa. Il risultato è una geometria essenziale che si tramuta in estetica». In questo universo Smeg in cui siamo immersi, voltandoci, oltre alla macchina da caffè espresso automatica, ci sono altri venti prodotti iconici disegnati da Mangiarotti e Bazzicalupo. I due hanno disegnato anche questo show-room e quello di Londra. Gli chiediamo come ci si senta a stare qui. «Ci si sente un po’ a casa».

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