Sulle tracce del passato: al Poli tecnologia ed archeologia si incontrano 

Una chiacchierata con Corinna Rossi, egittologa del Politecnico di Milano che usa la tecnologia per riportare in vita l’Antico Egitto

Mettiamo insieme tecnologia e archeologia: spuntano possibilità inesplorate che portano a scoperte incredibili (come quella del tunnel nascosto nella piramide di Cheope, in Egitto). A rendere possibile questa connessione vi sono persone come Corinna Rossi, egittologa che insegna al dipartimento di Architettura, Ingegneria delle Costruzioni e Ambiente Costruito del Politecnico di Milano. Con lei abbiamo fatto una chiacchierata, rubandole un po’ di tempo tra un volo per Bruxelles e un viaggio nel suo amato Egitto, per farci raccontare il suo lavoro. 

Dopo aver studiato architettura (“non ero pronta ad abbandonare del tutto la scienza, e per questo ho scelto una facoltà che mi permettesse di studiare materie umanistiche e scientifiche, ci racconta), la professoressa Rossi si è specializzata ottenendo un master e un dottorato in egittologia a Cambridge. ”Sono arrivata al Poli grazie al Progetto LIFE, un progetto di ricerca finanziato dall’ERC Consolidator Grant che ho vinto nel 2015”, ci spiega. “L’ho disegnato pensando al Poli: era l’unico ambiente in cui potevo trovare la commistione di competenze necessaria al mio lavoro”. È in particolare nel dipartimento ABC, tiene a sottolineare la professoressa, che ha trovato colleghi ricercatori esperti in restauro, storia, progettazione, ambiente costruito e rilievo archeologico.  

INDAGARE SENZA DISTRUGGERE CON L’AIUTO DELLA TECNOLOGIA

 Rossi e il suo gruppo di ricerca hanno lavorato a lungo all’individuazione di un modo di studiare senza distruggere, cioè scavando il minimo indispensabile per non rischiare di compromettere l’integrità del sito e avere un impatto il più leggero possibile sul luogo del ritrovamento. È la metodologia che ha utilizzato nel progetto LIFE: l’obiettivo era studiare un sito tardo romano situato lungo la frontiera dell’Impero in Egitto, nel deserto occidentale. Il sito, chiamato Umm al-Dabadib, è particolare perché intatto e costituito da un insediamento e un sistema agricolo. “Non è mai stato previsto uno scavo archeologico, perché avrebbe un effetto devastante per il luogo”. Tutti gli scavi archeologici sono, per definizione, operazioni di distruzione degli strati superiori, più recenti, a favore di quelli inferiori, più antichi. Ma nel caso specifico di Umm al-Dabadib a ciò si somma un altro problema: “guardando al rapporto costi/benefici e alla sostenibilità di far vivere in un sito senza acqua né elettricità un team di 25-30 persone, gli scavi comprometterebbero l’equilibrio naturale e l’integrità del sito, iscritto assieme al resto dell’oasi nella Tentative List dei siti UNESCO che uniscono cultura e natura”.  

Archeologi e architetti del Politecnico hanno dunque studiato il rilievo 3D del sito comparandolo con lo studio metrologico degli edifici (ovvero ricostruendo la geometria della parte emersa dei detriti): hanno così potuto ipotizzare cosa ci fosse sotto. “Una volta che avevamo le idee chiare, siamo andati a colpo sicuro: quando abbiamo scavato, abbiamo trovato esattamente quello che ci aspettavamo. Questo ci ha permesso di individuare con maggior precisione le aree a cui dedicare ulteriori approfondimenti”. Oltre alla tecnologia, sottolinea la ricercatrice, a rendere possibile la ricostruzione è stato il lavoro degli egittologi, che hanno incrociato i dati storici e quelli provenienti da altre missioni. 

LA GEOMETRIA DEGLI ANTICHI EGIZI

 Un altro aspetto che ci colpisce durante nostra chiacchierata su egittologia moderna e tecnologia è il rapporto tra architettura e matematica nell’Antico Egitto, tema su cui Rossi ha pubblicato diversi lavori. “Il modo di utilizzare l’aritmetica e la geometria nell’architettura è cambiato molto nel corso dei secoli”, ci spiega. “Ora tendiamo a guardare alle architetture del passato utilizzando concetti matematici e architettonici moderni, ma questo è sbagliato”. Pensiamo alle piramidi: nel mondo moderno, ha senso parlare di inclinazione utilizzando i gradi. Ma nell’Antico Egitto non esistevano misure angolari, si utilizzavano misure lineari: “Immagini di appoggiare il proprio gomito su un punto di una faccia inclinata di una piramide. Tenendo il braccio verticale, potrà misurare la distanza tra la sua mano verticale e la faccia della piramide obliqua: quella sarà la seked, ovvero l’inclinazione”. La piramide di Cheope, ad esempio, ha una seked di 5 palmi e due dita, pari a circa 52° moderni. “Utilizzare i gradi serve a noi per comunicare tra noi in maniera più immediata, ma se intendiamo comprendere davvero il metodo costruttivo antico dobbiamo cambiare prospettiva per acquisire una visione più chiara della situazione”. 

POLI E MUSEO EGIZIO: UNA COLLABORAZIONE CHE GUARDA AL FUTURO

 Oltre al progetto LIFE, ora è in corso anche una collaborazione tra il Poli e il Museo Egizio. Com’è nata? “Ci siamo trovati”, afferma ridendo la professoressa Rossi. “Il Direttore Christian Greco ha avviato una grande opera di rinnovamento del concetto stesso di museo, che è un’enciclopedia materiale del nostro passato, e deve servire non solo a conservare dei reperti importanti, ma anche e soprattutto a fare ricerca. Noi collaboriamo a sperimentare nuovi modi di studiare gli oggetti, con la libertà d’azione fornita dal Politecnico in termini di ricerca e dall’essere fuori dagli schemi del mercato”.  

E se ci spingessimo a parlare di metaverso in un museo 2.0? “In potenza l’ambito digitale può servire a ricontestualizzare gli oggetti, ma siamo ancora in fase di sperimentazione, e soprattutto esiste un problema fondamentale: l’impegno necessario per produrre contenuti digitali viene troppo spesso sottovalutato. Non basta produrre il modello 3D di un oggetto, occorre costruire la ragnatela di informazioni che ruotano intorno all’oggetto stesso per poter comunicare la sua storia. Egualmente, per costruire un ambiente digitale in cui muoversi bisogna conoscerlo bene, e per conoscerlo bene ci dev’essere una schiera di egittologi e informatici dedicati a creare il luogo da riprodurre nel metaverso. Si tratta di una direzione molto promettente alla quale però andranno dedicati investimenti ingenti.” 

IN VOLO PER SAQQARA

 Abbiamo rubato questa intervista alla professoressa Rossi ritagliando del tempo tra un volo di ritorno da Bruxelles, dov’è stata panel member per i progetti ERC, e uno di andata per l’Egitto, dove sarà impegnata ad aiutare il Museo Egizio a Saqqara. “Il nostro compito è realizzare un rilievo tridimensionale della stratigrafia, cioè fotografare ogni strato archeologico mano a mano che viene portato alla luce dagli archeologi”. Un altro aiuto che viene dalla tecnologia: disegnare ogni strato sarebbe un processo molto più lungo e meno preciso, mentre fotografarlo permette di catturare dettagli che, a volte, possono sfuggire agli archeologi stessi che si occupano degli scavi. 

QUALCOSA DI PERSONALE

 Prima di congedarci, chiediamo a Rossi di raccontarci la scoperta più emozionante che ha fatto nella sua carriera. “Gliene dico due: una fortemente voluta, l’altra del tutto casuale. La prima risale al 2022, quando nel sito di Umm al-Dabadib (quello del progetto LIFE, NdR) abbiamo rinvenuto i primi quattro papiri mai ritrovati lì. Due sono lettere complete e intatte, e una non era mai stata aperta: un’emozione indescrivibile”. 

“La seconda scoperta, quella casuale, risale a vent’anni fa: lavoravo a Tell el-Amarna con la missione britannica, e camminando nella sala dell’incoronazione del faraone Smenkhkare sono letteralmente inciampata su un sasso… che non era affatto un sasso, ma il frammento di una statuetta di principessa amarniana (della località di Amarna, NdR). Chissà com’è possibile che nessuno l’avesse trovato prima di me!”

Telegrafica: tre cose che l’hanno fatta innamorare dell’Egitto. “La geometria delle piramidi, il deserto, la natura che è ancora preponderante non appena si scappa dalla città”.