Siamo abituati a aprire il rubinetto e veder sgorgare acqua in quantità, senza preoccuparci del fatto che potrebbe finire. Diamo per scontato che ne avremo a sufficienza per dissetarci, lavarci, ma anche per produrre beni primari come cibo e energia elettrica. Sebbene nel nostro Paese questo atteggiamento stia cambiando a causa della siccità, in alcuni Paesi in via di sviluppo l’acqua è un bene per il quale si arriva anche a uccidere: uno studio condotto da un gruppo di ricercatori del Poli e pubblicato sulla prestigiosa rivista Nature Sustainability ha indagato proprio il legame che esiste tra acqua e conflitti violenti nel bacino del Lago Ciad, in Africa, cercando di capire in particolare quale ruolo giochi questa risorsa nell’innesco del conflitto stesso. Abbiamo parlato con due degli autori, i ricercatori Nikolas Galli e Maria Cristina Rulli, del Dipartimento di Ingegneria Civile e Ambientale: ecco cosa ci hanno raccontato.
Sebbene la locuzione comunemente utilizzata in inglese sia water wars, in questo caso parlare di guerre per l’acqua, ci spiegano Galli e Rulli, è sbagliato: “Finora non abbiamo mai avuto evidenze di guerre per l’acqua nella storia, se non forse una ai tempi dei Sumeri nel III millennio a.C.”, sottolinea Rulli. “Il termine guerra nel diritto internazionale ha il significato di aggressione da parte di uno Stato verso un altro, nei casi da noi investigati è quindi più corretto parlare di conflitti, non di guerre”.
“Abbiamo scelto di concentrarci sull’area del bacino del Lago Ciad perché è una regione che soffre di gravi fragilità istituzionali e ambientali”, ci spiega Galli. “È anche spesso rappresentata in modo distorto, e per questo abbiamo deciso di analizzare la questione dei conflitti nell’area in modo più scientifico”. Una delle conclusioni a cui giunge l’analisi è che l’acqua è solo uno dei fattori in gioco nell’ innesco dei conflitti: “Ci sono driver tipici del contesto socioeconomico dietro l’insorgenza dei conflitti, come motivi religiosi o politici che spesso interagiscono tra loro e con le dinamiche idrologiche”, specifica Galli. Molto spesso, poi, le zone più prone al conflitto sono quelle che già hanno alle spalle una storia di conflitti. E il cambiamento climatico, che si porta dietro la minaccia della desertificazione, è un acceleratore di questi driver.
Visti i problemi di scarsità d’acqua e siccità che si fanno sempre più seri anche nel Vecchio Continente, in futuro toccherà a noi essere i protagonisti delle water wars? “Spero di no”, commenta Rulli. “Siamo in una fase storica un po’ diversa e spero non avremo dei conflitti violenti come quelli che si vedono in Africa Centrale, ma se parliamo di conflitti per la risorsa, quelli esistono già. Quando la risorsa è scarsa e ci sono più utenti che la utilizzano (come il settore agricolo, energetico o il comparto domestico), gestire la risorsa idrica in modo scorretto può determinare situazioni conflittuali”. Stiamo parlando di conflitto sociale ed economico, naturalmente, che non raggiunge escalation di violenza, ma che può comunque avere conseguenze importanti sul nostro modo di vivere. A tal proposito, Rulli cita un episodio avvenuto in Texas e New Mexico durante un forte periodo di siccità: “Gli agricoltori vendevano l’acqua che avevano in concessione per uso agricolo ai produttori di energia, che la pagavano a caro prezzo: il risultato è che invece di produrre cibo, si produceva energia”.
L’acqua è dunque il nuovo petrolio? “L’acqua ha più valore del petrolio, e finalmente ora l’abbiamo capito. L’accesso all’acqua e ai servizi igienico-sanitari sono riconosciuti infatti dalle Nazioni Unite come diritti umani. In quanto tale ad essa va attribuito un valore ma non un prezzo”, afferma Rulli.
Il 6 aprile è uscito un nuovo articolo su Nature Water che prende in considerazione anche il cibo, come risorsa produttiva, estendendo il tema trattato nello studio di Nature Sustainability: “Abbiamo approfondito il nesso acqua-conflitto fino a includere anche il cibo”, spiega Rulli. “Ci siamo concentrati sui conflitti urbani del Centro America, analizzando il ruolo dell’acqua non solo come risorsa strategica a sé stante, ma anche come risorsa per la produzione di cibo”.
Concludiamo con una domanda: cosa vi ha insegnato questa ricerca? “L’importanza della transdisciplinarità”, risponde Rulli. “Avere una base scientifica solida è fondamentale, ma non sufficiente: bisogna essere umili e aperti alla collaborazione con altri colleghi esperti in altri ambiti, specie quando si trattano problematiche sociali globali come in questo caso”. Sulla stessa linea la risposta di Galli, che afferma: “Il momento più importante della nostra ricerca è stato quello in cui ci siamo accorti che riuscivamo a vedere meglio ciò che cercavamo accettando la complessità del problema, senza cercare di semplificarlo. Quando si analizzano fenomeni così importanti e allo stesso tempo complessi, bisogna essere umili, e studiarli con la consapevolezza che, spesso, non abbiamo gli strumenti per capirli del tutto”.